Storia di Augusta, nata nobile e diventata illustratrice

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Augusta Rasponi del Sale, nota col nome di Gugù, nasce a Ravenna da una famiglia nobile nel 1864. Il padre era un conte di idee progressiste, sostenitore di Garibaldi, e socio fondatore del Circolo dei Ravennati  (chiamato un tempo “Zircul di Sgnur” circolo dei signori). La madre bellissima e dall’aspetto molto fine  proveniva da una facoltosa famiglia di Bologna. Gugù oltre ad essere nobile e ricca aveva un’educazione all’avanguardia, conosceva più lingue a tal punto da diventare una traduttrice, come non bastasse tutto ciò fu un’abile artista, i suoi delicati disegni, tutti dedicati al mondo infantile, mostrano una linea dolce e pulita, dal tratto sicuro, i temi sono sempre fantasiosi e allo stesso tempo reali, dimostrano la grandezza d’animo di Gugù. Gugù venne anche presentata a corte, dalla regina Margherita, quel giorno fu accompagnata da un’amica, forse fu per l’emozione, quando la regina le porse il saluto, Gugù non riuscì di rispondere e rimase muta come un pesce. Uscendo l’amica le disse: “Gugù sei un’oca!”. Forse sul momento Gugù si sentì offesa, ma conoscendo senz’altro la simbologia positiva dell’oca, questo pennuto divenne nei suoi disegni la mamma intelligente ed amorosa di tanti bambini. Gugù non si sposerà mai e non avrà bambini,  metaforicamente l’oca dei suoi disegni è Lei, umile dedita ai più bisognosi, in primis ai piccoli, impegnandosi a fondo non solo per sfamarli, ma per insegnare un mestiere alle loro mamme e per istruirle  su come allevare i neonati, in anni in cui la mortalità infantile era molto alta soprattutto nelle campagne. La sua dedizione è totale, non solo con il suo tempo, ma con tutto il suo patrimonio, e come s’arrabbia quando va a chiedere soldi ed aiuto ai suoi amici nobili e ricchi se loro tentennano. Quando muore, a Ravenna, nel 1942, non possiede più nulla. Di tutto il denaro e dei palazzi di famiglia rimaneva una sola stanza… non possedeva più nulla, perché lei non ha voluto nulla di ciò che alla fine è solo vuoto, neanche la fama. Nel 1900, a Londra  uscì il suo libro illustrato“Mother Duck’s Children” ( bellissimo!). A Londra  al  Vittoria and Albert Museum, sono esposti molti suoi disegni. Nonostante le richieste Gugù disegna solo per gli amici e per i bambini soprattutto quelli ricoverati presso l’istituto di S. Teresa del Bambin Gesù che opera ancora oggi  nel campo della solidarietà e dell’aiuto dei più deboli.

  articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 07/07/2014

Brividi russi al Festival

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Nel 1914 nulla poteva evitare la guerra. A causa di un eccezionale sviluppo industriale quasi tutte le nazione europee avevano enormi quantità di armi micidiali e di flotte militari. Francia e Inghilterra volevano bloccare l’espansionismo tedesco, inoltre la Francia voleva riprendersi l’Alsazia e la Lorena. L’Austria e la Russia speravano di risolvere le loro difficoltà interne, così l’attentato a Sarajevo fu il pretesto per la Grande Guerra che sarà anche chiamata la vergogna dell’Umanità. Nel 1917 l’orrendo macello era ormai evidente a tutti ma non si vedevano sbocchi. La popolazione europea era stanca per la fame e le sofferenze, i più fortunati avevano visto tornare a casa i loro cari orrendamente mutilati. Numerosi furono gli episodi di diserzione, di automutilazione e di ammutinamento, con i conseguenti processi e le fucilazioni ai militari, a orrore se ne aggiungeva altro. Mio nonno fu fortunato ritornò a casa da Vittorio Veneto e si sposò con mia nonna, la quale era analfabeta e si innamorò di lui perché sapeva leggere. “Come hai fatto a salvarti nonno? Sparavi al nemico?”. “Ma cara la mia bambina l’unico obbiettivo era cercare un buco dove nascondersi”. Il XXV Ravenna Festival sarà dedicato al 1914, anno d’inizio del conflitto, quest’anno ne ricorre il centenario. Dal 5 giugno all’11 luglio a Ravenna, si svolgeranno una serie di spettacoli con artisti di fama mondiale. La Russia si ritirò dalla guerra perché le era scoppiata in casa la Rivoluzione, pensate che in Russia nel 1861 c’era ancora la servitù della gleba! Mi chiedo sempre se ciò non sia dovuto anche ai fiumi di vodka che là scorrono. Ma la mia non è una critica perché amo i russi, il loro folklore, la musica, la danza, la letteratura, il teatro e la loro galanteria. Così sono andata al Pala de André ad ascoltare l’anima  russa, con la Czech Philharmonic Orchestra diretta da Valery Gergiev, direttore ormai di casa a Ravenna, e Yeol Eum Som valida pianista sudcoreana. Serata calda, tanta gente, il Pala quasi pieno. Il tempo è trascorso piacevolmente con una serie di brani tratti da “Il lago dei cigni” di Čajkovskij; è continuato serenamente con l’opera 18 di Rachmaninov eseguita egregiamente dalla pianista. Il pubblico ha applaudito calorosamente. Poi è successo qualcosa, un brivido mi ha scosso la spina dorsale. Era iniziata l’esecuzione di “Quadri di un’esposizione” di Mussorgskij con trascrizione per orchestra di Ravel. Si tratta di passeggiate dall’armonia simile in cui ci sono vari incontri (chiamati quadri), alcuni belli altri meno, immaginatevi Cappuccetto Rosso nel bosco. Più si andava avanti, più in me il turbamento avanzava, avevo le braccia nude con la pelle d’oca, ma non per il freddo. Quasi alla fine del brano quando c’è l’incontro con Baba Jaga ho capito che la nostra vita è un inferno e che forse ci piace così e che il paradiso può essere un po’ noioso. Baba Jaga è un personaggio della mitologia slava, in particolare di quella russa, corrisponde un po’ al nostro “Uomo nero”. Nei racconti della Russia, è una vecchia strega orribile,vive in una capanna che poggia su due zampe di gallina,le cui mura sono fatte di ossa umane. Baba Jaga  è collegata alla leggenda del Cavaliere Bianco che rappresenta il giorno; del Cavaliere Rosso, che rappresenta il sole; del Cavaliere Nero che rappresenta la notte. Baba-Jaga è un simbolo dell’inferno, collegata alla paura, all’ignoto e alla morte. E questo terrore è reso perfettamente dalla musica di Mussorgskij, il cui violento espressionismo mi è esploso nelle viscere. Quasi batto i denti dalla paura o dal piacere?A metà quadro gli strumenti sono quasi in silenzio ciò incute ancora più terrore: cosa succederà? Stridore, tempesta, boati, fucilate e in sottofondo colpi sordi e profondi, può il frastuono essere silenzioso? Mi piace l’inferno o ne ho timore? Sono tesa come una corda di violino, il Maestro sembra  dirigere dei demoni. Nell’ultimo quadro: “La grande porta di Kiev”, la tensione si allenta, sta succedendo qualcosa in cui non credo: la salvezza, il paradiso, la liberazione dal male. Dopo la tragedia una catarsi grandiosa! L’epilogo un trionfo per il Maestro, per i musicisti e per la vita.   

