La Pietà di Bellini

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“Lo chiamavan drago gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago”. Cantava Giorgio Gaber,  chissà se gli abitanti del rione Giambellino , sapevano che Giambellino era esistito veramente e che era un mago e un drago col pennello e col colore. Giovanni Bellini (Venezia 1430-1516), noto anche con il nome di Giambellino, è uno dei principali innovatori della pittura veneziana, introduce a Venezia l’arte  rinascimentale. Figlio del pittore Jacopo e fratello di Gentile, pittore pure lui e famoso per il Ritratto del sultano Mehmet II, un olio conservato a Londra, che raffigura, in posizione di tre quarti, il celebre sultano e reca la data 1480. Tale ritratto è stato spesso oggetto di curiosità: Marcel Proust, lo cita in un suo romanzo, inoltre è stata notata la somiglianza del sultano con uno dei personaggi della lunetta di “Gesù fra i dottori nel tempio” di Marco Palmezzano, conservata a Brisighella . Ma torniamo a Giambellino, che fa parte della più importante famiglia di pittori di Venezia di quell’epoca, tra l’altro imparentata anche con Andrea Mantenga che sposò una sorella di Giovanni Bellini. Il padre era stato allievo di Gentile da Fabriano e nella sua pittura sono chiaramente ravvisabili gli elementi stilistici tardo gotici. Giovanni Bellini partendo da questi elementi tordo gotici, riesce a fare una sintesi originale con il senso della spazialità rinascimentale appreso dal Mantenga. Ma ciò a cui approda Giambellino non è la secchezza e la durezza delle linee   proprio del Mantegna, bensì egli crea con la luce ed il colore, semplicemente i piani si staccano tra loro perché hanno un diverso grado di luminosità. Figure chiare su sfondi scuri o viceversa, in modo che l’occhio  sia naturalmente portato a percepire ciò che è avanti o indietro per il semplice fatto che cambia il tono del colore. Da ciò ha inizio la grande pittura veneziana, una pittura fatta di colore e di luce, che verrà poi proseguita da Giorgione e da Tiziano. Le Madonne di Bellini sono pervase di dolcezza e tenerezza, immerse nell’ambiente. Bellini attualizza anche l’antica immagine bizantina del Cristo in pietà. Nella città lagunare le icone di Cristo erano una presenza familiare nelle case e nei conventi ed erano dunque ben conosciute dagli artisti. “La Pietà” o “Cristo in pietà sorretto da quattro angeli” capolavoro del Giambellino e della pittura veneta quattrocentesca è l’opera principale del Museo della Città di Rimini. E’ un dipinto a tempera su tavola, databile al 1470/1475 circa. La datazione di tale opera è oggetto di un dibattito controverso: vi è la testimonianza di Vasari che attribuisce la commissione al signore di Rimini Sigismondo Malatesta il quale però morì nel 1468, il che non combacia con la datazione accordata dalla critica. Occorre anche sottolineare che Vasari può essersi sbagliato, in quanto parla di una Pietà con Cristo sorretto da due angeli mentre nella tavola odierna gli angeli sono quattro e talmente belli e intensi che non passano inosservati. Il proprietario sarebbe stato un tal Raineiro consigliere di Pandolfo IV Malatesta che lasciò la “Pietà” in eredità nel 1499 per la cappella di famiglia in San Francesco a Rimini poi trasformata in Tempio Malatestiano. Oppure la tavola potrebbe provenire dall’oratorio di Sant’Antonio che sorgeva nei pressi di tale chiesa. Il corpo di Cristo reclinato e afflitto dalla morte seduto sulla lastra tombale viene sorretto da quattro angeli pacati, e malinconici, sembrano dei bambini con le loro vesti colorate, se non fosse per le loro ali simili a quelle delle farfalle. Il volto di Gesù esprime un dolore sereno, il corpo è luminoso, presenta la ferita al costato da cui scende il sangue sino a raggrumarsi sul biancore del perizoma. Un angelo ne raccoglie la mano osservando tristemente il foro dei chiodi, un altro tenta di sorreggerlo ed un altro inspiegabilmente, anche un po’ impertinente, se ne sta a braccia incrociate. Gli angeli non piangono, non si disperano, sembrano riflettere. Il tutto esplode in avanti dall’oscurità del fondo, come se nella morte di Cristo ci sia già la luce della  Resurrezione, e gli angeli coi loro atteggiamenti lo affermano con certezza.

immagine: Pietà di Giovanni Bellini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 05/10/2015

