War is Over? Arte e conflitti tra mito e contemporaneità: la mostra presso il MAR di Ravenna

War is Over? Arte e conflitti tra mito e contemporaneità: la mostra presso il MAR di Ravenna

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 

War is over? Arte e conflitti tra mito e contemporaneità è la mostra allestita, dal 6 ottobre 2018 al 13 gennaio 2019 presso il MAR di Ravenna. Curata da Angela Tecce e Maurizio Tarantino, l’esposizione segue due tracce: le opere d’arte e le citazioni di scrittori, poeti e filosofi. Si articola in tre temi: Vecchi e nuovi mitiTeatri di guerra, Frontiere e confini/ Esercizi di libertà, quest’ultimo rivolto all’arte vista come profezia di un futuro possibile. L’esposizione si collega idealmente al centenario della prima guerra mondiale, suggerendo più spunti sui disastrosi conflitti, tra cui il più deleterio e subdolo: quello di creare fascinosi miti.

Il tutto si avvale di installazioni di Studio Azzurro, famoso gruppo di artisti che gioca con i media attuali a tutto tondo (operando come le botteghe di un tempo, quando ogni artista di fama proveniva da una bottega e poi creava la sua), con artisti del calibro di Picasso, Rubens, Abramovic (con un inquietante quadro in cui una donna a seno nudo, il volto coperto dai capelli e un teschio biancheggiante tra le mani evoca la calda ed erotica carne e la fredda e tecnica morte), Beuys, Boetti, Burri, Christo, De Chirico, Fabre, Kiefer, Nitsch (con le colate di sangue, che quasi non posso guardare, mi evocano le sue performance coi corpi di animali mutilati e crocifissi, sangue alle pareti, carcasse squartate davanti al pubblico, qui c’è solo  buio e disperazione) Kentridge, Kounellis, Rauschenberg, Warhol, Pascali ( molto più sottile e speranzoso di Nitsch, trasforma una bomba a mano in uno scrigno dove introduce bigliettini coi suoi pensieri, un pensiero positivo che ricorda Pollyanna e il suo segreto), Marinetti, Pistoletto e tanti altri tra cui una lastra in marmo che evoca il monumento funebre di Guidarello Guidarelli, simbolo delle collezioni del MAR.

Mostra d’arte e di parole, a fianco delle opere, ci sono citazioni che ti raspano l’anima come carta vetrata, che di per se stesse pongono già una domanda: è nata prima l’immagine o la parola? Se la risposta può sembrare scontata, pensando alle grotte di Lascaux, non è scontata la vittoria dell’immagine sulla parola. Se raschiamo la crosta del mito viene fuori uno slogan che ripetiamo sovente… un’immagine vale più di mille parole. Una teoria che qualcuno attribuisce a Confucio o a Buddha (veramente il Buddha ha detto qualcosa di assai diverso “Migliore di un discorso di mille parole prive di senso, è una sola frase sensata udita, con la quale l’uomo si calma”), in realtà ha più o meno cento anni: risale cioè agli anni in cui si è cominciato a parlare di pubblicità e di giornalismo.

E’ apparsa la prima volta su un articolo di un quotidiano nel 1911, ripresa nel 1921, da un pubblicitario tale Fred Barnab (guarda caso il nome rievoca Fred e l’amico Barney del cartone animato I Flintstones), che l’attribuì ad un antico proverbio cinese… l’agenzia fallì nel 1941 e nel frattempo Barnard confessò che il detto non era né antico né cinese: “l’abbiamo pensata perché la gente prendesse la frase seriamente”. E’ possibile che un’immagine sia capace di raggiungere la nostra coscienza con più forza di molte spiegazioni? Claudio Strinati, storico dell’arte non ha dubbi: il primato va all’immagine.

La nostra epoca è figlia dell’immagine, televisione, cinema, smartphone e altro (n.d.r. non c’è da stare tranquilli perché sono state proprio le immagini il veicolo principe di tutti i totalitarismi del tragico Novecento) potremmo forse considerare le stesse parole come una particolare forma di immagine? (n.d.r. nella mente si crea l’immagine e poi la si descrive, ciò indica l’immagine come nata per prima, determina però la scrittura come un’evoluzione e perciò superiore alla visione). All’opposto il rabbino Benedetto Carucci Viterbi, da tradizione ebraica sostiene che una parola vale più di mille immagini. Una tradizione fortemente iconoclasta, presente anche nell’Islam, incentrata sulla predominanza della parola e della sua forza creatrice: Dio parlò e creò il tutto: la parola quindi è infinita, l’immagine finita e univoca.

