IL MIRACOLO DI STELLA MARIS

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Dante Alighieri scrive nella Divina Commedia, al Canto XXI del Paradiso : “… e Pietro peccator fu nella casa di Nostra Donna in sul lito adriano “, con ”Nostra Donna” intende la Madonna Greca di Ravenna.E’un bassorilievo di marmo proveniente da Costantinopoli al quale è legata una leggenda. La raffigurazione è in posa orante con le vesti finemente drappeggiate, presenta undici piccole croci dorate, è nimbata e coronata, in due clipei ribadisce il suo titolo: Madre di Dio. E’ bianca come la neve ma ha tutta la simbologia di una Vergine Nera: è la Stella del Mare, la Madonna che si festeggia la Domenica in Albis come la Madonna del Carmelo di Pagani (Salerno). Pietro degli Onesti appartenente ad una facoltosa famiglia di Ravenna, per umiltà si faceva chiamare “peccatore”, devotissimo alla Madonna, partì da Ravenna ed intraprese un viaggio in Terrasanta, dove rimase sino al 1096. Quando i Saraceni invasero i Luoghi Santi fu costretto ad andarsene. Nel viaggio di ritorno si trovò con il suo imbarco in balia delle onde. Mentre tutti pensavano di perire nel naufragio, Pietro pregava ardentemente la Madonna Stella del Mare promettendole con un voto di erigere in suo onore una chiesa se Lei li avesse salvati. All’istante il mare si calmò e i naviganti approdarono al porto di Ravenna salvi. Pietro adempierà alla promessa fatta alla sua Salvatrice, la chiesa fu presto ultimata e intitolata a Santa Maria in Porto. Poco tempo dopo l’8 aprile 1100, Domenica in Albis,cioè la prima domenica dopo Pasqua, Pietro e i suoi compagni sono in chiesa, quando una luce intensa li sorprende. Escono dalla chiesa e sulle onde del mare, vedono un’immagine di Maria, tra due Angeli che reggono una fiaccola luminosa, galleggiare sulle onde. Nella sua umiltà Pietro non osa avvicinarsi, ma è l’immagine stessa che gli corre tra le braccia. Questa Madonna è molto amata e venerata dai ravennati e sarebbe giusto che i milanesi, più precisamente la Pinacoteca di Brera restituisse la Pala Portuense trafugata  e mai restituita. Eugenio di Beauharnais, viceré d’Italia( 1805/1814) e figlioccio di Napoleone volendo fare di Milano ciò che Napoleone stava facendo di Parigi, derubò a man bassa tutte le opere d’arte più belle dalle altre città, per portarle a Milano. Con la nascita del Regno d’Italia, la pinacoteca  di Brera si arricchì a dismisura, in modo da diventare il “piccolo Louvre” d’Italia. Andrea Appiani, artista neoclassico fu colui che condusse le diverse “rapine legalizzate”, in tutto il regno trasportando nel capoluogo quasi tremila opere d’arte. Caduto Napoleone, le opere non sono mai tornate ai luoghi per le quali erano state create. La pinacoteca di Brera ha così tante opere che molte sono nei suoi magazzini ed altre in deposito in varie chiese della Lombardia. La Pala Portuense è una raffigurazione del miracolo della Madonna Greca, è un’opera straordinaria di Ercole de’ Roberti,esponente di spicco della scuola ferrarese del Rinascimento. Eseguita  nel 1479/1481, a sviluppo verticale ricorda come impianto prospettico il Mausoleo di Teoderico. La Vergine è assisa in trono, alla base  sono finemente  rappresentate storie dell’infanzia di Gesù simulando dei bassorilievi. Tutta la corposa intelaiatura è finemente decorata, ma lo straordinario è la visione di un mare in tempesta con un’improbabile Ravenna fra le colline (o forse sono dune), che occhieggia impertinente fra le colonnine che sorreggono il trono della Vergine. La straordinaria vista di Ravenna è da annoverare fra i primi panorama famosi: le vedute alle spalle dei duchi di Urbino di Piero della Francesca( 1465/1472) e i paesaggi di Giorgione e di Leonardo. Ercole de Roberti era ferrarese e qui aveva certamente conosciuto Piero della Francesca, di cui non mutua la linea morbida, anzi peculio di Ercole è la linea dura e spigolosa dei ferraresi, ma certo ne afferra la spazialità. Nella Pala il panorama rammenta  il miracolo di Pietro degli Onesti, raffigurato accanto alla Madonna con Sant’Agostino, Sant’Elisabetta e Sant’Anna. Tutto in questa Pala parla di Ravenna, dalla devozione, ai personaggi, persino Dante ricorda la Madonna sul lido adriano…  cosa fa allora a Brera?    