Acquacheta, simbolo di San Benedetto in Alpe

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S. Benedetto in Alpe si trova sulla Statale 67, ultimo avamposto prima di arrivare al Muraglione che è il confine con la Toscana e il ritrovo dei motociclisti di entrambi i versanti, non c’è motociclista romagnolo che non conosca questa strada, anzi sovente arrivano dal  Veneto, altra regione in cui la moto è una calda passione. S. Benedetto si trova alla confluenza dei corsi d’acqua Acquacheta, Rio Destro e Troncalosso, che danno origine al fiume Montone. L’abitato nacque intorno all’abbazia  fondata, secondo la tradizione, dallo stesso S. Benedetto, nell’eremo sostò intorno all’anno 1000 S. Romualdo e successivamente Dante Alighieri. Agli amanti del trekking, e non solo a loro, consiglio l’escursione alla Cascata dell’Acquacheta, cheta per modo di dire perché Dante per il boato delle sue acque la paragona all’infernale  Flegetonte, nel XVI Canto dell’Inferno con queste parole: “Come quel fiume rimbomba là sovra San Benedetto de l’Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto; così, giù d’una ripa discoscesa,trovammo risonar quell ’acqua tinta, sì che ‘n poc’ ora avria l’orecchia offesa”. Il sentiero ha inizio al centro del paese, c’è anche il parcheggio, scarpe comode e vestiario secondo stagione, potete anche attrezzarvi con cibarie, perché l’amena passeggiata offre soste in paesaggi incantevoli, inoltre costeggerete quasi sempre il torrente, in modo che potete anche fare il bagno. Tutto il sentiero è percorribile facilmente, il cammino è piuttosto largo e ben segnalato. Ci sono stata in giugno, quando il torrente non è ancora in secca e la cascata ha abbastanza acqua, ho così  trovato e mangiato le ciliegie selvatiche (il ciliegio è un albero di una tale  bellezza  da divenire assurdo è come se avesse tanti orecchini rossi). Poi inizia un’impervia salita fra il bosco, il torrente sembra ora lontano, ma i grandi e fitti tronchi sono un nuovo panorama. Poco dopo ecco un tratto breve ma molto duro che ci conduce al belvedere, una pozza smeraldina, dove in tanti fanno il bagno, io non l’ho fatto sono paurosa ma la voglia di  tuffarmi era molta. Dopo la sosta in poco tempo si è alla cascata che ha un salto di 80 metri, su gradoni di roccia viva scendono rivoli, come un velo da sposa, di acqua.  Con una mulattiera si raggiunge la piana dei Romiti con i ruderi dell’eremo dell’ Abbazia di  S. Benedetto e il giro è terminato, si torna indietro.

 

 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 05/10/2015

Pugliano, vista mozzafiato e fiera millenaria

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Pugliano è una frazione a soli quattro chilometri da San Leo, conta circa 140 abitanti sparsi in diversi nuclei abitativi. Pugliano come tutti i paesi sparsi in questa zona gode di una vista mozzafiato, dalle montagne del Montefeltro al mare, sino alla bizantina Ravenna.  A Pugliano tutti i lunedì di Settembre, si tiene la famosa e caratteristica “Millenaria fiera di Pugliano”. Questa manifestazione ha radici antichissime, nata come fiera che si svolgeva nei pressi della chiesa dedicata alla Madonna di Pugliano con lo scopo di scambiare bestiame e prodotti agricoli prima dell’inverno, all’intenso afflusso di pellegrini si aggiunsero coloro che erano spinti da interessi economici. Anticamente le fiere si svolgevano le domeniche di settembre, nel ‘700 lo Stato Pontificio proibì lo svolgimento della fiera nelle giornate festive, forse per non distrarre i fedeli dai riti religiosi, così furono posticipate al giorno successivo, il lunedì. Tutt’oggi alla Fiera accorrono frotte di persone in quanto ancora resiste la vendita del bestiame affiancata da un grande mercato. Sulle bancarelle si trova merce di ogni tipo. Famose sono “le capanne” sotto le quali si può consumare l’immancabile pesce fritto annaffiato da un buon bicchiere di vino. Il toponimo “Pugliano” forse deriva dal greco ampelòn (vigna, vigneto), quindi il buon vino qui dovrebbe esserci. Pugliano nasce da una frazione abitata da 2-3 persone chiamata oggi Pugliano vecchia, qui è cominciata la storia a partire dal passaggio del vescovo di Sarsina, Vicinio, dove ora sorge una piccola chiesetta dedicata a lui e dentro alla quale troviamo un’imponente statua che lo raffigura. La Chiesa della Madonna di Pugliano, con tale nome esiste anche una famosa Vergine nel territorio campano, risale all’anno Mille. Una leggenda narra che un vescovo di Rimini inseguito da sicari giungesse trafelato al Santuario, dove intensamente pregò la Vergine, poi riprese la sua fuga lasciando le pantofole nel sacello per essere più veloce e fu in salvo. La storia ci tramanda dell’inseguimento da parte  di un Malatesta al vescovo Feretrano Giovanni Seclani che fuggì verso Montecopiolo, all’altezza di Pugliano girò verso Talamello salvandosi. Un campo nei pressi del Santuario ancora oggi è chiamato “il pianto del vescovo” e nel Museo diocesano di Pennabilli sono conservate due purpuree ciabatte.