immagine: il concerto al Pala de André

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 26/06/2014

Nella casa Diedi l’eccidio di Girolamo Rasponi

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A Ravenna, lungo la via Raul Gardini, vi è una bella palazzina veneziana dall’ameno balcone: è la Casa Diedi, tristemente famosa per l’eccidio eseguito da Girolamo Rasponi ai danni dell’intera famiglia Diedi. Nel 1570 circa, Bernardino Diedi, figlio di Francesco, aveva chiesto in sposa Susanna, figlia di Bernardino Rasponi, nonostante una precedente promessa di nozze a un’altra sorella di Girolamo Rasponi. Susanna, rinchiusa in casa ma decisa a sposare Bernardino, fu martoriata dal fratello con 14 ferite di stiletto. Si salvò e riuscì a convivere con Bernardino. Dopo che ella ebbe dato alla luce una bambina e fu di nuovo incinta Girolamo Rasponi impazzito di rabbia, decise di vendicarsi: partì dal suo palazzo con 50 banditi alla volta di Casa Diedi, vi entrò alle 3 di notte. A colpi di archibugio e coltellate, uccisero il vecchio Francesco Diedi e il fratello canonico, madonna Giulia e la gestante Susanna. Bernardino si gettò dalla finestra e fu finito a pugnalate dai sicari per strada. Scampano all’eccidio il fratello di Bernardino: Antonio che si copre con un cadavere. Un altro fratello: Bellino fugge, ferito, con la figlioletta della povera Susanna. Insomma una vera strage di altri tempi in nome della gelosia, dell’onore e dell’arroganza. Il palazzo di Girolamo Rasponi, il crudele assassino, fu fatto abbattere in pochi giorni dal Presidente di Romagna (anno 1576) il quale fece spargere il sale sull’area scoperta per significare che mai più su di essa si dovesse rifabbricare a riprovazione perpetua dell’atroce misfatto perpetrato contro la famiglia Diedi. I Rasponi di Ravenna provenivano dalla Sassonia, venuti in Italia al seguito di Carlo Magno. Un Rasponi  nel 1050 stabilì la sede della sua famiglia a Ravenna, dove divenne ben presto potente ed autorevole. Nonostante fosse di parte ghibellina, non mancò di favorire spesso gli interessi della Santa Sede, ricevendone in cambio cariche ed onori. Ma i benefici papali non impedirono a Ostasio Rasponi  d’impadronirsi nel 1522 del potere assoluto, dopo aver trucidato in pubblico chi ne reggeva per la Santa Sede il governo; quindi lotte, discordie, ed infine come ho già scritto all’inizio, l’uccisione  dell’intera famiglia Diedi. Ci furono anche Rasponi illustri, capitani  valorosi  e poi governatori, ambasciatori, vescovi ed un cardinale. Nel 1705 i Rasponi diventano marchesi.       
 