Meglio mille parole o mille immagini? Direi, a parer mio, che la verità sta nella strada mediana, quindi 500 parole e 500 immagini, come gli artisti che nelle loro opere inseriscono simboli e messaggi archetipici o gli scrittori, poeti e filosofi che descrivono visivamente con le loro parole riuscendo a creare nella mente del lettore un’immedesimazione filmica… quindi il trionfo del cinema, parola e immagine. Infatti, a War is over, assai notevole è la sala tappezzata con manifesti di film di guerra.

Da non perdere il video con gli spezzoni dei film, geniale la trovata di uno di questi da cui si passa da una specie di bomba/testimone, che vola nel tempo, che si trasforma poi nell’osso scagliato verso il cielo di 2001: Odissea nello spazio, il capolavoro di Kubrick , una metafora di offesa e conquista che si trasforma in messaggio positivo. Molte le citazioni che chiamerei propositive, (ad esempio War is peace / freedom is slavery/ ignorance is strength La guerra è pace/ la libertà è schiavitù /L’ignoranza è forza, terribile, profonda e soprattutto veritiera frase di Orwel in 1984), altrettanto le opere d’arte, tra cui un eccelso Rubens che raffigura un suntuoso alabardiere accanto a un simpatico e fumettaro Yoda, il mago Merlino di Guerre Stellari, che dialogano con una frase di San Paolo.

Il biliardino di Pistoletto, una partita fra africani ed europei, con la scritta Love is difference, il grande artista sa parlare con ogni cosa, in questo caso il calciobalilla (bellissimo gioco da bar, soppiantato dalle slot machine ideato in epoca fascista nei centri per la riabilitazione psicomotoria dei reduci di guerra. Balilla è un nome usato spesso da Mussolini nella sua propaganda, era anche una radiolina, un’utilitaria oltre ad essere il bambino fascista dai 6 ai 12, probabilmente il nome nasce per la similitudine tra i piccoli balilla fascisti e le piccole sagome dei giocatori.

Il termine probabilmente fu ispirato alla figura di Giovan Battista Perasso, detto  Balilla, patriota genovese del Settecento, ma foneticamente balilla ricorda Alalà che nella mitologia greca era la personificazione del grido di battaglia, figlia di Polemos il demone di tutte le guerre. Il termine fu ripreso da Gabriele D’Annunzio per coniare il celebre esortativo  Eia, Eia! Alalà!, quale grido di esultanza degli aviatori italiani che parteciparono all’incursione aerea su Pola del 9 agosto 1917, durante la prima guerra mondiale. Se Alalà!  era l’urlo di guerra greco, Eia! era il grido con cui, secondo una tradizione, Alessandro Magno era solito incitare il suo cavallo Bucefalo).

Il calciobalilla di Pistoletto segnava la vittoria degli africani col risultato di 4 a 0, non so se volutamente da Pistoletto o meno; siccome l’arte di oggi è interattiva mi sono permessa di cambiare il risultato con un 4 a 4, cioè alla pari, perché l’Occidente e l’Europa e gli altri Paesi alla pari devono stare, basta rimorsi, si è pianto abbastanza, si lavori affiancati che anche l’Africa ha i suoi orrori e i suoi dittatori e le sue colpe e sulle decisioni importanti l’emozione fa brutti scherzi.

Avrei voluto parlarvi di tante altre opere, ma poi avrei avuto bisogno di pagine e pagine. Mi limito perciò a introdurvi nella Mostra, che inizia con tali parole: “Polemos è padre di tutte le cose, di tutto re” (Eraclito), ma Eraclito era pessimista, meglio forse Democrito? In uno dei suoi Dialoghi, Luciano immagina che Giove e Mercurio si improvvisino venditori di filosofi. Giove e Mercurio lodano per la loro saggezza due opposti filosofi l’uno che continuamente ride, l’altro che invece piange (simbologia presente sia nella mitologia celtica, il re che piange e il re che ride, che nella Chiesa cattolica, Giovanni che ride e Giovanni che piange). Il filosofo che ride è Democrito: se tutto è un caso allora perché angustiarsi.

