Romualdo l’eremita

Poppi, Eremo di Camaldoli san romualdo (4)Dopo l’anno Mille, superata la paura della fine del mondo, nasce la voglia di cambiare le cose. Lo sviluppo della città, i servi della gleba vanno dalla campagna al centro in cerca di un nuovo lavoro, nasce così l’artigianato. Ma anche nel contado, i lavoratori della terra avanzano i loro diritti ottenendo l’enfiteusi, cioè la cessione di terre incolte a condizione di migliorarle. La nascita della Cavalleria medievale e delle grandi scuole monastiche, delle grandi città marinare: Amalfi, Venezia, Genova e Pisa ed altro ancora. Ma la decadenza morale con la ricerca dei privilegi economici rimane, allora come oggi. Nella Chiesa simonia e concubinato la fanno da padroni, inoltre nel 1054 i cristiani d’Oriente si distaccano definitivamente da Roma, nel 1059 inizia la questione delle investiture mentre alla fine del secolo avviene la Prima Crociata. A fronte di questo degrado spiccano delle figure di Santi che provengono nientedimeno che dalla Romagna. Uno è San Romualdo e uno San Pier Damiani. San Romualdo (951/1027) nasce a Ravenna, da una famiglia nobile ormai decaduta, lascia la sua casa e inizia una serie di peregrinazioni lungo l’Appennino con lo scopo di riformare i monasteri e gli eremi. Converte l’imperatore Ottone III che lo nomina abate di Sant’Apollinare in Classe, ma lui rifiuta non vuole altro che essere un povero eremita, in questo e nel peregrinare ricorda un poco San Francesco ma è un po’ più aggressivo: tenta di strangolare un abate che si è comprato una carica. Fonda numerosi eremi, l’ultimo dei quali é Camaldoli, centro di preghiera e di cultura ancora oggi, nelle Foreste del Casentino. Tenta di evangelizzare il Nord Europa ma il progetto non gli riesce. La sua vita si conclude in un monastero fondato da lui: quello marchigiano di Val di Castro dove muore nel 1027. Nella pinacoteca di Ravenna vi è una bella tela del Guercino, vi è raffigurato un monaco vestito di bianco con alle spalle un angelo che picchia il demonio è: San Romualdo. San Pier Damiani scrive la vita di Romualdo qualche decennio dopo la sua morte, punteggiandola di episodi assai strani, pare che il diavolo fosse sempre pronto a tormentarlo e non riuscendo a corromperlo faceva in modo di guastare i suoi monaci: “Dovunque il Santo si recasse, (il demonio) istigava contro di lui l’animo dei suoi discepoli”. I tempi erano duri e gli uomini avidi e brutali, quindi non c’è da meravigliarsi se qualche monaco, si mise in testa di uccidere Romualdo, arrivando a pensare “all’omicidio devozionale”: uccidere il Santo per ottenerne le reliquie. Sull’isola del Pereo, si trovava tra due bracci meridionali del fiume Po e cioè tra il Po di Primaro a nord il Po di Badareno, nella zona dove oggi sorge il paese di Sant’Alberto, a dieci chilometri circa da Ravenna, Romualdo fonda un eremo e sempre qui, dove oggi sorge la frazione di San Romualdo, l’imperatore Ottone III edifica un monastero, per inviare monaci in Polonia, intitolato a S. Adalberto, vescovo e martire polacco. Romualdo, come la maggior parte dei Santi, mette paura ai potenti perché li esorta a una vita di rettitudine, ma chi ha il potere non può farlo anche se vorrebbe. Innumerevoli i miracoli effettuati dal Santo sia per il corpo che per la mente, inoltre ha che fare con miracoli con in mezzo degli alberi, tra cui anche una quercia, quasi come se Romualdo si ispirasse agli antichi druidi. Guarisce un prete dal mal di denti. Un faggio, sovrastante la sua cella abbattuto cade nella direzione opposta. Un contadino travolto dalla caduta di una quercia, rimane illeso. Romualdo guarisce un pazzo con un bacio e salva un ammalato grave con un po’ d’acqua. Un pezzo di pane benedetto da Romualdo risana una donna impazzita e libera un ragazzo dal demonio. Il diavolo sempre arrabbiato con lui, lo minaccia di morte, poi gli appare in forma di un cane dal pelo rosso che tenta di disarcionarlo, ma il Santo lo soverchia sempre. Romualdo fu viaggiatore in vita e in morte, infatti il suo corpo custodito sotto l’altare a Val di Castro fino al 1481, fu trafugato dai ladri che lo volevano portare a Ravenna. Scoperto il furto, le ossa del santo furono trasferite a Fabriano nella chiesa di San Biagio, dove riposano tuttora.
immagine: San Romualdo a Camaldoli