 

immagine: Fiera di Pugliano

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 28/09/2015

Alberi, custodi della memoria

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La Giornata Nazionale degli Alberi, rappresenta l’occasione per porre l’attenzione sull’importanza degli alberi per la vita dell’uomo e per l’ambiente. Tale giornata è individuata nel 21 novembre, ciò non toglie che si possa parlare di alberi tutto l’anno. Gli alberi rappresentano, da sempre un valore inestimabile per l’umanità, sono custodi della nostra memoria e fonte di risorse preziose. Sono elementi fondamentali dell’ecosistema e, in modo particolare nelle città, contribuiscono a contrastare l’inquinamento ambientale e a migliorare la qualità della nostra vita. Alcuni alberi sono stati testimoni di importanti avvenimenti storici, altri sono legati a leggende tramandate, altri ancora hanno “visto” cambiamenti importanti, sono il simbolo di un millenario rapporto fra l’uomo e la natura. L’Associazione “Patriarchi della Natura”che ha finalità non lucrative, si è costituita nel 2006 su iniziativa di alcuni naturalisti romagnoli che da tempo erano impegnati nel monitoraggio degli alberi monumentali. Con questo termine si identificano le vecchie piante secolari, alberi che possono essere considerati i capostipiti dei nostri boschi. Sovente queste piante hanno dimensioni eccezionali, veri e propri monumenti vegetali, in altri casi la dimensione è più modesta e meno appariscente ma non per questo il loro valore è da meno. I Patriarchi sono gli alberi “anziani”, testimoni di centinaia di anni di vita di noi minuscoli esseri che ci crediamo tanto potenti. Certo un fulmine può schiantare uno di questi Vecchi ciò non toglie che nella simbologia soprattutto quella celtica e germanica l’albero sia l’unione della terra col cielo, infatti ha le radici nei sotterranei del terreno dove succhia nutrimento e svetta con le sue fronde  nel cielo trasformando la luce solare e  gli elementi chimici in ossigeno e zuccheri, essenziali per gli animali, uomo compreso. A Savignano di Rigo vi è uno di questi Giganti  è un nocciolo plurisecolare alto 25 m. e dalla circonferenza di 3.53 m. Si tratta di un interessante caso di nocciolo atipico che non presenta la caratteristiche della specie, normalmente caratterizzate da forme arbustive, con molti fusti e polloni alla base. Per raggiungerlo da Mercato Saraceno, dirigersi verso Perticara, attraversando Savignano di Rigo; qui, in prossimità della chiesa, svoltare a destra seguendo l’indicazione per l’Aia; prima di giungere nel borgo si vede la chioma di questo grande albero. Il nocciolo per i celti era simbolo di saggezza. Nei matrimoni in passato venivano usate le nocciole come augurio di fecondità. Con il legno di nocciolo si realizzavano bacchette magiche. Il nocciolo fa da “guardiano” alla casa natia di Decio Raggi, eroe della Prima Guerra  Mondiale, simbolo per tutta Italia di amor patrio, fino al dono della stessa sua vita. Raggi fu il primo a essere decorato con la Medaglia d’Oro nella Grande Guerra. L’abitazione è oggi un cumulo di macerie e la struttura muraria, con il tetto ormai sprofondato, rischia seriamente di crollare, facendo così perdere un luogo di importanza fondamentale per la memoria storica. Accanto alla casa sono presenti granai e abitazioni contadine. Al piano terra ci sono un’ampia entrata e le cantine con le botti. Salendo le scale senza più le ringhiere in ghisa e i gradini che probabilmente erano in pietra (tutto è stato rubato) si giunge nelle stanze più importanti che portano ancora segni di dipinti. La memoria degli uomini, diversamente da quella degli alberi, è corta e anche la tomba monumentale di Decio Raggi  è ridotta in uno stato fatiscente  e trascurato .“Avanti Romagna! Avanti!”, con queste parole il “tenentino” Decio Raggi  al comando della 9ª Compagnia, quella dei “forlivesi ”, trascina i suoi uomini all’attacco del Monte Calvario, formidabile fortificazione della testa di ponte austriaca di Gorizia. Su quella collina Decio Raggi, viene colpito dal fuoco nemico e sebbene gravemente ferito, continua ad incitare i suoi soldati prima di cadere. A differenza di quel nocciolo che sicuramente tenne a lui tanta compagnia, usò  il coraggio ma non la saggezza, morì senza figli e fu colpito da una bacchetta magica mortale.
immagine:  Nocciolo di Rigo