Quello che piange è Eraclito, il filosofo del divenire che avverte la tragicità di un mondo in cui il senso trapassa nel non senso. Sembrano contrapposti, in realtà non lo sono, se uniti non possono che dire… accetta con animo tranquillo e distaccato il caso/caos naturale, ma rattristati per il caos dell’uomo che non è un caso, la morte è naturale ma quando diventa un assassinio è atrocità ed è pianto per tutti. (Orari: Da martedì a domenica dalle 9 alle 18. Chiuso il lunedì. Biglietti: Intero 10 euro, ridotto 8 euro).

Paola Tassinari

PASSEGGIATE IN PINACOTECA

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La collezione Moderna e Contemporanea della Pinacoteca del Mar si è rinnovata, le opere di ‘800 e ‘900 di artisti quali Vittorio Guacimanni, Domenico Baccarini, il fascinoso “nudo di donna” di Klimt, le opere di Schifano, Boetti e Cattelan sono in un nuovo e luminoso percorso. Accanto a queste opere la collezione antica merita sicuramente una visita. Da vedere, la Madonna con il  Bambino e Santi, con le storie di Cristo del XIV sec. del Maestro del Coro Scrovegni, il piccolo  “tempietto” con l’Ultima  Cena e l’Orazione nell’Orto di Giorgio Klontzas, e gli artisti come Marco Palmezzano, Francesco Zaganelli, Bartolomeo Montagna, Lorenzo Monaco, Taddeo di Bartolo, Antonio Vivarini, Paris Bordon ed altri. Baldassare Carrari è ben presente con le iniziali opere ancora un po’ gotiche e dal segno secco e grave come, “La cattura di Cristo”, con un intrico di lance, spade e braghe a righe rosse e bianche per arrivare a quelle più tarde dove i tratti si addolciscono. Notevole la grande tela affollatissima di personaggi di Giorgio Vasari. Mistica la “Madonna che adora il Bambino”, di ambito forse francese, dalle belle mani giunte, gli occhi socchiusi, vestita di velluto e broccato verde e rosso, dipinto che piacque tanto al critico d’arte Federico Zeri. Poi i corpi nudi di varie opere che riprendono le fattezze di San Sebastiano infilzato da frecce, che trafiggono questo Santo che è un po’ “il bel corpo” per eccellenza nella storia della pittura. La grande tela del Guercino, fa la sua figura, con San Romualdo e un angelo che bacchetta il diavolo che sta tentando il Santo. Bella la tela piena di movimento di Cecco Bravo con Apollo e Dafne dai colori contrastanti e stridenti, uniti in una composizione a croce di Sant’Andrea. “La  Sacra Famiglia”, di pittore emiliano con un Bambinone talmente grande che pare di due anni, “Allegoria dell’Abbondanza”, del Maestro di Flora è molto originale con una figura di donna vista da tergo, e bambini che le si avviluppano tutto attorno. E poi naturalmente la star della Pinacoteca, la statua di Guidarello Guidarelli, guerriero e cavaliere morto per una camicia. Nella Pinacoteca c’è questo e molto altro ma io voglio scrivervi di un olio che non avevo mai notato nelle mie precedenti visite. Un dipinto, dalla simbologia strana, rappresenta la “Creazione dell’uomo”, di un pittore veneto del XVII secolo. Ebbene raffigura Dio che scende dall’alto con veemenza portando la scintilla ad Adamo, con accanto una capra, una scimmia, un coniglio e un cane, davvero una simbologia strana, come se Dio avesse voluto dare all’uomo le caratteristiche di questi animali. In origine, la capra era considerata l’essenza stessa della virilità, il simbolo della potenza sessuale maschile. Gli ebrei la usarono come “capro espiatorio”, cioè come mezzo per liberare il popolo dai propri peccati. Per i greci la “tragedia”, significava “canto dei capri”, poiché veniva eseguito da attori mascherati da caproni. I romani celebrarono il caprone nel dio Fauno, protettore delle campagne e delle greggi. Col tempo, e sotto l’influenza della Chiesa cattolica, il caprone è passato a rappresentare il demonio. Il coniglio e la lepre rappresentano entrambi la sessualità ardente; sono simboli lunari, sono emblema indiscusso di fertilità. Il coniglio in genere reca buona sorte, una zampa di coniglio o di lepre veniva considerata un amuleto. La natura della scimmia, è il voler imitare tutto ciò che vede fare, è l’animale più simile a noi e per il cristianesimo è simbolo di sfrenatezza sessuale. Alla figura del cane vengono associate numerose qualità che vanno dalla più totale lealtà, alla più profonda amicizia e caratteristiche come la dolcezza, la sicurezza, l’innocenza e l’altruismo, ma soprattutto il saper dimenticare e perdonare. Nell’antico Egitto, Anubi aveva la testa di un cane (o di uno sciacallo) era il custode del regno dei morti. Si può quindi ipotizzare che l’anonimo pittore veneto riconoscesse nell’uomo, per prima cosa una gran fertilità, poi un po’ di demonio, quindi l’espiazione dei peccati e un po’ di fortuna, e ancora le virtù come l’amicizia, la lealtà e l’altruismo e la capacità di saper perdonare e dimenticare, per poi infine morire.  