immagine: Pala Portuense di Ercole de Roberti

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il 20/01/2014

I miracoli del Santo

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Sarsina, è la patria di illustri personaggi: Tito Maccio Plauto, scrittore latino, autore di famose commedie come il Miles gloriosus; San Vicinio, a cui si lega la tradizione del collare dalle proprietà taumaturgiche; Lucio Pisone che si distinse nella battaglia di Canne, è ricordato con un episodio in cui Lucio a terra e quasi morente, vedendo giungere Annibale gli scagliò la lancia colpendo il suo cavallo che stramazzò al suolo, al che il Cartaginese avrebbe esclamato:“Questi romani combattono anche da morti!”; infine Cesio Sabino fu un importante magistrato, abbellì la città di edifici in pietra e in marmo, fu amico dei Flavi e del poeta Marziale. Sarsina, fu conquistata dai Romani nel 266 a.C., già importante centro sotto gli Umbri, divenne con l’apertura del porto di Classe, un asse privilegiato per i traffici ed i commerci. La città iniziò il declino con la calamità di un grande incendio e poi nel V secolo con l’invasione dei Visigoti di Alarico. Sede di diocesi sin dal IV secolo, viene infine accorpata alla diocesi di Cesena- Sarsina (1976). Sarsina  sembra essere il luogo più odiato dal diavolo. Nella bella cattedrale romanica, costruita attorno all’anno Mille è conservato il collare di San Vicinio, è famoso in tutta la Romagna e non solo, ogni anno da ogni parte d’Italia arrivano i fedeli. San Vicinio, primo vescovo e protettore di Sarsina, visse tra il III e il IV secolo, si racconta che il vescovo fu eletto direttamente da Dio e che il suo collare lo usasse nei momenti di preghiera e di meditazione,  appesantendosi il collo aggiungendoci una grande pietra. Il collare ha due bracci di  ferro, terminanti con due anelli combacianti, viene usato per benedire gli ossessi, persone psicopatiche o colpite da malefici, si raccontano episodi inquietanti e anomali.  Si dice che il collare sia la mano del Santo che intercede per noi presso Dio. All‘interno della Cattedrale ci sono alcuni sacerdoti a cui compete l‘esecuzione degli esorcismi ma solo se autorizzati del Vescovo. La cattedrale è intitolata a Santa Maria Annunziata oltre ad essere naturalmente il santuario di San Vicinio, questi in vita era solito isolarsi in un bosco sul monte che oggi porta il suo nome, era un eremita, si narra che un giorno, mentre il Santo  pregava nel silenzio della montagna, una quercia piegò i suoi rami fino a terra, inchinandosi alla sua santità. I miracoli sono legati alla liberazione di un indemoniato e a un mendicante  che rubò il collare del Santo, questi giunto al fiume Savio corse a vuoto tutta la notte, ritrovandosi al mattino al medesimo punto, colto da rimorso,  gettò il collare nel fiume, dove fu ritrovato  tre giorni dopo. Probabilmente il Santo era un Druido convertitosi al cristianesimo. I Druidi erano i “sacerdoti” dei Celti avevano grandi conoscenze su tutto ciò che concerneva la natura, erano dei taumaturghi/erboristi/farmacisti. Vivevano isolati nei boschi, nelle grotte o sui monti. La quercia era l’albero a loro sacro. Il collare del Santo è simile alla torque. Per i Celti la torque era molto più di un gioiello: era un oggetto mistico, parte integrante dell‘identità del popolo. Costituiva una sorta di segno tipico della divinità e di conseguenza, indossandola ci si garantiva protezione. Un guerriero celtico andava a volte nudo in battaglia ma mai senza la sua torque. Inizialmente la torque  fu il simbolo, delle donne al potere, ovvero di principesse e donne importanti della società celtica, successivamente divenne maschile, probabile  sia un ricordo del passaggio dal matriarcato al patriarcato. Tiriamo le somme, San Vicinio vive isolato, è un guaritore, porta una specie di torque , la quercia è un suo attributo e molto probabilmente venera la Madonna, infatti il suo santuario è intitolato a Santa Maria Annunziata. Vicinio e altri Padri del deserto, forse erano Druidi che si convertirono molto spesso tramite la figura della Madonna. “I primi missionari cristiani scoprirono in Gallia un gruppo di Celti intenti a venerare una figura femminile nell’atto di dare alla luce un bambino e spiegarono agli indigeni che, senza saperlo, stavano adorando un‘immagine della Madonna e che loro erano già cristiani”.
   