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22/02/2016

PENNABILLI E IL TIBET

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Dal 29 gennaio al 28 febbraio al Museo della città di Rimini, sarà visibile la Mostra,Un trono tra le nuvole,rassegna che intende raccontare la storia moderna del Tibet,questa esposizione, che non ho ancora visto, mi ha ispirato una delle mie solite idee pazzesche. Chi mi segue e mi legge, su queste pagine, sa che io mi arrampico sugli specchi, pur di trovare cose meravigliose per la nostra bella Romagna. Propongo sovente ipotesi azzardate, ma che “tengono”. L’ipotesi è una supposizione, un ragionamento congetturale avanzato in mancanza di dati certi, l’ipotesi può essere attendibile, ma anche improbabile o assurda, ma è comunque utile per il ricercatore che dovrà sforzarsi sia per ritenerla vera o all’opposto falsa. Sicuramente, siete a conoscenza, che si sta cercando un po’ ovunque il futuro Dalai Lama, il 15°… potrebbe essere possibile che il nuovo Dalai Lama, si trovi in Romagna? Prima di scoppiare a ridere, leggete ciò che vi scrivo. Sua Santità il Dalai Lama 14°, se la ride sotto i baffi, scherzando, con chi ansiosamente, gli chiede di designare la reincarnazione del Buddha, dicendo che forse sarà una donna, oppure un cinese o un occidentale. Il Dalai Lama guarda caso ha un’affezione speciale per l’Italia e per la Romagna e in particolare per Pennabilli. Questo ridente paese, un tempo chiamato Penna e Billi, oggi diventati un unico abitato detto Pennabilli, probabilmente era un importante centro mistico del popolo celtico. Billi è una parola che significa albero sacro, mentre Penna deriva dal Dio Penn o Pennin, antica divinità celtica. Letteralmente penn, significa, cima osommità , da cui proviene anche il toponimo per la Catena degli Appennini. Non lontano da Penna, c’è il Balzo, quest’ultimo, è un salto nel vuoto e per i Celti era sacro, se non c’è il Balzo, non è un luogo celta. Il Balzo era una prova iniziatica o forse un luogo di Giustizia Divina, dove si facevano anche dei sacrifici. Oggi in questo posto così ricco di misticità, si trova una campana tibetana, a memoria di una visita del Dalai Lama 14°. Pennabili è stretta da un forte legame con il Tibet, legato a padre Francesco Orazio della Penna, partito da Rimini per fondare una Missione cattolica, nella capitale tibetana, dove creò un ottimo rapporto con i monaci e la popolazione. Nel 1994, il Dalai Lama, fu onorato, con la cittadinanza riminese. Visitò Pennabilli per celebrare il 250º anniversario della morte del missionario Orazio della Penna, in quell’occasione scoprì una lapide sulla facciata della casa natale del frate e piantò un gelso. Nel 2005 si ebbe una seconda visita del Dalai Lama, durante la quale fu inaugurata una struttura metallica, posta sul colle che domina il paese, è composta da una campana a tre mulini di preghiera tibetani o manikorlo (liberamente azionabili dai visitatori). Ciascun mulino di preghiera presenta in rilievo il mantra, Salve o Gioiello nel fiore di loto. Secondo la religione buddista ruotare un mulino di preghiera assume il significato di un’invocazione rivolta verso il cielo, proprio come il suono di una campana. Nel buddismo il fiore di loto rappresenta la natura del Buddha, quindi la supplica, potrebbe rappresentare il saluto alla reincarnazione del Buddha nel 15° Dalai Lama. Tornando al gelso, che fu piantato a seguito della visita del 14° Dalai Lama, nel giugno del 1994, fu chiamato il Gelso della Pace, divenendo poi il Gelso del Dalai Lama. Il gelso è chiamato anche moro, un piccolo salto e si passa al sicomoro, che è un albero di fico sempreverde, che ha le foglie quasi uguali a quelle del gelso. Il sicomoro può raggiungere una altezza di 10-15 mt. e vivere per parecchi secoli, lo si trovava spesso ai margini delle strade, ha i rami bassi ed è facile arrampicarcisi, forse fu per questo che uomo piccolo come Zaccheo poté facilmente salirvi per vedere Gesù lungo la via. Inoltre,l’albero del Bodhi, cioè l’albero sacro dei buddisti, sotto la cui ombra il Buddha raggiunse l’illuminazione, era un fico. Quindi il Gelso del Dalai Lama, piantato a Pennabilli, poteva ben significare che il Dalai Lama salendo su questo “gelso sacro”, come fece Zaccheo per vedere Gesù, poteva vedere il nuovo Buddha reincarnato, e se lo vedeva doveva essere vicino … quindi il 15° Dalai Lama potrebbe essere un cinese nato o vivente in territorio romagnolo.