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 28/09/2015

Un gioiello nascosto tra la terra, i canneti e le valli

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Sant’ Alberto si trova nel Parco del Delta del Po, a 14 km. da Ravenna, ha un centro storico ben conservato, in cui spiccano la casa del poeta Olindo Guerrini e il Palazzone che ospita Il Museo di Scienze Naturali, è un  edificio di grande pregio storico, eretto nel  XVI secolo come Hostaria del Duca di Ferrara. In fondo al paese c’è un pittoresco traghetto che consente di arrivare sulla sponda opposta del Reno, si è così in un territorio suggestivo, da una parte canne e prati, dall’altra l’acqua delle valli di Comacchio con i riflessi del sole che creano dei miraggi, mentre le nuvole si inabissano nelle paludi salmastre. E’ la zona sud del Parco, vero e proprio paradiso naturalistico, non si capisce il perché la zona nord del ferrarese sia inclusa nel Patrimonio Unesco e questa no. In mezzo ai canneti, le valli e i canali vi erano delle terre, non sempre coltivabili, dove gli abitanti costruivano misere dimore. L’acqua la faceva da padrona, era fonte di vita per l’abbondante presenza di pesci e di cacciagione, ma anche di malaria. Gli abitanti di Sant’Alberto erano noti fiocinini  (pescatori di frodo) apprezzavano molto le anguille ma anche i bracconieri si davano da fare. Questa zona che oggi pare un po’ fuori dal mondo, dopo secoli di bonifica, si presenta come una distesa immota di terre piatte, un tempo fu luogo di eremitaggio per abati e mistici, proprio qui, attorno all’anno 1000 San Romualdo e Ottone III costruirono dei monasteri e una chiesa. E molto prima cosa c’era? Il mito narra di Fetonte, figlio di Apollo, il quale era mortificato perché gli amici non lo credevano figlio del Dio. Andò dal padre per supplicarlo di fargli  guidare per un giorno il carro del Sole, così avrebbe potuto dimostrare le sue origini. Apollo cercò in tutti i modi di distoglierlo ma Fetonte tanto fece che lo convinse, salì sul carro e partì. Ma il giovane era inesperto e saliva troppo in cielo o si avvicinava troppo alla terra, bruciando tutto; Zeus allora mandò una folgore su Fetonte che morì e precipitò nel fiume Eridano, che oggi si chiama Po e che un tempo era più a sud di adesso. Le Heliadi, sorelle di Fetonte, piangevano la sua morte, Zeus le tramutò in pioppi e le loro lacrime divennero gocce d’ambra. Un’altra storia narra che gli Argonauti (50 eroi alla conquista del vello d’oro) cercano alle foci del Po le isole Elettridi, dove si poteva trovare l’ambra… tutte le vie portano all’ambra.