immagine: mosaico raffigurante San Vicinio basilica di sarsina

articolo già pubblicato sul quotidiano “la Voce di Romagna” il giorno 16/06/2014

IL PICATRIX E’ ROMAGNOLO

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In  Romagna, non molti anni fa, diciamo cinquanta anni fa, si passavano le serate mica davanti al computer, a chattare in internet e neanche c’era il trastullo della televisione. Che facevano allora?  Si riunivano spesso nella stalla, per stare più al caldo, perché non c’erano manco i termosifoni e raccontavano eventi spaventosi, di sortilegi e stregonerie. Avevano una vita talmente grama che forse si consolavano con eventi paurosi per rincuorarsi e dire a se stessi: ”meglio non lamentarsi che le cose possono andare peggio”. Sarà un caso o no, ma l’attuale versione esistente di uno dei testi di stregoneria più conosciuti, il Picatrix , che sarebbe  l’opera di magia nera più completa che esista, proviene d a Brisighella, paese  in provincia di Ravenna. Negli anni ottanta  si scoprì che la vulgata del Picatrix si basava su una sua copia fatta proprio a Brisighella il 21 maggio 1536, in una casa presso il palazzo comunale. Il Picatrix è un libro del 1256, tradotto dall’arabo,  è un trattato che per secoli fu bollato come opera satanica. In realtà, questo manoscritto è uno dei testi redatti dagli studiosi arabi desiderosi di recuperare e rielaborare le conoscenze del mondo greco. Le opere sapienziali degli antichi cominciarono a tornare in Europa in formato originale, direttamente dall’Oriente. L’evento più importante fu la divulgazione di opere inedite di Platone, dei Neoplatonici e di molti altri. In questo clima culturale il Picatrix,  trovò la sua collocazione forse più in senso intellettuale che pratico. Il testo tratta delle corrispondenze tra simboli e forze naturali, e spiega come vaticinare il futuro studiando le simpatie tra pietre, animali, pianeti e piante, dando anche delle vere e proprie  formule magiche”, da poter applicare,    di stregoneria trasformandolo in un manuale oscuro legato all’evocazione del demonio. Durante il Rinascimento  fu usato da alcuni dei più grandi artisti e filosofi, da Pico della Mirandola, a Marsilio Ficino, a Leonardo solo per menzionarne qualcuno. Le teorie magico-scientifiche del Picatrix appaiono oggi molto ingenue. Una di queste formule recita:  “Se volete avere  la casa illuminata dovere seguire la  ricetta che segue”: “si deve prendere una lucertola nera o verde, tagliarle la coda, seccarla e allora si troverà un liquido simile all’argento vivo. Imbevete di questo liquido uno stoppino che si collocherà in una lucerna di vetro o di ferro. Se si accenderà la lampada, la casa prenderà ben presto un aspetto argentato e tutto ciò che si troverà internamente brillerà come argento”. Non credo che funzionerà, però con le bollette di Enel, sarebbe un bel risparmio. Un’altra formula recita: “Disegnate su una lamina d’argento un uomo seduto con attorno messi e piante. Fate questo mentre la luna va  dal sole verso saturno. Sotterrate poi la lamina in un luogo qualsiasi. In quel luogo cresceranno spontaneamente e prontamente piante, alberi e sementi, senza subire alcun danno da animali, uccelli o tempeste”. Anche questa magia farebbe comodo, frutta e verdura senza muovere un dito, ma temo che non funzioni e poi come si farà per sapere quando la luna va dal sole verso saturno…mah. Il Picatrix  ha oggi una nuova fama, per essere diventato protagonista, diretto o indiretto, di numerosi romanzi, come ad esempio quelli scritti da Valerio Evangelisti e da Umberto Eco.