immagine: Nudo Gustav Klimt

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 21/11/2016

OTTO PROPOSTE PER L’ALIGHIERI

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Di solito si inizia a scrivere un articolo dall’inizio, in questo caso inizierò dalla fine, dall’intervento finale di Saturno Carnoli, il quale lamentava la mancanza nella politica ravennate odierna di figure super partes.      Cito qualcuna di queste menti illuminate: Corrado Ricci primo soprintendente di Ravenna e d’Italia, autore di una legge con la quale per la prima volta si tutela il patrimonio artistico, archeologico e storico del nostro Paese, Luigi Rava padre delle prime leggi, di tutela dell’ambiente naturale, emanate in Italia e Luciano Cavalcoli, padre del Porto di Ravenna. Altro che “invenzioni” come Happy hour o notti colorate, piccole iniezioni economiche che lasciano scie di degrado! Non è una sterile critica, ma l’introduzione delle  proposte di Ivan Simonini, già rese note e apprezzate dai candidati della campagna elettorale ravennate, ma subito dimenticate. Simonini ha ripresentato le sue dettagliate proposte, anzi un vero progetto eutopico, al Circolo dei Forestieri, a Ravenna, pochi giorni fa. Prima di dare spazio a questo progetto di Ravenna Città di Dante, Ravenna madre della Divina Commedia, Ravenna che realizza il sogno di Dante, scrivo due mie parole. Se vogliamo guardare solo all’economia, voce assai importante, quanto richiamo e ritorno in ricchezza materiale avrebbe per la nostra città, non solo dall’Italia, ma dal mondo, dichiarare Ravenna città di Dante? La risposta la conoscete già. Con Dante c’è un discorso più ampio, c’è il rinnovamento dei costumi. Nonostante i recenti trionfi della scienza, gli uomini nell’animo non sono cambiati molto negli ultimi duemila anni, l’etica, la morale, i valori sono sempre quelli, la modernità ci ha resi più longevi, più ricchi materialmente, anche più belli, ma i valori di Verità, Giustizia, Onore, Ordine, sono diventati obsoleti, non si conosce neppure il vero significato di queste parole, oggi regna il materialismo, la menzogna, la confusione, e la sovversione è diventata l’ordine; ci può salvare solo la Tradizione, cioè la trasmissione di fatti storici, di dottrine religiose, di leggende passate di età in età. E quale è la nostra tradizione  italiana se non Dante? 1) Liberare Dante dai dantisti di professione (non sopprimerli), le idee nuove  possono arrivare anche da altri ambiti. 2) Dante visto dai grandi poeti, un nuovo terreno fecondo, per capire Dante attraverso le visioni di grandi poeti o letterati come: Boccaccio, Foscolo, Leopardi, Pascoli, Pound, Borges, Mazzini e altri. 3) Pier Damiani,  Guido  Novello e l’Arcivescovo Rainaldo. Dante è il primo studioso di Pier Damiani e al Santo ravennate dedica un intero canto. Guido Novello fu il primo a ricevere una copia completa della Divina Commedia, ma soprattutto lo ospitò, dando al Poeta ciò di cui necessitava. Rainaldo da Concoreggio, Arcivescovo, capace di assolvere i Templari e di rendersi di fatto autonomo dal Papato Avignonese. 4) Per un corso di laurea in Digitalianistica, come Dante resse a Ravenna (a sentir lui nell’Egloga I, dal 1315) la prima “cattedra di italiano” della storia, per quei tempi un’avanguardia assoluta, così l’università di Bologna potrebbe valutare l’avvio nella sede di Ravenna di un’avanguardistica “cattedra di digitaliano”, dedicata alla rivoluzione linguistica indotta dalla rete e dalle tecnologie digitali. 5) Per una  versione della Divina Commedia in italiano corrente, in tanti passi la scrittura dantesca rimane difficile per il lettore di oggi. Se non si vuol perdere il contatto con i giovani, è urgente la “traduzione” in italiano corrente del volgare di Dante. 6) Un Concorso Internazionale per il monumento a Dante, a Ravenna non c’è una statua al Poeta! La memoria collocata magari sullo sbocco a mare del Candiano, ancor meglio se l’opera sarà triplice, con Pier Damiani e Guido Novello 7) Ricognizione delle ossa di Dante, DNA, causa morte, ecc. 8) Realizzare il sogno di Dante, le sue ossa a Firenze per essere incoronate da quell’alloro poetico che il Poeta aveva in vita tanto sperato. Il viaggio delle ossa proseguirà poi per le altre città importanti per il Poeta: Roma, Palermo, Bologna, Verona per tornare infine nella sua Ravenna.

