LA CICALA E LA FORMICA

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Nelle campagne il cicaleccio accompagnava i mietitori nelle loro fatiche, facendoli meditare sull’ingiustizia che lì a poco avrebbero subito nella spartizione del raccolto col padrone. Spesso pensavano che il canto non annunciasse che questo, tanto che, in Romagna, accatastando i covoni, ripetevano amaramente: “dice la cicala al cicalino: il grano al padrone e la paglia al contadino”.
Un ”gioco” comune tra i ragazzi di un tempo, di una crudeltà inaudita, era quello di catturare questi insetti alla mattina, quando erano ancora intorpiditi dal freddo della notte, per poi infilarvi una pagliuzza nell’addome. Dopo tale tortura, le cicale non erano più in grado di cambiare direzione nel volo, ed erano costrette a volare in linea retta fino a quando non cadevano stremate dalla fatica. Di questo crudele trastullo fanciullesco, resta il  modo di dire “andar dritto come la cicala con la paglia nel sedere”, riferito a chi, dopo avere subito un torto, cammina via dritto, senza mai voltarsi.  La proverbiale inoperosità della cicala, traspare da un detto bolognese: gratar la panza alla zigala (grattare la pancia alla cicala), riferito a chi se ne sta in panciolle tutto il giorno e chiacchiera tanto per far trascorrere il tempo. Esopo, un greco  un po’ antipatico e molto nichilista, umilia la cicala, la quale chiede aiuto alla formica, alla fine dell’estate, e riceve un secco rifiuto, la formica risponde: ”hai cantato, adesso balla”. La formica è laboriosa ma anche molto aggressiva. Ben diverso l’atteggiamento di San Francesco che loda la cicala ringraziandola perché ascoltando il suo canto lavora con più lena e meno fatica. Le cicale sono insetti con il corpo di forma tozza, simili alle vespe ma più voluminose, vivono sugli alberi di diversa specie e sulla vegetazione. Le cicale sono note soprattutto per il canto dei maschi che emettono un suono stridente e  insistente, quasi una trasposizione del nostro affannarci nella vita. Ci accompagnano per tutta l’estate col loro frinire che è  un canto d’amore, serve per attirare le femmine, che accorrono per accoppiarsi. La femmina depone poi le uova e le larve si  autoinumano. Le larve delle cicale sono sotterranee e possiedono zampe anteriori scavatrici grazie alle quali si spostano da una radice all’altra per nutrirsi. La larve in genere rimangono sotto terra per quattro o cinque anni, poi lasciano il terreno, si arrampicano sui tronchi degli alberi, effettuano una metamorfosi, quindi salgono sulla chioma frondosa e cantano all’impazzata. Ci sono certe cicale che rimangono “sepolte vive” anche sino a  diciassette anni.  L’eccezionale stile di vita dell’insetto è fonte di interesse sin da tempi antichissimi. Diverse culture, tra cui gli antichi cinesi, consideravano questi insetti come simbolo di immortalità. Sapete che vi dico, da  incompetente quale sono, se mi avvicino un poco alla scienza, rimango talmente stupita dai miracoli della Natura, gli studiosi ancora non riescono a spiegare  tutto, che posso credere all’esistenza di Dio. Quando gli scienziati si dichiarano atei, mi chiedo: ”come fanno a non credere quando loro sono a contatto col mistero ogni giorno ?” Per concludere, è meglio stare dalla parte della cicala o da quella della formica? Non molto tempo fa ero in una chiesa a Roma, mi misi a questionare sulla vita di Dante, con un priore  domenicano, con gran faccia tosta da parte mia, i domenicani sono frati predicatori ed hanno una grande conoscenza. Il Priore fu molto gentile e alla fine mi convinse sull’appartenenza di Dante all’ambito domenicano. Tornata a casa, letteralmente corsi da un padre francescano,  che a Ravenna tiene lezioni su Dante . “Padre, padre, un domenicano mi ha detto che Dante non si sentiva un francescano, anche se volle essere sepolto col saio”. Con un sorriso dolce e uno sguardo buono, il frate mi rispose: ”Dante aveva la testa “domenicana” e il cuore “francescano”.