immagine: traghetto a Sant’Alberto

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 21/09/2015 

Gli ex voto sul Monte

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L’imponente complesso dell’abbazia di Santa Maria del Monte, è uno dei nomi con cui comunemente si indica la Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, sorge sul colle Spaziano, a Cesena. La Basilica è a pianta rettangolare, ad unica navata, con sette cappelle laterali; la navata e il  presbiterio sono su livelli differenti, collegati fra loro da uno scalone centrale, affiancato da due laterali discendenti verso la cripta. La cupola fu  opera di Francesco Morandi detto il Terribilia, chiamato così dopo la costruzione dell’Archiginnasio a Bologna, che ornò con finestre dai terrificanti mascheroni antropomorfi e animaleschi. La decisiva trasformazione della Basilica di Santa Maria del Monte nel corso del sec. XVI, non fu determinata solo da esigenze architettoniche, ma anche per sancire fermamente il culto alla Madonna (le spoglie del patrono San Mauro furono traslate da questa abbazia alla cattedrale). Il fabbricato comprende la chiesa e il  monastero con due chiostri. Nella navata ogni cappella è abbellita da varie decorazioni, anche pittoriche, tra cui una “Annunciazione” di Bartolomeo Coda e una bella pala di Francesco Francia: “Presentazione di Gesù al Tempio”. Lungo tutto il fregio della navata, in una fascia continua, gli affreschi di Girolamo Longhi, quattordici scene della Vita di Maria, intercalate da angeli, profeti e sibille. Dietro l’altare maggiore vi è un bellissimo coro ligneo con rappresentazioni di personaggi biblici o allegorici. Il patrimonio unico e speciale conservato nella basilica è rappresentato dalla raccolta degli ex voto alla Madonna. Si tratta di oltre 690 tavolette dipinte in varie epoche, raccolte in 14 bacheche. Gli ex voto che potremmo definire naif, presentano scenari diversi, salvataggi da cavalli imbizzarriti, da nubifragi, incarcerazioni, alluvioni, incendi, cadute, travolgimenti da alberi, rovesciamenti di carri, inondazioni, cadute dalla scala e poi tanti ammalati e morenti, innumerevoli scenette di catastrofi con cui si chiede grazia. Alcuni un po’ infantili di mano inesperta, altri ben dipinti, vi si riconosce il pennello di un artista, ma tutti ugualmente importanti per capire un po’ di più la storia e le vicissitudini dell’epoca. Si va dalla malattia di un uomo del Quattrocento, a un incidente tra una Vespa e un’automobile; a Cesena, questa tradizione è iniziata nel XV secolo e continua ancora oggi. Ex voto è una locuzione latina, si potrebbe tradurre“da promessa fatta”, dono offerto, in questo casa alla Madonna, per grazia ricevuta o in adempimento di una promessa fatta, indipendentemente dal risultato sperato. Vi sono ex voto riconducibili a fatti avvenuti, altri dalla  descrizione oscura. Uno raffigura la comunità di Cesena in festa, che accoglie il Papa in visita alla città, che va loro incontro. L’evento raffigurato è la recente visita del Pontefice alla Romagna e alla città di Cesena ove soggiornò, nel monastero benedettino. Un altro dipinto raffigura gli internati in un campo di concentramento dell’ultima guerra mondiale. Un altro presenta una carrozza mentre precipita, con tutti gli occupanti, nel porto canale di Cesenatico davanti alla chiesa parrocchiale. Poi l’immagine di  una sala operatoria in cui è in corso un intervento chirurgico. Sullo sfondo le “due torri” identificano il luogo con Bologna. E poi una palla di cannone centra una casa e sfiora una donna che sta per chiudere una finestra. O ancora, due velieri finiscono contro gli scogli e stanno per inabissarsi. Alcuni uomini cercano di guadagnare la riva su delle scialuppe mentre altri due, sulla riva, attendono l’arrivo dei compagni. Veri e propri sguardi su un passato più o meno remoto, molte pagine della storia locale sono state scritte grazie alle immagini giunte fino ai giorni nostri. C’è anche l’ex voto dedicato al famoso ciclista Marco Pantani. Il campione si erge sulla bicicletta con la maglia e la bandana rosa in testa, si volge indietro a guardare la Madonnina che veglia su di lui, con questa scritta: “Perché non cadiamo nell’abisso della disperazione, perché non affondiamo nelle sconfitte, Dio ci ha messo nel cuore il sentimento dell’amicizia. Agosto 2001”

immagine: ex voto

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 21/09/2015 

 