 immagine: Casa Diedi Ravenna

articolo già pubblicato sul quotdiano “La Voce di Ravenna” il giorno 23/06/2014

L’ANNO NUOVO ANTICHISSIMO

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Pare che il Capodanno abbia origine in Mesopotamia, sin dai tempi remoti del secondo millennioa. C., i mesopotamici credevano che l’universo fosse nato dopo una violenta notte fra il loro dio Marduk e la dea del  caos chiamati. La vittoria andò a Marduk. Ogni anno l’impresa era ricordata. Si ricreava il caos, bevendo, permettendo agli schiavi di insultare i padroni e commettendo atti immorali. Si trovano cenni alla celebrazione del Capodanno anche tra gli antichi egizi. Qui la protagonista diventa Hathor, la dea dell’amore e della gioia, della musica e della danza. Nell’antica Roma i rituali del Capodanno erano molto complessi. Il mese di gennaio era sacro a Giano, egli proteggeva le entrate e le uscite, e simbolicamente, anche l’anno che se ne andava e quello che arrivava. Per questo motivo era rappresentato con un volto barbuto e anziano e uno giovane. I romani avevano mutuato gianodalla dea celtica Juana. Janua è la Signora del Tempo e madre degli Dei, è la divinità dei passagi, è la porta e rappresenta il ciclo dell’eterno divenire. Genova deve il suo nome a Lei, (Genua) la porta sul mare. A questa divinità i sacerdoti offrivano farro e una speciale focaccia, chiamata ianual, fatta di formaggio, farina e uova. Quello stesso giorno i romani usavano invitare a pranzo gli amici,scambiarsi vasi di miele con datteri e fichi come augurio di fortuna e felicità. Anche in questo caso l’inizio dell’anno nuovo assumeva un significato religioso mescolato però a sregolatezza e a festeggiamenti sfrenati. La data del Capodanno è cambiata nel corso del tempo, fra gli antichi celti si celebrava tra il 31 ottobre e il 2 novembre, come fine del ciclo agricolo ed inizio del nuovo. L’uso in voga oggi di iniziare l’anno dal 1 gennaio cominciò con la riforma del calendario voluta da Giulio Cesare, successivamente quando il calendario fu adottato dai cristiani, si continuò a festeggiarlo in tale giorno perché la ritenevano la data della circoncisione di Gesù, circonciso, secondo la legge ebraica, l’ottavo giorno dalla nascita. Nel corso del Medioevo fu sostituito da altre date, per esempio il 1 marzo, che fu usato  nella repubblica veneta fino al 1797. Oppure il 25 marzo in Toscana per ricordare il concepimento di Gesù. In Francia si festeggiava con la Pasqua. Altrove il 1 settembre o per Natale. La chiesa termina l’anno con San  Silvestro e lo inizia con la Madre di Dio. San Silvestro fu incoronato papa da Costantino. Sembra poi che il Santo abbia battezzato l’imperatore Costantino, chiudendo così simbolicamente l’era pagana e aprendo la nuova era cristiana dell’Impero. Una leggenda racconta che San Silvestro liberò un paese in provincia di Rieti, da un drago che viveva in una caverna, cui si accedeva attraverso 365 gradini. Possiamo quindi constatare che anche la Chiesa metaforicamente chiude l’anno con l’uccisione del drago, quindi del vecchio,ed inizia l’anno nuovo sotto la protezione della Madonna come Madre. E adesso passiamo ai festeggiamenti. Oltre diecimila anni fa gli uomini, da poco dediti all’agricoltura, festeggiavano al culmine dell’inverno lo scampato pericolo. Infatti, da quel momento in poi, la stagione non avrebbe potuto che migliorare. Perciò approntavano i cibi e le bevande risparmiate e facevano festa tutti insieme. Il vischio usato per il bacio di Capodanno era una pianta sacra ai celti. Si credeva che le sue bacche lattiginose contenessero il seme fertile, quindi baciarsi sotto il vischio è simbolo di fertilità. Ma non è tutto qui, il vischio era sacro alla dea dell’amore Freya, la più nota e amata delle dee nordiche, famosa  per la sua bellezza, è la dea dell’amore. Quindi il bacio sotto al vischio non è solo benaugurale ma speranzoso.

immagine: San Silvestro e il drago

articolo già pubblicato sul quotidiano:”La Voce di Romagna” il giorno 02/01/2014

Buon compleanno Donald Duck, sei tutti noi

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Il mio eroe si chiama Paolino Paperino, ma è conosciuto in genere come Paperino, il papero bianco con becco e zampe arancioni, con la casacca e il berretto da marinaio, tanto fifone ma “pittarrino” all’inverosimile,  pigro quanto scatenato, bugiardo, svogliato, invidioso, truffaldino e incapace, con tre nipoti pedanti che gli risolvono ogni cosa e innamorato della  sua eterna fidanzata Paperina per cui fa ogni sacrificio. Paperino è la sfortuna fatta in persona, c’è sempre qualcosa che va storto, ha l’animo dell’imprenditore ma non ha mai il becco di un quattrino, uno zio miliardario che non molla un centesimo e un cugino a cui capitano tutte le fortune e che cerca pure di portargli via la morosa. Paperino è tutti noi, che non riusciamo mai a fare il salto, sempre ad abbassare la testa perché “tengo famiglia”, sempre a fare i conti con le bollette, sempre a subire vessazioni di altri come noi, perché la voce di solito non la si alza al “potente” ma al presunto “inferiore”, guardando di sottecchi con invidia chi ha tanto più di noi. Paperino è l’antieroe eppure vince sempre in simpatia, chi vorrebbe a cena Paperone o Gastone  o quel saccente di Topolino? E come dentro di noi abbiamo un alter ego vincente che ci lenisce la nostra inadeguatezza, ci permette di essere eroi all’occorrenza e ci fa sentire utili agli altri così pure il nostro papero si trasforma in Paperinik, il vendicatore mascherato. Paperino è un pasticcione sfortunato, pigro, squattrinato, nelle cui disavventure è più facile immedesimarsi, a differenza delle storie che riguardano il sempre vincente Topolino. Senza contare l’antipatico Gastone a cui va tutto liscio. Ecco perché amiamo Paperino, lui è ognuno di noi, come noi è pieno di difetti ma come noi è teso al bene, all’amare, lo vorremmo tanto ma la nostra pochezza ce lo impedisce: buon compleanno Paperino, 80 anni sono tanti ma tu li porti bene. Ora Paperino avrà nuove avventure alcune ambientate in Romagna, precisamente a Faenza. Jacopo Cirillo, è riuscito a coronare il suo sogno di bambino. Trent’anni, una laurea in scienze delle comunicazioni, Cirillo è infatti uno dei più giovani sceneggiatori della famiglia Disney. Jacopo afferma che si diverte molto a inserire tra i personaggi disneyani, amici e luoghi di Faenza, dove torna spesso perché vi vivono i suoi genitori, ma anche per ritrovare la  calorosa ospitalità della sua Romagna.  