 

 

immagine: cicale fra il fogliame

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”

RIMINI TERRA DI STREGHE

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Forse non sarà un caso o forse sì, nel territorio di Rimini, precisamente a San Giovanni in Marignano, alla fine di giugno si festeggiano le streghe. La festa affonda le sue radici negli antichi riti del ciclo agrario. E’ la festa  pagana del solstizio d’estate dove tutto può accadere, dove santi e streghe convivono. Oggi alle streghe non ci crede più nessuno, ci si augura, eppure in  giro ci sono un mucchio di chiromanti e lo confido solo a voi, una mia amica mi confessò, non molti anni fa, che doveva procurarsi le interiora, il cuore di un gallo e qualcosa di personale del marito, il quale l’aveva abbandonata  a favore  di una più giovane donzella. Il materiale occorreva per un rito, tramite il quale con  l’aiuto di una pseudo fattucchiera, il marito sarebbe tornato all’ovile. Vi prego di non ridere, sono cose che fanno tristemente pensare. Nel riminese si conoscono un paio di streghe vissute nei secoli scorsi. Il poeta latino Orazio in una delle sue opere narra di un atroce sortilegio, perpetrato ai tempi suoi da quattro temibili donne riconosciute come streghe, ai danni di un povero bambino a cui vennero inflitti crudeli supplizi. Sotterrato fino al mento, venne lasciato morir di fame mentre le perfide streghe tra cui la riminese Foglia, mescolavano i loro demoniaci intrugli in un calderone. Il tutto per creare una pozione d’amore. Altra strega di Rimini è  Vaccarina  bruciata sul rogo nel 1587.  Era una vecchia di povera condizione della quale rimangono poche righe : “La Vaccarina, vecchia, fu abbrugiata per strega”. Povera vecchia certamente  bruciata per superstizione e  capro espiatorio per un qualcosa, a lei non fu eretta una statua ma solo poche stringate parole. Pochi anni  più tardi a Cesena si svolse un processo per stregoneria ai danni di una donna di Rimini che pare fosse in grado di evocare il demonio, in sembianze di caprone nero. Che Rimini, possa ancora oggi essere infestata dalle streghe? Ma non preoccupatevi delle streghe, noi romagnoli abbiamo pur sempre la caveja, questa  è considerata ricca di virtù, anche  per il suono squillante degli anelli, la cultura popolare la riteneva capace di allontanare i malefici e gli influssi negativi  sia di streghe che  di diavoli. Dimenticavo di  scrivervi che, il marito della mia amica non è ritornato, anzi ha una donna ancora più giovane, forse occorreva più che un filtro d’amore, l’elisir di giovinezza.

 

immagine:Notte delle streghe a San Giovanni in Marignano

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”

 

IL VERO FISCHIO DI CESENA

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Il legame fra Cesena e San Giovanni affonda le radici nei secoli. Fin dal Medioevo è testimoniata la devozione a questo santo, che è patrono della città insieme alla Madonna del Popolo. Secondo alcune tradizioni, per altro non suffragare da fonti storiche, a Cesena il culto di San  Giovanni Battista sarebbe  arrivato, tramite un gruppo di fiesolani nel Medioevo. In onore a San Giovanni, si ripete da secoli, attirando tanti visitatori, la grande fiera di Cesena che coincide con l’inizio dell’estate. Sono soprattutto due  prodotti della terra a contraddistinguere l’appuntamento di fine giugno: la lavanda e l’aglio. Venduti l’una in grandi mazzi odorosi, l’altro in lunghe ghirlande. La loro presenza è legata a suggestive tradizioni agresti e credenze popolari, che in qualche modo sopravvivono ancora. Per le casalinghe del passato San  Giovanni era l’occasione per far provvista delle profumate spighe, capaci di debellare le insidiose tarme nemiche dei panni riposti  negli armadi. E l’aglio, oltre che prezioso ingrediente in cucina, rappresentava il rimedio per alcune  malattie diffuse nelle campagne, oltre che essere amuleto contro vampiri e malocchio. Un antico profumo di incantesimo e stregoneria  permea la notte  di San Giovanni, è la notte  più breve  dell’anno. Secondo una  soave credenza, in questa notte, fra il 23 e il 24 giugno, le fanciulle in età da marito avevano la possibilità di vedere, nei sogni, l’uomo che avrebbero sposato: bastava che si bagnassero gli occhi con la rugiada.Ma la tradizione più bella di questa fiera è  il fischietto di San Giovanni, di colore rosso, a forma di ochetta, il colore è determinato dal fatto che rappresentava un dolce omaggio per la “filarina”. Il fischietto in terracotta raffigurava normalmente forme di uccelli. Il primo stampo del fischietto di Cesena era quello di un gallo, tipico simbolo romagnolo. Però il gallo era ed è anche l’emblema di Forlì. Urgeva trovarne un altro per Cesena. Ed ecco la piccola oca, in omaggio alla Val d’Oca, rione del centro cittadino così chiamato perché anticamente era una zona paludosa popolata da oche. Bei tempi andati, quando in queste  feste di paese il ragazzo regalava alla sua bella il  fischietto di zucchero rosso…  con tutti i sottintesi nascosti.