Lugo, città magica in mezzo alla Romagna

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Lugo o Lugh  in dialetto romagnolo, è una città della provincia di Ravenna, il suo nome lo si fa derivare dal latinolucus Dianae”, bosco consacrato a Diana, ma vedremo poi un’altra ipotesi. Lugo è stato fin dai tempi antichi un crocevia, la pianta della città si è formata su due assi viari che si incontrano a forma di croce. La croce è uno dei simboli più importanti, unione del cerchio e del quadrato, è presente in quasi tutte le religioni. I crocevia erano sacri a Ecate, la dea trivia che rappresenta le fasi della luna. Ecate a volte si confonde con la dea celtica Morrigan o con la dea Diana dei Romani con riferimenti all’antica Dea Madre. Il luogo di culto più antico di Lugo è l’Oratorio della Croce Coperta, dedicato un tempo all’Annunziata, ma molto prima c’era un pozzo sacro ai Celti, luogo poi  dedicato dai Romani a Diana. Lugh è il dio più importante dei Celti, con significato sia di luce solare che mentale. Si può ipotizzare, che questo fosse un luogo religioso per i Celti, rispettato dai Romani, poi dai cristiani sino ad oggi. A Lugo esistono numerose chiese dedicate alla Vergine e altre a Santi eremiti come a S.Ellero  e S.Onofrio. Gastone de Foix, passò da Lugo, prima di morire nella battaglia di Ravenna del 1512, un suo soldato dipinse su un muro un volto di fanciulla, l’immagine divenne culto popolare, ci furono delle grazie, è l’odierna Chiesa della Madonna delle Grazie. Lugo ha un bella Rocca, di fronte si trova il Pavaglione, piazza coperta voluta nel 1570 da Alfonso II d’ Este, per ospitare il mercato dei bachi da seta. Vero o non vero la tradizione popolare considera Lugo la città al centro della Romagna. Qui si svolge il palio della Caveja, la quale è il nostro simbolo. Qui è nato il Padre del tricolore:Giuseppe Compagnoni. A Lugo è arrivato pure Einstein, da Gregorio Ricci Cubastro, per riuscire a dimostrare matematicamente la teoria della relatività. La famiglia di Rossini era di Lugo, Gioachino diceva di sé: sono il cigno di Pesaro e anche il cinghiale di Lugo. A Lugo aveva trascorso gli anni della fanciullezza coi primi studi di musica, era talmente bravo che lo lasciavano suonare un prezioso organo Callido. Il monumento più famoso di Lugo è quello dedicato a Francesco Baracca, il famoso aviatore qui nato, sulla carlinga del suo aereo svettava un cavallino, che finì coll’essere il simbolo della Ferrari. Lasciatemelo scrivere, Lugo è un po’ magica.
immagine: Monumento a Francesco Baracca, Lugo

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno14/09/2015

Un mondo sotto Sarsina

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Sarsina una probabile entrata per la Terra cava ovvero per Agarthi? La Terra è suddivisa in diversi strati, ciascuno dei quali con proprietà chimiche e fisiche diverse. Si divide in un nucleo interno fluido e un nucleo esterno solido. Ma nel passato, ed ancora oggi, con strane storie di complotti sul dominio della Terra, si narra che la Terra sia cava, lo stesso Platone affermava che vi era un grande sovrano al centro della Terra. Più tardi Renè Guenon lo chiamerà ‘Il re del mondo’ intendendo Agarthi non un luogo reale ma riconoscendola come il Giardino delle tradizioni religiose. Giardino o Centro del Mondo, e quindi ‘caverna’, dove sono nascoste le tradizioni, il cuore propulsivo della nostra creazione. La teoria della Terra cava è una storia che ha affascinato molte persone tra cui Edmund Halley (lo scopritore della famosa cometa), i suoi studi sull’elettromagnetismo terrestre lo portarono ad ipotizzare che la Terra fosse cava e che al suo interno, nel centro, fosse situato un sole. Jules Verne, nel suo famoso romanzo ‘Viaggio al Centro della Terra’, trae spunto proprio dalla teoria della Terra cava. C’è poi l’improbabile storia di Olaf Jansen, un pescatore norvegese partito da Stoccolma nel 1829 con suo padre, e giunto attraverso un’apertura nel Polo Nord al centro della Terra. Due anni sarebbe vissuto con gli abitanti di Agarthi. Altre colonie sarebbero delle città più piccole situate all’interno della crosta terrestre o dentro le montagne. I cataclismi e le guerre avvenute sulla superficie avrebbero spinto il popolo di Agarthi a stabilirsi sottoterra. Tali sconvolgimenti avrebbero avuto come causa la guerra tra Atlantide e Lemuria. Olaf ritornando sulla superficie e raccontando le sue vicissitudini fu internato in un manicomio per 28 anni. Il maresciallo nazista Hermann Goering credeva alla teoria della Terra cava, ma lui non osarono internarlo, anzi ci furono soldi per le esplorazioni dei Poli. Nel 1942 ci fu uno strano esperimento che si risolse con un fallimento, l’ira del Fuhrer fu fulminea e i più fanatici sostenitori della teoria sulla Terra cava vennero inviati nei campi di concentramento. L’esistenza di Agarthi è stata considerata seriamente da numerosi europei,  anche dai seguaci della teosofia della veggente Madame Blavatsky, dalle cui dottrine trasse ispirazione, tra gli altri, anche la Società Thule, la società segreta di estrema destra che costituì il nucleo originale del Partito nazista di Hitler. Nel 1914 l’astronomo americano Marshall brevettò la scoperta della Terra cava all’Ufficio Brevetti degli Stati Uniti. E perché Sarsina sarebbe stata un tempo, una porta per il misterioso centro della Terra? Vi propongo qualche ipotesi. Nel Museo Nazionale di Sarsina si trova un mosaico monocromo con un cerchio con due aperture alle estremità, il tutto contornato da spirali, al centro il fiore della vita e una stella a otto punte,  è chiaramente l’emblema della Terra cava con gli ingressi nei Poli, qualcuno nel I secolo, a Sarsina conosceva quel simbolo. Oltre ai Poli vi erano entrate minori, vicino alle quali stazionavano i druidi, gli antichi sacerdoti celti, eredi dell’antico sapere legato alla Natura e alla Terra, quelli che poi si integreranno con l’iniziale cristianesimo. San Vicinio, Patrono  di Sarsina molto probabilmente lo era. Infine nell’area del Parco Comunale dei Giganti di Sarsina si trovano due fenomeni geologici, le cosiddette marmitte dei giganti, che la fantasia popolare ha riconosciuto come enormi marmitte in cui scaldare i cibi dei giganti. Qualcuno ritiene di individuare nel popolo di Atlantide i giganti mitologici che diedero la scalata all’Olimpo. Magari i druidi non erano più simili a Polifemo ma perlomeno avranno mantenuto delle correlazioni, come ad esempio il terzo occhio (Polifemo aveva solo quello) che dà veggenza e sapienza, il vivere nelle caverne e poi la paternità di molti megaliti come quello di Stonehenge, luogo indecifrabile chiamato anche “La Danza dei Giganti”. Sabato 19 settembre alla  Galleria  d’ Arte MAF, Via Mazzini 20, a Forlì, alle ore 17.00 presenterò il mio romanzo “Ár var alda” che tratta appunto della misteriosa Terra cava.