immagine: Paperino

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 16/06/2014

Quando la peste si fermò alle porte di Faenza

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La peste fece sentire tutta la sua tragicità, nella prima metà del secolo XVII soprattutto in Nord Italia. I primi  sentori della calamità si ebbero in Lombardia alla fine del 1629, Alessandro Manzoni riferisce che portò via un milione di persone, tra la Lombardia, il Veneto, il Piemonte, la Toscana e una parte della Romagna. Una parte sola di Romagna si salvò: la città di Faenza, la peste si fermò a pochi chilometri sul Senio. In Faenza era allora Commissario Pontificio Monsignor Gaspare Mattei, che dovendo impedire che il morbo arrivasse in città fu inflessibile, condannava alla forca chi in qualunque modo si mettesse in contatto con quelli che abitavano oltre il Senio, non parlava che di impiccare, sono parole dei coevi, e girava sempre accompagnato dal boia coi capestri pronti. Crudele forse ma la cosa è provata storicamente, la peste non entrò in Faenza, quindi vi fu un fine che giustificò ogni cosa, non per niente ciò che sembra cattivo è a volte bene, forse fu la Fede che resse l’animo a Mons. Mattei per eseguire la sua carica al meglio. Mentre Mons. Mattei si dava da fare in tal modo, il Vescovo di Faenza il Card. Francesco Cennini (1623 – 1643), non trascurava lo spirituale convinto che il rigore del Commissario Mattei potesse molto, ma non tutto, perciò invitava i fedeli alla preghiera. Ci fu un affollarsi continuo di credenti davanti all‘immagine della Madonna delle Grazie, la quale è la principale patrona della città di Faenza. Il 15 giugno 1630 si fece una grande processione con un  inverosimile partecipazione popolare. La cosa impressionò il Commissario Pontificio che d‘accordo col Vescovo decisero d‘incoronare l‘immagine della Vergine delle Grazie in segno di riconoscenza, inoltre  fissarono la seconda domenica di maggio ogni anno, in perpetuo fosse la Festa della Madonna della Grazie. Il culto della Beata Vergine delle Grazie di Faenza ha origine nel 1412, quando la Madonna apparve alla nobile faentina Giovanna con tre frecce rotte in ogni mano, assicurandole che Faenza sarebbe ben presto stata libera dalla peste. Molte volte la città di Faenza si è rivolta alla B. V. delle Grazie, in occasione della grande peste di cui parla Alessandro Manzoni, e in altre occasione di pestilenze ma soprattutto di terremoti. Quasi ogni porta di Faenza ancora oggi è contrassegnata da un‘immagine della Beata Vergine delle Grazie.

 immmagine : Processione di San Carlo contro la peste (Duomo di Faenza)