 

immagine: una pagina del Picatrix

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il 13/01/2014

IL DOLLARO E’ NATO A RIMINI


 

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Il Tempio Malatestiano di Rimini ha le carte in regola per far parte del Patrimonio dell’Umanità, possiede opere di una bellezza inaudita, di grandi artisti, a ciò unisce un esoterismo molteplice e una particolarità unica: si celebra ancora oggi la Messa… in un Tempio pagano, fra simboli erotici, alchimia e astrologia un mix affascinante ed unico. Papa Pio II, scomunicò, nel 1460, Pandolfo Malatesta, il signore di Rimini, dichiarando che il monumento: “non sembra un Tempio di Cristo, bensì di fedeli adoratori di demonio“. Sigismondo fermò i lavori e così il Tempio è ancora oggi incompiuto. Non scrivo del Tempio, ci vorrebbero pagine e pagine, ma di una curiosità. Il Tempio è zeppo di simboli che raffigurano il dollaro statunitense. Follia…vedremo. La sigla di Sigismondo, è quasi identica al dollaro, gli studiosi la spiegano come usanza fra i principi di quel tempo di adoperare per il loro monogramma le prime due lettere del loro nome: troviamo KA per Carlo Malatesta, FE per Federico di Urbino, quindi la SI per Sigismondo Pandolfo Malatesta, che con la I sovrapposta alla S assomiglia al dollaro. I poetici asseriscono che la S abbraccia la I di Isotta, il grande amore del Malatesta. Questi con grande  sforzo riuscì a recuperare le ceneri di Giorgio Gemisto Pletone, un grande filosofo, forse un po’ dimenticato, fu il vero ideatore del Rinascimento fiorentino. Perché tanta fatica? Forse Pletone fu veramente il suo Maestro Spirituale e Iniziatore a quella religione Universale, che riconosce l’esistenza di un Dio Unico Creatore e che in ogni uomo c’è un’anima che sopravvive dopo la morte. Questa filosofia è molto legata ai Pianeti e all’ Astrologia, che pure troviamo esaltati nel Tempio. La medesima simbologia è cara agli esoteristi e agli alchimisti, fino ad arrivare ai Rosacroce e ai Massoni. La banconota degli Stati Uniti  fu adottata nel 1792 dal presidente massone George Washington e reca altri simboli di stampo esoterico. Le spiegazioni ufficiali sulla scelta della S per il dollaro non convincono e comunque è più affascinante che il dollaro abbia  un po’di Rimini e un po’della Romagna.

 

immagine: una delle tante raffigurazioni del  “dollaro” all’interno del Tempio Malatestiano  (Rimini)

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”

IL GIARDINO DEI SEMPLICI

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Incastonato come una piccola perla nel piccolo centro di Bagnacavallo, piccola città d’arte, vicina a Ravenna, vi è un piccolo giardino, piccolo, piccolino e picciò. Il Giardino dei Semplici è anche conosciuto come Giardino degli Aforismi per le sue panchine in ferro battuto con aforismi di Leo Longanesi, che qui a Bagnacavallo nacque, inscritti sugli schienali. Secondo la tipica organizzazione dei giardini che un tempo numerosi abbellivano i palazzi e i conventi ubicati all’interno delle mura cittadine, l’orto è suddiviso in quattro aree: l’umbraculum, riservato allo svago e alla meditazione e perciò caratterizzato da piante rampicanti e da viti; il pomarium, destinato alla coltivazione degli alberi da frutto;  l’horteus holeorum, in cui si coltivano le piante destinate alla cucina; l’hortus sanitatis, ovvero l’orto officinale. Vi sono viti, alberi da frutto, rose, rampicanti, graminacee, leguminose, erbe officinali, erbe aromatiche e un vasto orto tradizionale. Vi sono anche i girasoli bianchi che non si trovano in Italia, essendo coltivati prevalentemente in Inghilterra, hanno raggiunto un’altezza superiore ai 4 metri, che rappresenta un record nel genere. Tra le piante officinali, va segnalata la presenza nel giardino del fiordaliso, e della valeriana. Gli alberi da frutto, le viti e le rose sono spesso di varietà molto antiche. Qualche aforisma di Longanesi inciso sulle panchine d’autore: “Tutto ciò che non so l’ho imparato a scuola”. “Uno stupido è uno stupido. Due stupidi sono stupidi. Diecimila stupidi sono una forza storica”. “Diffidate delle donne intellettuali: finiranno per rintracciare sempre il cretino che le capisce”. “E poi si resta soli con una bandiera stinta in pugno, in un vicolo chiuso, che sarà demolito dal piano regolatore”. “Le società si fondano sopra quella sorta di romantici che sulla seggiola coltivano la nostalgia di diventare pastori di cavalli in una steppa, mandriani in alta montagna, campanari in una chiesa di valle, frati in un convento del Caucaso, falegnami in un villaggio olandese, o guardaboschi nelle selve della California, e muoiono impiegati del catasto”.

 

immagine: Giardino dei Semplici (Bagnacavallo)

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”