immagine: Tibet

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 01/02/2016

UN OCEANO DI SAGGEZZA IN UN’UNICA PERSONA

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Il titolo di Dalai Lama è tratto da una combinazione di due parole che significano: Maestro (lama) e Oceano (dalai),ovvero un oceano di saggezza.Il Dalai Lama è venerato come manifestazione del Buddha della Misericordia. Quando un Dalai Lama muore, i Lama, i monaci più insigni, avviano le indagini atte a scoprire la sua reincarnazione, interpretando i presagi e i sogni. Una volta che la reincarnazione viene identificata, solitamente quando è ancora un bambino molto piccolo, viene consacrato novizio e intronizzato ufficialmente, dando inizio al suo percorso di studi. L’attuale Dalai Lama, il 14°, è Tenzin Gyatso, a causa dell’occupazione politica e militare del Tibet da parte della Cina, risiede nel nord dell’India. Tenzin Gyatso ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace, nel 1989 per la resistenza non violenta contro la Cina. Ancora detentore della propria autorità religiosa, oltre a insegnare il Buddhismo in tutto il mondo, guadagnandosi stima e rispetto in buona parte dei Paesi esteri, sostiene energicamente i rifugiati tibetani, nella salvaguardia della loro cultura. Malgrado la figura del Dalai Lama sia secolare e rappresenti un caposaldo per tutta la cultura tibetana, la Cina ha deciso di arrogarsi il diritto di nominare in futuro le nuove reincarnazioni, che sono invece prerogativa dei soli monaci Lama e del Panchen Lama, il maestro della Conoscenza, figura importantissima del Buddismo, seconda solo al Dalai Lama. La tradizione buddista, ritiene che le incarnazioni abbiano origine dalle Menti Illuminate che, a loro volta, vengono dal comune intelletto umano. Fondamentale nel credo della rinascita è l’idea di una consapevolezza individuale, la rinascita riassume le esperienze del passato, l’energia primaria, nel reincarnato. Anche le reincarnazioni sono soggette al ciclo della nascita, decadenza, malattia e morte, ma si ritiene che le incarnazioni siano capaci di realizzare il loro destino prestabilito, compiendo la loro opera spirituale sulla Terra. Il primo bambino incarnato fu il principe Siddharta, il Buddha storico. Ogni bambino-Dalai Lama è stato scoperto grazie a un testamento profetico, una guida oracolare e l’osservazione di straordinarie qualità personali. Oggi, il riconoscimento del nuovo Dalai Lama è incasinatissimo, appunto per l’interferenza cinese, ed è comprensibile, tenere celata la figura del 15° Dalai Lama, per ovvi motivi di sicurezza.

immagine Dalai Lama

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno01/02/2016

LA PESCA, UN FRUTTO CON TANTE STORIE DENTRO

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La pescaè un frutto originario della Cina, dove è considerato simbolo di immortalità. Dal lontano Oriente giunge in Persia, paese da cui deriva anche il nome scientifico del frutto Prunus persica, e da lì si diffonde poi in tutto il bacino del Mediterraneo grazie alle conquiste di Alessandro Magno. La pesca è il frutto estivo per eccellenza grazie alle sue caratteristiche organolettiche, alla succosità e alle proprietà dissetanti. Ricorre in numerosi dipinti come attributo della Verità, ma anche come simbolo della Temperanza, perché si riteneva che il suo consumo attenuasse gli effetti di un uso smodato del vino. Secondo una leggenda medievale è un frutto benedetto, perché durante la fuga in Egitto un pesco s’inchinò davanti a Gesù riconoscendo in lui il Messia. La pesca è rappresentata nelle meravigliose Madonne di Carlo Crivelli, come la Madonna della Candeletta, ai cui piedi si trovano una pesca, una brocca colma di fiori, alcune ciliegie, una rosa e la sottile candela che dà il titolo all’opera. Oppure, sempre di Crivelli, la Madonna Lochis, intrigante e dolcissima immagine mariana, dove vi è una grossa pesca contornata di nocciole che simboleggiano la Trinità. Nel celebre trittico di Andrea Mantegna, che si può ammirare nella Basilica di S. Zeno a Verona, vi è al centro, una Madonna con bambino, sulla cui testa stanno appesi, una lucerna in un bicchiere di vetro decorato da un bordo d’oro con pietre preziose, alcuni fili di corallo lavorato e un uovo di struzzo, il tutto contornato da pesche. Le pesche hanno un nocciolo al cui interno, sta una mandorla. La mandorla simbolicamente è la vesica piscis (vescica di pesce), viene associata alla figura del Cristo o della Madonna in Maestà, alludendo al seme in generale, diventa un chiaro simbolo di Vita, ma rappresenta anche la comunicazione fra due mondi, ovvero il piano materiale e quello spirituale, l’umano e il divino. La mandorla amara della pesca, l’armellina, si trova pure nell’albicocca. Le armelline vengono usate in pasticceria, come ingrediente negli amaretti e in sciroppi o liquori. Il loro consumo viene limitato ad un uso aromatico poiché, contengono amigdalina che ad alte dosi, risulterebbe altamente tossico. Ebbene, anche se il dibattito è controverso sembrerebbe che il “veleno” delle armelline sia utile contro la lotta al cancro.