immagine: Ivan Simonini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 17/10/2016

QUELLE VENERI UN PO’ FOLLI

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La mostra al MAR di Ravenna,“La seduzione dell’antico. Da Picasso a Duchamp, da De Chirico a Pistoletto” sarà visitabile sino al 26 giugno 2016. L’esposizione, a cura di Claudio Spadoni, documenta lo sguardo verso l’antico non solo degli artisti che vi si rivolgono quasi mutuando le grandi opere del passato, alla memoria antica, pescano a piene mani anche le avanguardie trasgressive, rivisitandola con un pensiero nuovo a volte sconcertante o inquietante. Una mostra ricca di protagonisti, De Chirico, Morandi, Carrà, Martini, Casorati, che alla fine della Prima Guerra Mondiale testimoniano il bisogno di un ‘ritorno all’ordine e al rigore’, gli artisti di Margherita Sarfatti e Sironi che invece affermano una melanconia di fondo, le opere del ‘Realismo magico’ estranianti e piene di mistero, il ‘neobarocco’, con Scipione, Fontana e Leoncillo; gli artisti della Pop Art e i rappresentanti dell’Arte Povera, e poi Duchamp, Man Ray, Picasso, Klein, ed altri ancora. Tra le opere esposte anche la famosa riproduzione della Gioconda realizzata da Marcel Duchamp, dissacrata con baffi e pizzetto. La Gioconda era allora all’apice della fama, il 22 agosto 1911, venne scoperto il furto della Monna Lisa, il quadro si riteneva perso per sempre. Si scoprì che un impiegato del Louvre, Vincenzo Peruggia, convinto che il dipinto appartenesse all’Italia e non dovesse quindi restare in Francia, lo rubò uscendo dal museo a piedi con il quadro sotto il cappotto. Comunque, la sua avidità lo fece catturare quando cercò di venderlo, il quadro venne esibito in tutta Italia e poi restituito al Louvre nel 1913 con grande clamore. Marcel Duchamp ridicolizza il pensiero collettivo ed egemonizzante con l’impalpabile leggerezza della sua fulminante ironia. Interessante soffermarsi sulla presenza delle “Veneri”; quella degli stracci di Michelangelo Pistoletto, in questa riproduzione, di una copia antica di Venere vi è già un senso di artificio, più vitalità vi è negli stracci colorati, disuguali, poveri ma allegri. Cosa voleva dire Pistoletto, sarà un po’ difficile saperlo, vi si può scorgere una teatralità dell’apparenza esagerata, una sottile inquietudine, ma anche una sottile vena ironica, soprattutto nella Venere che vi mostra il suo posteriore e vi manda… Qui un materiale povero come gli stracci acquista dignità, alla pari con la Venere. Lo straccio perde quindi un significato di materiale povero, per divenire attraverso la sua manipolazione e trasformazione elemento compositivo, in un’opera d’arte dai significati nobili. Gli elementi insiti dell’opera quindi spaziano dall’idea di riutilizzo a quello di rielaborazione, qui salta il concetto di cultura alta e di cultura bassa. La Venere di Milo a cassetti di Salvador Dalì, dove i cassetti alludono metaforicamente alle zone più profonde e segrete dell’inconscio, l’antica opera greca ideale di bellezza non è più solo un involucro. La Venere blu di Yves Klein, diventa magica perché blu, e cosa ha questo blu, è il blu unico di Klein, l’artista brevettò il suo blu, in pratica Klein è il blu di Klein. La Venere restaurata di Man Ray, aggrovigliata da corde, dove la Venere di Milo, senza braccia e senza gambe viene sommariamente restaurata con dello spago. La Venere di Andy Warhol, ci ripropone la Venere di Botticelli, un’opera talmente famosa che pensiamo di conoscere bene, quasi non la guardiamo più, troppo “popular”, ecco che Andy ci propone di osservarla bene, perché qualcosa di nuovo si può trovare proprio nell’ovvio. Ma cosa sono tutte queste Veneri perché questi artisti insistono su ciò? Erano gli anni ’60/’70, quando l’emancipazione della donna doveva portare a un mondo preferibile, tante speranze, ma come donna, oggi, tristemente mi chiedo… siamo davvero in un mondo migliore? Ci sarebbe ancora tanto da dire, ma non ho più spazio, un solo suggerimento osservate bene il video di Bill Viola e soffermatevi sull’istallazione della barca che va verso l’isola dei morti, chiaro riferimento all’isola dei morti di Arnold Bocklin, il dipinto preferito da Hitler, dove il silenzio e la desolazione immersa in un’atmosfera misteriosa ed ipnotica, è specchio della nostra pochezza.