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 09/06/2014

Quando il poeta canta le gesta di Gog e Magog

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Gog e Magog sono leggendarie popolazioni dell’Asia centrale, citate nella tradizione biblica e in quella coranica, quali genti selvagge, fonte di terribile minaccia. In varie epoche furono identificati con sciti, goti, mongoli, tartari, magiari, russi, tedeschi, cinesi o indiani. Anche il luogo delle popolazioni Gog e Magog venne fantasiosamente collocato in varie mappe. Gog e Magog, sono esseri misteriosi che la Bibbia rappresenta come re di popoli di giganti, nemici di Israele, interpretati come precursori dell’Anticristo. Nell’Apocalisse Giovanni descrive una grave  catastrofe che si avvererà quando Satana si metterà a capo di tutte le nazioni, riassunte sotto i nomi Gog e Magog (XX, 7-8). Mentre il profeta Ezechiele parla di un principe di nome Gog del paese di Magog. Nel corano Gog e Magog arriveranno verso la fine del mondo prorompendo e devastando la terra degl’infedeli. I geografi arabi collocano il territorio di quel popolo nella parte nord-est dell’Asia. La storia di Gog e Magog si intreccia anche con una delle tante leggende nate intorno alle imprese di Alessandro Magno, per sbarrare il passo alle feroci popolazioni di Gog e Magog che si nutrivano di carne umana, il re macedone avrebbe fatto costruire una porta di bronzo destinata a rimanere in piedi fino alla fine del mondo. Nelle leggende del tardo medioevo diventano due giganti nipoti dell’imperatore Diocleziano che vivono in Britannia. Adesso voi penserete cosa c’entrano questi selvaggi e mitologici Gog e Magog con la Romagna? Giovanni Pascoli nei Poemi conviviali ripropone questo mito, componendo un poemetto dalle tinte oscure e nefaste dove al tramonto echeggiano urla di uomini e scalpitare di cavalli, Gog e Magog un’orda selvaggia si lancia alla conquista, i barbari sono arrivati, la fine del mondo è vicina… Pascoli forse ha un presentimento sull’avvenire dell’umanità minacciata dai selvaggi ma forse è anche il popolo degli oppressi e dei diseredati che acquista alla fine il pane da sempre negato. “Alla gran Porta si fermò lo stuolo:/sorgeva il bronzo fra l’occaso e loro./Gog e Magog l’urtò di un urto solo./La spranga si piegò dopo un martoro/lungo: la Porta a lungo stridè duramente,/s’aprì con chiaro clangor d’oro./S’affacciò l’orda, e vide la pianura,/le città bianche presso la fiumane/e bionde messi e bovi alla pastura./Sboccò bramendo e il mondo le fu pane”.

 immagine: Gog e Magog nella city di Londra

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il  giorno 04/08/2014

 

 

 