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 08/02/2016

LA BELLA DI CESENA

pesca-belladicesenaRicordo con tanta nostalgia, la raccolta delle pesche, in estate, quando al mattino andavo con la nonna per aiutarla a portare le cibarie, a chi si era alzato alle cinque di mattina per raccogliere quella delizia che è il frutto della pesca. Di solito la nonna portava lo sportone con l’insalata di cetrioli, pomodori e peperoni, la bottiglia di “mezzo vino” zuccherato, la bottiglia dell’acqua e un bel pezzo di pane, il mio compito era trottarle dietro, facendole compagnia con le miei insistenti domande, del tipo… posso bere anch’io il vino con lo zucchero? Ricordo che un giorno, vennero degli americani a visitare il frutteto, fu la prima volta che vidi una macchina fotografica e non mi capacitavo di come potesse essere successo, che da quella scatola fossero poi uscite delle immagini… un vero miracolo. Queste foto, che forse esistono ancora da qualche parte, ritraevano uomini coi cappelli di paglia e donne coi fazzollettoni legati sotto al mento, su scale, per la raccolta, altissime. Se Rimini ha Isotta, Forlì ha Caterina e Ravenna ha Francesca, anche Cesena ha la sua Bella. La ‘Bella di Cesena’ è conosciuta in mezza Europa e non perché sia una fanciulla affascinante, ma bensì una pesca di polpa bianca, dolcissima e prelibata. E’ la pesca più rinomata del cesenate, matura a luglio ed è il simbolo dell’estate, ma è tanto delicata e alla minima ammaccatura diventa bruna, così la Bella di Cesena, è stata quasi del tutto abbandonata dagli agricoltori, un vero peccato, chissà che qualche bravo agronomo non riesca a far diventare questo tipo di pesca, più forte e robusta. La Bella di Cesena,ha avuto molti riconoscimenti, ha un Premio dedicato a lei. Walther Faedi, agronomo e ricercatore, che ha ricevuto, non molto tempo fa questo Premio la ricorda con queste parole: “La pescaBella di Cesena, aveva un profumo intenso ed era molto buona quando raccolta al punto giusto di maturazione. Per mandarla nei mercati della Germania, però, occorreva staccarla ancora verde, tanto che mio nonno diceva “in la magna gnenca i cunèi”. Era ricoperta da una spessa peluria che gli agricoltori spazzolavano via una volta messe nelle cassette”. Leonardo Lucchi, scultore e orafo cesenate, dove ancora oggi vive e lavora, ha realizzato molte opere nella sua Cesena ed anche un’imponente Via Crucis e un Cristo Risorto nella Catholic Church of the Holy Trinity a Singapore; ha realizzato per la rotatoria a Martorano di Cesena, il gruppo scultoreo, La Bella di Cesena,dove una fanciulla coi capelli al vento, con in mano un cesto di vimini, in punta di piedi si protende col braccio a raccogliere una pesca, da un albero che pare avere i pomi d’oro. Una Venere con la pelle ambrata di pesca… avere la pelle di pesca vuol dire averla vellutata. La pelleè il tessuto di rivestimento che ricopre il nostro corpo e si dice appunto è una questione di pelle, l’attrazione o repulsione istintiva per qualcuno. Il Bellini è un long drink inventato nel 1948 da Giuseppe Cipriani, barman dell’Harry’s Bar, lo chiamò Bellini perché lo associò ai colori del pittore Giovanni Bellini. Ebbene il Bellini è a base di polpa di pesca bianca… di Bella di Cesena, se il barman ve lo fa con la pesca gialla, non è un bravo barista.Il drink divenne una specialità del mese di luglio dell’ Harri’s Bar, perché, come ho scritto, la Bella di Cesena matura in questo mese. Successivamente, il Bellini, divenne molto popolare anche alla sede dell’Harry’s Bar di New York,dopo che un imprenditore francese instaurò una rotta commerciale per trasportare polpa di pesche bianche fra le due località. C’è chi dice che la pesca bianca usata per il Bellini sia quella di Verona. La coltivazione della pesca nel veronese, ha origini antiche, risale all’epoca romana, già Plinio il Vecchio nelle sue opere accenna che il “pomo della lanuggine” era coltivato nel territorio di Verona... un tempo c’era un gemellaggio, che si festeggiava in luglio, fra la piccola cittadina di Gambellara di Ravenna con Gambellara di Vicenza/Verona, aveva a che fare con le pesche, ma nessuno ricordava più il perché…che la Bella di Cesena, fosse imparentata con quella di Verona?