immagine: Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto

articolo già pubblicato sul quotidiano  “La Voce di Romagna” il giorno 30/05/2016

San Massimiano. il vescovo di Giustiniano

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San Massimiano fu il ventottesimo vescovo di Ravenna, e primo arcivescovo d’occidente, nacque nel 498 a Pola, in Istria, dove divenne diacono. Il ritrovamento di un “tesoro” per mano sua o del padre, gli permise di recarsi alla corte imperiale di Costantinopoli, guadagnandosi la stima dell’imperatore Giustiniano. Nel 545, alla morte del vescovo di Ravenna, i fedeli della città chiesero all’imperatore di eleggere un loro candidato, ma Giustiniano “consigliò” a papa Vigilio di incaricare Massimiano. I ravennati si ribellarono, non lo volevano, lo sentivano imposto. Massimiano si accampò fuori dalle mura, ospite del vescovo ariano dei goti, ma poi riuscì ad accattivarsi la simpatia dei fedeli, ottenendo così il permesso di accesso alla sua sede.   Andrea Agnello (800/850 circa), presbitero e storico ravennate, scrive che i cittadini andarono incontro lietamente a Massiminiano, “cum signis et bandis”, dal che nacque la parola bandiera, d’origine gotica. Una delle prime preoccupazioni di Massiminiano, fu quella di cancellare le tracce dell’arianesimo, degli sconfitti  goti. Nella basilica di Sant’Apollinare Nuovo, fece rifare parte dei mosaici affinché non restasse nulla che ricordasse Teoderico e il suo governo. Massiminiano rappresentò l’età d’oro della Chiesa di Ravenna: furono completate e consacrate le basiliche di San Michele e San Vitale, molte altre furono abbellite. A Sant’Apollinare in Classe fece iniziare un ciclo di mosaici celebrativi della diocesi ravennate, nel catino absidale Apollinare, primo vescovo di Ravenna, sontuosamente abbigliato con dodici pecorelle che rappresentano i fedeli. La scelta del tema è legata alla lotta all’arianesimo, poiché ribadisce la natura umana e divina di Cristo, parzialmente negata dagli ariani. Il grande scontro fra ariani e cattolici, è in un passo del Padre Nostro, la preghiera che fu insegnata da Gesù ai suoi apostoli, mentre egli si era ritirato in preghiera, dove si dice: “generato e non creato”. Massimiano morì a Ravenna nel 556 e le sue spoglie furono tumulate nella basilica di Sant’Andrea, poi trasferite in cattedrale. Massimiano è raffigurato nei mosaici di San Vitale accanto a Giustiniano, e la sua cattedra vescovile, forse dono dell’imperatore, realizzata con pannelli in avorio e scolpita tra il 546 e il 556, è conservata presso il Museo arcivescovile di Ravenna.

immagine: San Massimiano

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 23/11/2015

 