Storie di Sarsina

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Lungo la E45, superstrada per Roma, a 30 km da Cesena si trova Sarsina un paese di origine antichissima, forse fondato da popolazione di origine umbra verso il V secolo a.C. Questi Umbri pare che non fossero altro che una propaggine dei Celti o se volete dei Galli. Un tempo Sarsina era chiamata Sassina e tutto ciò che è legato all’etimologia del sasso è allacciato alla religiosità celtica. Il paese è situato nella valle del Savio, l’antico Sapis, derivazione da cui ha origine il nome per la tribù Sapina (cioè i Sabini che discendono per migrazione dagli Umbri, quei Sabini a cui i Romani rapirono le donne, le Sabine erano reputate modello di onestà e prudenza). Successivamente la diocesi di Sarsina viene chiamata col nome di Bovium o Bobium per tutto il Medioevo, il vescovo porta ancora il titolo di conte di Bobbio.L’etimologia della denominazione Bobbio, viene attribuita alla presenza in queste terre dei Galli Boi.  Sarsina ha anche un altro fiumiciattolo, denominato Borello affluente del Savio. Per l’origine di questo toponimo è opportuno fare riferimento alla derivazione del nome Borro, del quale Borrello costituisce un diminutivo, un termine della lingua celtica con significato di fiero, altero, grande, eroe. Già nel III secolo a.C. Sarsina governava un grande stato che comprendeva alcune vallate romagnole e l‘alto Tevere, quindi Sarsina era già un luogo molto importante prima dei Romani, i quali la conquistarono nel 266 a.C. Nel I secolo a.C. Roma diede la concessione della cittadinanza romana a tutte le città federate tra cui Sarsina  la quale ebbe un buon sviluppo economico ed urbanistico con la costruzione di mura e la presenza di mausolei per i notabili del luogo. Chi visita il Museo Archeologico di Sarsina si troverà sorpreso per la magnificenza dei tappeti  in mosaico policromo che raffigurano il “Trionfo di Dionisio”, Il dio è rappresentato sopra un carro trainato da tigri, e accompagnato da un giovane satiro e da Pan, attorniati da animali e uccelli. Poi epigrafi e lastre funerarie affiancate all’imponente Mausoleo di Rufo, alto 14 metri. Molto importanti sono anche le attestazioni dei numerosi culti praticati, legati al mondo greco, alla tradizione italico-romana, fino al mondo orientale. Nel Museo è conservato, un gruppo di statue raffiguranti divinità frigie ed egizie, che costituivano il santuario più importante dell’Italia settentrionale dedicato a questi culti. Tra queste emerge per bellezza la statua di Attis: rinvenuta nel 1923  è alta 150 cm. Ridotta in frammenti, forse dai primi cristiani, è stata oggetto di un complesso restauro. Ma vediamo un po’ perché i cristiani avrebbero ridotto in frantumi la statua di Attis… non avevano tutti i torti. La leggenda di Attis racconta di un pastore frigio divenuto pazzo d’amore per la  dea Cibele così egli si evirò per poterle stare accanto. Questo culto si diffuse dall’Oriente sino a Roma generando riti al di fuori di ogni logica. In primavera, durante la festa in onore di Attis, i devoti  si autoeviravano mentre altri venivano flagellati da sacerdoti vestiti da donna (erano quindi eunuchi), al termine di questa carneficina i partecipanti celebravano la resurrezione di Attis. Pensate che persino un imperatore: Eliogabalo, giunse ad evirarsi per poter essere sacerdote di Cibele. Attis ha molte analogie con Cristo, la più evidente è il simbolo della resurrezione, pensate ai cristiani portatori di un messaggio di pace e amore, Cristo che si sacrifica per tutti, e questi pazzi che continuano in una religione sanguinosa che non ha più ragione di esistere, legata all’uomo del Paleolitico che aveva altri bisogni, altre paure. La Frigia corrisponde più o meno all’odierna Turchia, inizialmente fu il regno degli Ittiti, poi fu occupato dai Frigi che scolpirono imponenti templi sui fianchi delle montagne per la loro dea madre Cibele. Poi arrivarono i Celti nel 278 a.C., fondarono il Regno di Galazia. Furono poi sconfitti dai Romani. Probabilmente certi riti cruenti erano celebrati anche nella religione celtica, a Sarsina vi è una bella testimonianza di come l’antica religione si sia poi sottomessa amorevolmente al messaggio di Cristo…continua  

immagine: Il trionfo di Dionisio (Sarsina)