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 08/02/2016

Il grande Amos Nattini, genio italico “nascosto”

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Davvero, non sapevo niente di Amos Nattini. Sono rimasta fulminata, ma come, chi lo ha nascosto, coloro che parlano d’arte in TV, sui giornali, sul Web, mai un accenno su di lui, forse perché il Duce considerava Dante e Nattini i massimi esempi del genio italico? Scusate signori, abbiamo il più grande artista rappresentante del Surrealismo del Novecento e non lo si trova in nessuna enciclopedia artistica? Allora vuol dire che noi italiani siamo autolesionisti. Amos Nattini nacque a Genova il 16 marzo 1892, appena diciannovenne realizzò le illustrazioni per le “Laudi” dannunziane, mettendosi in luce nel panorama artistico. Nel VI centenario della morte di Dante (1921), Nattini intraprese l’ultraventennale fatica di realizzare le cento immagini,una per ogni canto della Commedia, partendo dall’Inferno e procedendo in ordine di canto. Non esagero citando questa immensa opera, come, “la Cappella Sistina di carta”. Il Duce, diede al Fuhrer, come omaggio ufficiale, il Poema illustrato da Nattini, considerandola testimonianza dell’eccellenza italica. Dopo gli anni del Ventennio e della celebrità, Nattini aderì al movimento partigiano. Fu catturato dalla Gestapo, perché ospitò e protesse dei soldati inglesi. Abbandonò Milano, il giro di artisti per dedicarsi a una pittura del tutto intima, dove raccontava la quotidianità del vivere di “ogni giorno” e delle tradizioni. Inizialmente, Nattini, con le illustrazioni delle “Canzoni d’Oltremare” del Vate, ha uno stile classico con tratti che ricordano il Simbolismo, i preraffaelliti e il Realismo Magico, mentre per le raffigurazioni della Commedia è un condensato pirotecnico con prevalenza surrealista. Con le ultime opere, c’è un abbandono della “furia” per un ritorno al classico, in cui riecheggia una tenerezza che ricorda le Madonne del Botticelli e con lo stesso “senso mitologico”. “Sono diventato il pittore dell’Appennino, della gente che tira la vita coi denti, dei muli che zoccolano sui sentieri della montagna”, annota in quegli anni Amos. Quel che lo rende unico, scrive Ojetti, è l’apparente contraddizione tra la sua spietata incisiva insistente conoscenza del corpo umano e il suo impeto lirico verso l’irreale. A trent’anni dalla morte di Nattini, è uscito a cura di Vittorio Sgarbi, nel novembre del 2015, un volume che racconta, finalmente questo artista di “altri mondi”.

immagine: Amos Nattini (Inferno)

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 25/01/2016

 