immagine: bancarella coi fischietti di Cesena

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”

STEVE VAI a RAVENNA

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Nietzsche si occupa della tragedia greca  in “La nascita della tragedia”. La sua ricerca è verso l’arte, sull’apollineo e il dionisiaco. Apollo è il dio dell’equilibrio, della misura, nell’arte rappresentata dalla scultura. Dioniso è il dio della sfrenatezza, dell’estasi, nell’arte è rappresentato dalla musica. Per ascoltare la musica e viverla occorre lasciarsi andare, non esiste musica colta o musica popolare esiste musica per vari stati d’animo, e il nostro animo il nostro interiore è molto sfaccettato. Il Ravenna Festival si sforza da anni di regalare alla città e a tutti gli amanti della musica l’ascolto di tutti i generi, da quella sacra, quella classica, la dodecafonica, il jazz, il pop, l’africana, il rock e quest’anno anche il liscio. Dispiace però vedere che c’è la divisione sociale pure qui. Da una parte quelli dell’opera lirica classica, dall’altra i metallari col bicchiere di birra, che non sono poi più tanto giovani. I primi di mezza età ben vestiti guardano in tralice gli altri che a ben vedere applaudono prima della fine del brano musicale, non capendo che il finale è la ciliegia sulla torta di tutte le opere d’arte. Erano presenti anche tanti ragazzini accompagnati dai loro genitori, mancava solo l’ élite che non saprà mai cosa si è persa. Sto parlando della sera del 15 giugno ad una serata al Pala de Andrè  con Steve Vai e la Evolution Tempo Orchestra. Steven Siro “Steve”  Vai è un chitarrista americano di origini italiane. La sua attività musicale oltre a quella chitarristica, si espande anche a livello di composizione e produzione, lo ha portato a vendere circa 15 milioni di dischi e vincere 3 Grammy Awards. E’ uno dei più grandi chitarristi viventi chiamato il Paganini della chitarra. Io non sapevo neanche chi era, mi sono fidata di un amico musicista che mi ha detto, devi ascoltarlo. Ho fatto un po’ di ricerche su you tube, non compro più biglietti a scatola chiusa, c’è la crisi e da qualche parte occorre tagliare, mi è piaciuto ed ho comprato un posto al quarto settore, l’equivalente del loggione in teatro. Sorpresa, il Pala de Andre, era semivuoto e mi hanno fatto accomodare in platea, mi sono detta la serata inizia bene, continuerà meglio. Non ero però pronta per ciò che mi aspettava. L’atmosfera iniziale era in stand by poi è divenuta  satura di religioso raccoglimento. Ci siamo trovati tutti in piedi, per dimostrare il nostro apprezzamento, senza disturbare la musica con un applauso. Steve ci portava in  paradiso con note struggenti, poi all’inferno, saltando a piè pari il purgatorio, con il clamore dei diavoli. Il duettare di Steve con i violini, mi fa venire la pelle d’oca anche ora. Io non ho mai visto né ascoltato nulla del genere, i suoi denti sulla chitarra erano come affondati nel mio braccio. Certo i miei vicini di poltroncina mi guardavano dall’alto in basso perché avevo la bocca spalancata, mi succede quando sono stupita, arrivavano da Verona ed erano fan di Steve. Steve  nei suoi brevi intermezzi parlati non ha mancato di dispensare complimenti all’Italia, e al Festival per l’invito ricevuto e ha ricordato le sue origini italiane. Non è solo un grande artista ha anche modi cortesi ed umili, sul palco diverse chitarre, da ognuna traeva suoni diversi. A volte pareva che non  avesse fra le braccia una chitarra, ma un violino o un pianoforte o… un cavallo e con un’apoteosi salisse al cielo.

immagine: Steve Vai in concerto a Ravenna

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”