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 09/06/2014

La favola romagnola delle Lamie. Una è a Ravenna

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Nella mitologia esistono demoni femminili che possono essere considerate figure vampiriche perché come loro sono assetate di sangue. Sono le Lamie e la loro favola esiste anche in Romagna. A San Giovanni Evangelista a Ravenna, vi è una lastra mosaicata del XIII secolo, oggi esposta su un pannello musivo, un tempo facente parte del pavimento della chiesa, che raffigura la Lamia con uno strano corpo un po’umano, un po’serpente un po’uccello, chissà se mai qualcuno, nei tempi antichi, ha creduto alla sua esistenza. Oppure può darsi fossero donne sanguinarie e senza freni e perciò vennero raffigurate così. Lamia secondo il mito era una regina della Libia che aveva avuto da Zeus il dono di togliersi e rimettersi gli occhi a proprio piacere. Attirò su di sé la rabbia di Era gelosa, che si vendicò uccidendole i figli avuti da Zeus. Lamia, lacerata dal dolore, diventò un mostro, aveva però la capacità di mutare aspetto e di divenire bella per sedurre gli uomini allo scopo di berne il sangue. In altre versioni, divorava i bambini delle altre madri, succhiando il loro sangue. Nel Medioevo e nel Rinascimento divenne la strega per eccellenza, ma in altre epoche fu la Sirena o la Fata Melusina. L’identificazione della Lamia coi riti di sangue e la stregoneria è un dato che forse risale alla preistoria, quando si notò il sanguinamento mensile femminile, a cui la donna sopravviveva, sangue che era finalizzato alla fertilità, e che rendeva le donne detentrici del potere di morte/vita. Forse la creazione della Lamia fu un simbolo della vittoria della società patriarcale su quella matriarcale. Un’altra caratteristica che accomuna le Lamie ai vampiri è la capacità di trasformarsi in uccello notturno. L’origine di questa figura va probabilmente ricercata nell’archetipo della dea della notte (magia, soprannaturale, mistero, ma anche morte) spiega, almeno in parte, l’ambivalenza di sentimenti nei confronti della Lamia. C’era un modo, nel Medioevo, per catturare la Lamia, bisognava cospargere le panche della chiesa di sale grosso: quelle streghe che, nascondendo la propria vera natura si fossero sedute fingendo di presenziare alla cerimonia religiosa, sarebbero inevitabilmente rimaste attaccate alle panche. Può sembrare un metodo schiocco, ma forse chi si sentiva in difetto, non si sarebbe mai seduta sul sale… quindi strega era chi aveva paura del sale.   

 immagine: Lamia pannello musivo XIII sec. San Giovanni Evangelista (Ravenna)

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 02/06/2014

La settimana Rossa che scosse la Romagna

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 Il romagnolo un po’ “zuccone” lo è , anche se a volte la testardaggine può diventare la “capacità del leader” e trasformarsi così in un aspetto positivo. Nella Romagna repubblicana e socialista, alveo anche dell’anarchia, l’organizzazione operaia  e quella contadina decisero per il fatidico sciopero del 9 giugno del 1914, causando la Settimana rossa, quest’anno ricorre il centenario, è bene così ricordare questo evento come monito contro nuove posizioni oltranziste. Il comizio si tenne a Ravenna, diciottomila scioperanti, un numero eccezionale se si considera che la città e i suoi sobborghi non contavano più di ventimila anime. Al termine del comizio si proclamò lo sciopero generale e minacciosi cortei iniziarono a creare un’atmosfera tumultuosa ed esaltata. Si verificarono i primi gravi scontri, il prefetto ordinò di tenere al buio la città, mentre dai paesi della campagna arrivavano notizie di saccheggi e danneggiamenti a chiese e case comunali. La mattina successiva si sparse la voce che tutta l’Italia fosse insorta e che ci fosse la rivoluzione. I rivoltosi bloccarono strade, incendiarono chiese. A Mezzano denudarono un prete, la leggenda narra che fu portato in giro nudo per il paese in groppa ad un asino, tra il sollazzo generale. A Godo si proclamò la Repubblica, i preti vennero bastonati, le chiese distrutte, i pali del telegrafo segati, i vagoni ferroviari rovesciati, si credeva che in tutta Italia si stesse combattendo. Cavalleria e fanti corsi ad aiutare i carabinieri non bastavano, fu così che il prefetto passò il potere alle forze armate. Il generale comandante la divisione di Ravenna mobilitò tutti gli uomini disponibili anche i cuochi ed i furieri, pure la banda musicale, fece piazzare le mitragliatrici a tutte le porte di Ravenna e bloccò la città. I rivoltosi delle campagne non avendo più ordini dal centro si acquietarono, ma ciò che più li calmò non furono le mitragliatrici o la mancanza di ordini dalla città, fu che si sparse la voce che in Italia nessuno si era sollevato e che i romagnoli erano i soli rivoluzionari. 

 immagine: Settimana rossa ad Alfonsine

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 26/05/2014