immagine: Mosaico Terra cava, Sarsina

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno14/09/2015

Un borgo conteso tra tutte le città di Romagna

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Era una giornata di agosto, le quattro del pomeriggio, eravamo in moto, accaldati e sudati, dovevamo immetterci sulla E 45, senza averne alcuna voglia. Mi piace girare in moto, andando piano ed osservando  bene il paesaggio, fu così che vidi il cartello stradale di Monteleone, già il nome mi incuriosiva, e lassù in alto si scorgeva un paese tipicamente medievale. Monteleone ha il riconoscimento della Bandiera arancione, marchio di qualità turistico ambientale del Touring Club Italiano, con la motivazione: “Piccolo borgo, ben conservato, abitato ed armonico. Buona è inoltre la cura del verde e dell’arredo urbano”. Il paese è posto su di un colle, è costituito dal castello, sopravanzato da un piccolo giardino pensile, e da alcuni edifici risalenti ad epoche diverse. Si accede all’abitato, attraverso due strette porte ad arco.
L’ intero borgo è minuscolo, una bellezza racchiusa in un pugno, da porta a porta dista poco più di 100 metri. Il borgo attorno al Mille era possedimento della Chiesa ravennate, per anni fu conteso
fra la Chiesa e il Comune di Rimini. La rocca venne realizzata dal Comune di Rimini. Nel 1335 subentrarono i Malatesta, poi la rocca fu conquistata da Francesco degli Ordelaffi signore di Forlì, quindi ceduta ai Montefeltro, per tornare sotto il controllo della Santa Sede, successivamente nel 1433 ancora ai Malatesta e infine ritornata alla Chiesa di Ravenna venne infeudata alla famiglia dei Roverella di Cesena che la detennero fino al 1745. A questo periodo  risale la trasformazione da castello a dimora estiva, demolendo le case più addossate al palazzo e ricavandone al loro posto il giardino pensile. Nel 1748 per mancanza di prole maschile, il feudo giunse per via dotale al conte Ignazio Guiccioli di Ravenna. In quegli anni vi soggiornò anche George Byron, amante di Teresa Gamba, moglie del Guiccioli. Il conte anziano, libertino e già vedovo due volte, sposò Teresa: giovanissima e bellissima. Teresa concesse, giustamente, le sue grazie al poeta inglese. Si erano incontrati a Venezia e si erano innamorati. La famiglia Guiccioli, detenne il castello fino al 1960, anno in cui fu venduto agli attuali proprietari: i conti Volpe, che hanno trasformato il castello e alcuni casali in agriturismo. In estate, a Monteleone e in altri borghi di questa zona, si svolge “Borgo Sonoro”, ciclo di incontri musicali/culturali/gastronomici.

immagine: Monteleone

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 31/08/2015

 