McCurry piace molto più di Dante

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Nei giorni del periodo natalizio ho visitato varie mostre, non sono riuscita a vedere quella di Steve McCurry, il celebre fotografo americano, in mostra a Forlì, ai Musei San Domenico, e mi dispiace assai, ma la fila per entrare era troppo lunga. L’opera più famosa di McCurry è il ritratto della ragazza afgana nel campo profughi di Peshawar, che è diventata un faro di speranza in mezzo ai conflitti, dove la protagonista della foto aveva vissuto fino a quel momento. Sinceramente in quegli occhi io non vedo nessuna speranza, io vi leggo comprensibile odio allo “stato puro”.Adesso non voglio intavolare una polemica se un reporter è un’artista o no, a questo punto anche un giornalista può esserlo, ma mi chiedo McCurry ha diviso con la ragazza gli introiti derivanti dalla suddetta foto? L’artista crea dal nulla, il fotografo coglie l’attimo, “il colpo di scatto”, di un soggetto esistente. Chiudo la polemica e ne apro un’altra, non riesco a capacitarmi di trovare la ressa a questa Mostra di McCurry, e di non incontrare quasi nessuno alla superlativa, indescrivibile Mostra al MAR di Ravenna, ormai inutile correre a vederla, è terminata, pochi giorni fa, il 10 gennaio. Avete perso un’occasione unica, quella di viaggiare tra le pagine della Divina Commedia, di farne parte, di passare dalla selva oscura, al tenebroso Inferno, per poi pregare intensamente al Purgatorio, per arrivare allo sfavillio del Paradiso, inondati di luce e inebriati in un giro rotatorio che fa “perdere la testa”. Nell’anno delle celebrazioni del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri il Museo d’Arte della città di Ravenna, ha partecipato alle manifestazioni in onore del Sommo Poeta con un’importante mostra, realizzata in collaborazione con la Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo, a cura di Stefano Roffi. La mostra, con oltre 500 pezzi, è dedicata a tre illustratori della Divina Commedia: il famoso Gustave Doré, che tutti noi conosciamo, Francesco Scaramuzza, di cui non sapevo nulla, infine un certo Amos Nattini… e chi era costui? Già chi era costui. Le incisioni di Doré, sono le illustrazioni per antonomasia del poema di Dante. Le opere di Francesco Scaramuzza, mi paiono tecnicamente perfette, ricche di fantasia, specialmente mi ha colpito l’immagine di Lucifero, dagli occhi allucinati, che mostrano tutta la rabbia repressa di aver perso la guerra, lui l’Angelo di Luce, per sempre posto negli abissi. Le opere di Dorè e di Scaramuzza si trovano alla fine del percorso, mentre l’inizio è segnalato da un’opera contemporanea che rende molto bene la “selva oscura”, quindi Amos Nattini ci illustra con grandi acquarelli, tutta la Commedia, opere in cui le figure si muovono, scendono, salgono, si intrecciano. Scontri di figure, un coacervo che evoca le possenti forme di Michelangelo e le più atletiche figure di Luca Signorelli. Queste forme ineccepibili, sono immerse in paesaggi fantasiosi, magici o all’ opposto terrificanti e vorticosi, rientrano nel Movimento del Surrealismo, ma hanno una “potenza visiva”, che sinceramente non ho mai riscontrato neppure tra i surrealisti più famosi. L’Inferno è sistemato in modo, che noi visitatori, sovrastiamo le figure, esse appaiono ai nostri piedi. Ma cosa è il male? Qui c’è il fuoco, ma scendendo sempre più in basso c’è il gelo, il ghiaccio più freddo. Dante spiega che l’amore genera nell’uomo ogni virtù, così come ogni peccato. Si desidera il proprio bene e il male per il prossimo: chi vuole eccellere calpestando il prossimo (superbia), chi teme di essere superato dagli altri (invidia), chi riceve un’offesa, tanto da desiderare la vendetta (ira). Questo è l’Inferno, mentre nel Purgatorio, ci sono gli stessi peccati, con la sola differenza che ci sono quelli che si sono pentiti. Ma, se non c’è l’amore, anche male inteso, non c’è pentimento che tenga. Nel Paradiso fra i penitenti e i beati, ci sono anche quelli che, soffrendo hanno prima compreso cosa è il male e poi hanno purificato se stessi, a loro una eterna e sempre nuova allegria di canto e danza e di amore riamato. Ad accompagnare questa superba mostra, rendendola sublime, vi era un appropriato sottofondo musicale.

immagine: Amos Nattini (Purgatorio)

L’antica famiglia Zucchini, faentina dal XVI secolo

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La nobile famiglia Zucchini (in antico “Delfini”), giunse a Faenza da Bologna alla metà del XVI secolo. Essa annovera priori, letterati, giureconsulti, nonché numerosi ecclesiastici, in particolare dell’Ordine domenicano. Il conte Carlo Zucchini (1862-1928), da cui l’attuale discendenza, è stato il grande promotore dell’associazionismo cattolico nelle Romagne, fu anche tra i fondatori del Credito Romagnolo e del quotidiano nazionale L’Avvenire d’Italia. Nel 1899 fondò con altri, il periodico settimanale “Il Piccolo”, organo locale dell’Azione Cattolica. Fu tra i fondatori del Partito Popolare Italiano, nel 1919, venne eletto nelle sue file come parlamentare per due legislature, fino alle tragiche elezioni del 1924 dove scelse di non ripresentarsi. Nel 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti venne ucciso dalla polizia segreta fascista. Un omicidio che condizionò le vicende politiche italiane di quell’anno, che realizzò il passaggio definitivo del governo fascista a un regime apertamente dittatoriale e antidemocratico. Dopo il delitto, l’opposizione parlamentare, con un’errata decisione, si ritirò nel cosiddetto Aventino. Seguono mesi di braccio di ferro, in cui il governo fascista sembra sul punto di capitolare, ma poi Mussolini, con un famoso discorso, si assume in prima persona la responsabilità politica del delitto Matteotti. Mussolini vuole cambiare il Paese, decide che se non lo seguono fa da sé. Torniamo ai conti Zucchini, che possedevano oltre al Palazzo di Faenza, anche un’antica residenza signorile di campagna, situata a Poggio Renatico (FE), chiamata Villa Sanguettola, deve forse il suo nome all’uso di curare con le sanguisughe diverse malattie, fra cui la malaria che imperversava in questi luoghi. Tra il 1885 e il 1886 il colera investì violentemente il ferrarese e fece registrare in questi luoghi 67 casi, di cui 32 mortali, evidenziando carenze igieniche e alimentari, determinate dalla povertà della gente, colpita anche da tubercolosi, tifo, vaiolo, pellagra e malaria . La villa con le sue 64 stanze e la chiesetta ottocentesca, sorge isolata, a ridosso del fiume Reno. La facciata è rivolta verso l’argine ed ha un antico parco. All’ interno si trovano decorazioni a guazzo e la sala da pranzo conserva la ‘boiserie’ , una stanza rivestita di legno, per fugare l’invadente umidità di questi luoghi.

immagine: Palazzo Zucchini a Faenza

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 11/01/2016 

 

Il presepio di Zucchini

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In questi ultimi giorni di festa, è piacevole passeggiare nelle nostre città illuminate e vestite a festa, e visitare i presepi, ce ne sono tanti e tutti diversi. Conservare ed allestire il presepio in Romagna, era una usanza che si tramandava in molte famiglie, specie di nobile censo, di generazione in generazione. Queste ricche famiglie, allestivano il proprio presepe nei saloni dei loro palazzi, che a Natale, erano generosamente, aperti al pubblico. Una visita al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza è sempre consigliabile, un viaggio fra le bellezze artistiche della ceramica, dall’antiche a quelle della contemporaneità. Ma per le Feste natalizie lo è ancora di più, qui è conservato il famoso presepe Zucchini, un rarissimo esempio di arte ceramica popolare di meta ‘800. Fu acquisito in dono al Museo nel 1991, dai conti Zucchini. Sono 61 gli elementi che lo compongono, fra statue e gruppi in terracotta dipinta a freddo. Il fondale è armoniosamente legato alle statue, in una sorta di piccolo teatro, così come voleva la moda del tempo. Fu realizzato in tempera su carta dal faentino Romolo Liverani (1809-1872). Liverani è stato un pittore, scenografo e decoratore di interni italiano, abbastanza noto. Fu allievo nella scuola artistica “Tommaso Minardi” di Faenza. Lavorò in tutta l’Italia settentrionale e centrale presso i più importanti teatri, ma particolarmente in Romagna. Fu un abile interprete della decorazione faentina dell’Ottocento, proseguì  la tradizione neoclassica inaugurata da Felice Giani, arricchendola di spirito romantico. Compì numerosi viaggi per le terre di Romagna,riprendendo puntualmente nei suoi taccuini scorci di città, paesi e paesaggi. Romolo morì di stenti in una misera stanzetta, dove viveva con la moglie, nel Borgo di San Rocco a Faenza. Nello scenario che Liverani fece per il presepe Zucchini, attraverso delle quinte, vi sono  immagini architettoniche (ponti, cippi, castelli, capanne, ruderi, ecc. ) che rimandano alla scenografia operistica dell’epoca. Molto suggestiva è la rappresentazione delle cascate d’acqua, che scendono impetuose in mezzo ai ponti, come pure un’alta passerella che pare una stradina stretta per salire in cielo. Le piccole statue, sono attribuite per tradizione al plasticatore Filippo Galli, attivo a metà dell’ Ottocento, del quale non si hanno notizie certe. Lo straordinario Museo delle Ceramiche è stato riconosciuto dal 2011 come    “Monumento testimone di una cultura di pace”, dall’Unesco, raccoglie una campionatura di ceramiche da tutto il mondo, di quanto è stato prodotto dall’antichità classica fino ai giorni nostri. Il percorso prende avvio con le ceramiche precolombiane, proposte con il supporto di una raffinata didattica, cui seguono quelle dell’antichità classica dalla preistoria all’epoca romana, quindi i manufatti provenienti dall’Estremo Oriente (Cina, Giappone, Corea) e dal Medio Oriente. Al piano superiore è presentato il percorso delle ceramiche di Faenza, dal Basso Medioevo al Rinascimento, che viene esposta a confronto con la produzione del Rinascimento italiano, ripartita per le varie regioni. Una sezione illustra i successivi sviluppi della ceramica italiana dal Seicento all’Ottocento, dove è possibile ammirare le settecentesche ceramiche faentine della manifattura dei Conti Ferniani, mentre nella Sala Europa si può ammirare una selezione dei prodotti delle principali manifatture europee. Il Museo non si rivolge solo alle ceramiche del passato, ma è attento a quanto ancora oggi si produce nel settore. Gli spazi dedicati al contemporaneo, prendono le mosse dalle opere dei Premi Faenza, un concorso internazionale che si celebra dal 1938. La sezione accoglie, oltre ad una selezione di designer, anche capolavori di artisti famosi come Picasso, Matisse, Rouault, Léger, Chagall, Fontana, Leoncillo, Burri, Martini, Melotti, Nespolo, Baj, Arman, Matta. Non dimenticate di osservare bene, l’icona del Museo, il piatto di fine sec. XV , “Giulia Bella”, che presenta, secondo me, il modello classico dell’azdora, che il mattarello non lo usa solo per fare la sfoglia. Buona Befana!