Quelle terme piene di vita

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Castrocaro, è un paese di origine etrusca, già stazione termale ai tempi dei romani, era chiamata Sulsubium ed è tuttora famosa per le sue acque sulfuree. L’abitato è composto dai paesi di Castrocaro, Terra del Sole e Pieve Salutare che unitamente hanno ricevuto la Bandiera Arancione, marchio di qualità del Touring Club Italiano. Terra del Sole, voluta da Cosimo I de’Medici, è un gioiello architettonico costruito secondo i canoni rinascimentali, sembra un “pezzo” di Firenze planato in Romagna. A Pieve Salutare sorge una chiesa risalente all’anno 955, all’interno è custodita, dal 1973, la sacra immagine della Madonna della Tosse, dopo che la chiesa omonima venne demolita. Il culto della Madonna della Tosse è antichissimo e persiste ancora oggi, era detto così perché  le si attribuivano speciali virtù contro la pertosse dei bambini. Castrocaro nel medioevo ebbe notevole importanza militare e fu capoluogo della Romagna toscana. Conserva il Borgo medioevale quasi  intatto, con la Chiesa di San Nicolò, il Palazzo dei Capitani, il Palazzo del Bargello e la Cittadella, per arrivare poi al Castello. Nella parte più in basso, più moderna, si trovano le Terme, al centro di uno splendido parco di 8 ettari. Il complesso termale fu realizzato negli anni ‘30 in stile Art Deco,forma d’arte  che è un prolungamento del Liberty. Gli imponenti lavori di ampliamento delle Terme, già esistenti e funzionanti, voluti da Benito Mussolini, portarono nel 1938 all’inaugurazione dello Stabilimento, del Grand’Hotel e del Padiglione delle Feste. Quest’ultimo ha al suo interno le decorazioni di Tito Chini, famoso artista del periodo fascista; nel 1925 all’Esposizione Internazionale di Parigi fu premiato con la medaglia d’argento per la ceramica. L’edificio è formato da un corpo centrale semicircolare e decorato da piastrelle ceramiche a lustro, cioè iridescenti e metalliche. Il lustro è un’antica tecnica di decorazione, di origine mediorientale, ebbe grande diffusione nella arte ceramica araba, giungendo verso la metà del Quattrocento in pochi centri italiani; dagli arabi attraverso gli scambi con l’isola di Maiorca, da cui proviene il nome maiolica che nel Rinascimento indicava la sola ceramica lustrata. Il salone da ballo è di grande impatto: due fontane simmetriche in mosaico, mentre il pavimento di maiolica policroma  riproduce un  fondale marino popolato da pesci di ogni tipo, reali e immaginari. Spettacolari sono i quattro velieri che girano in tondo con una sinfonia di vivaci colori: rosso, giallo, blu e verde. Nel Grand’Hotel si possono ammirare i banconi/bar, i lucernari decorati, le formelle ceramiche iridescenti. Nelle pareti dello scalone, che dà accesso alle stanze, si trovano dieci grandi pannelli di Chini, un ciclo raffigurante i mesi e le stagioni. Ancora oggi fra le suite ce ne è una intitolata a Benito Mussolini. All’Hotel, dopo il 1943, vi fu la prima riunione del Consiglio del Ministri del nuovo governo fascista, qui proclamarono la Repubblica sociale italiana. Ma torniamo alla parte medioevale di Castrocaro, alla Rocca imponente massa costruita circa un millennio fa su uno sperone roccioso da cui si può godere uno splendido panorama. Nelle sale del Palazzo del Castellano vi è un Museo con armi, maioliche, dipinti, arredi e suppellettili. Vi è allestita anche l’Enoteca della Strada dei Vini e dei Sapori dei Colli di Forlì, il tutto a cura della Proloco. Come ogni castello anche qui a Castrocaro c’è un  fantasma. Siamo ai primi del Duecento, una furiosa lotta era in atto tra le famiglie consanguinee dei conti Calboli di Forlì e dei conti Pagani di Castrocaro. Il Papa, per pacificare gli animi impose il matrimonio fra Margherita e Guidone, appartenenti alle due famiglie in guerra. Margherita innamorata di un altro giovane si ribellò e rifiutò di sposare Guidone. Nonostante il suo ardire fu costretta a cedere e venne così fissata la data delle nozze. Margherita angosciata e senza più speranze, in una notte buia e senza luna si gettò dalla torre più alta del castello. Da allora si racconta che in certe notti senza luna sembra che il vento sussurri il lamento di Margherita, che piange il suo amore perduto.

immagine: Castrocaro

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 31/08/2015