 

 

immagine: Presepio Zucchini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 11/01/2016

ORSI; SCIMMIE; ORGANETTI: LA CARITA’ DELL’OTTOCENTO

alpi - orsanti

Gli orsanti, ovvero coloro che addestravano e facevano spettacoli con orsi ed animali esotici, provenivano dalle valli dell’Emilia Romagna, la Liguria e la Toscana, fu un fenomeno che a fine Ottocento interessò gran parte dell’Italia. Accattonaggio, commercio ambulante, lavori campestri, filatura, spettacoli di strada con animali, orsi o scimmie, con esibizioni musicali, soprattutto di organetti, furono alcune delle attività con cui   si tentava di arginare il difficile problema della sopravvivenza. Si spostavano soprattutto a piedi, solo se riuscivano a raggranellare qualcosa potevano comprarsi un mezzo. Le gravi condizioni economiche della popolazione dell’Appennino, dedita prevalentemente a un’economia basata sull’agricoltura e sulla pastorizia, indussero molti a migrare per dedicarsi soprattutto ad attività “itineranti”. Di loro, proprio perché spesso subivano arresti e condanne, è rimasta traccia, in particolare nelle prefetture. Una volta giunti in un luogo adeguatamente esposto al transito di persone, gli artisti di strada allestivano il proprio palco per lo spettacolo. Qualcosa degli orsari rimane fino al Dopoguerra, quando dalle case passava chi aggiustava i piatti rotti, l’arrotino, il merciaio, gli impagliatori di sedie o il suonatore di fisarmonica. Fellini ha dedicato a loro il famoso film “La strada”, e ambientato in Romagna è il film “Berbablù” che narra la storia di un suonatore di organetto. Oggi questa arte da strada è proposta dai Musicanti di San Crispino, nati sull’esempio dei suonatori girovaghi del secolo scorso, il gruppo nasce una quindicina di anni fa, si compone di 15/16 elementi, fra ottoni, legni, percussioni e chitarra. Il nome del gruppo è un omaggio a S. Crispino, protettore dei calzolai, i quali producono le scarpe e le suole indispensabili per chi si muove senza mezzi. I Musicanti vestiti con pantaloni, canottiera e un fazzoletto in testa annodato con quattro nodi, eseguono un frizzante repertorio che prevede valzer e polke della tradizione romagnola, musica in stile New Orleans, sigle tv, raggae e ska, innaffiato dal suono delle bande balcaniche, per arrivare alla disco-music e la techno, il tutto condito dall’abbondante peperoncino di divertenti pantomine. La prima volta che li ascoltai, ero reduce dal funerale di mio padre, riuscirono a regalarmi un attimo di pace dal dolore.

 

 

 

articolo già  pubblicato sul quotidiano  “La Voce di Romagna” il giorno 28/12/2015