Il segno dei Magi nei tesori della città bizantina

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A Ravenna sono numerose le immagini dei Magi, sono fra le prime iconografie e perciò le più “veritiere”. Nel Museo Arcivescovile i Magi  sono presenti nella Capsella dei Santi Quirico e Giulitta, un reliquiario di marmo databile alla prima metà del V secolo. Sono vestiti all’orientale, con brache strette, mantelli svolazzanti e cappello frigio, il copricapo poi adottato dai rivoluzionari francesi, porgono i loro doni al Bimbo che sta sulle gambe della Madre. Sempre al Museo, vi era un tempo un’altra immagine dei Magi, si trovava incastonata nella famosa Cattedra d’Avorio di Massimiano, oggi purtroppo la formella non c’è più. Nella Basilica di San Vitale i Magi sono presenti nel sarcofago dell’esarca Isacio e nel mosaico che raffigura Teodora; l’orlo della veste dell’imperatrice presenta i Magi, nella loro classica iconografia, sono ricamati in oro sul manto porpora, protesi in avanti, nel gesto dell’offerta. Sul fronte del sarcofago di Isacio, è raffigurata la visita dei Magi alla Madonna col Bambino, l’iconografia è uguale alle altre con la differenza che qui uno dei Magi si volta indietro; nel retro del manufatto ci sono i pavoni, le palme e il Chrismon (monogramma di Cristo) simboli di resurrezione, sui lati corti la resurrezione di Lazzaro indica la fiduciosa speranza nella Vita Eterna, mentre la scena di Daniele nella fossa dei leoni è testimonianza di totale fiducia in Cristo. La raffigurazione più importante dei Magi si trova nella Basilica di Sant’Apollinare Nuovo. Questa immagine, monumentale e preziosa, in mosaico, è famosa in tutto il mondo. Maria in trono con il Bambino, appartiene al periodo di Teoderico, mentre i Magi appartengono alla ricostruzione di parte dei mosaici, effettuata dopo la sconfitta  degli ariani, per cancellare la memoria del re goto. Dalla città di Classe le Vergini sembrano camminare lentamente verso la Madonna; le precedono i Magi che portano doni al Bimbo. Sono Magi veramente belli, rutilanti, coi ricchi abbigliamenti orientali colorati, i gioielli, i doni in suntuose argenterie, hanno anche loro il berretto frigio ma in realtà avevano in capo delle corone che furono sostituite dal restauratore romano Felice Kibel nell’800. Sono una chiara allusione alla supremazia della Trinità. Gli ariani e i cattolici  se le diedero di “santa ragione” sui cavilli della Trinità, dimenticandosi che Cristo è amore.

Immagine: Adorazione dei Magi, Capsella dei Santi Quirico e Giulitta, Museo Arcivescovile

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 05/01/2015

Quando Freud fu a Ravenna

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Sigmund Freud (1856/1939) è stato un neurologo e psicoanalista austriaco, fondatore della psicoanalisi.  Freud è noto per aver elaborato una teoria secondo la quale i processi psichici inconsci sono determinanti sul pensiero, sul comportamento e sulle relazioni tra individui. Tentò di stabilire relazioni tra la visione dell’inconscio, rappresentazione simbolica di processi reali, con la fisicità  del cervello e del corpo umano,  concetti che hanno trovato parziale conferma nella moderna neurologia e psichiatria.L’impulso sessuale e le sue relazioni sono molto importanti per Freud, molti dissensi dalle sue teorie (Jung e altri) nascono dalla contestazione del ruolo, ritenuto eccessivo, riconosciuto da Freud alla sessualità che la riteneva la causa principale dei disturbi nevrotici. E’ stata inaugurata, qualche tempo fa, nell’area della fontana dei Giardini pubblici una targa che ricorda la visita nel 1896 di Freud a Ravenna. “L’inaugurazione di questa targa, afferma l’assessora  Piaia, ci dona memoria del passaggio di Freud a Ravenna. Freud, padre della psicoanalisi, ha cambiato la cura della mente, ha spostato la lettura della sofferenza dal piano biologico al piano culturale. Grazie a lui il disagio psichico ha potuto essere interpretato come disagio di civiltà”. Quando Freud scende a conoscere l’Italia, l’epoca del Grand Tour è finita da un pezzo. Nel Mezzogiorno si arriva in treno, le località di soggiorno degli ospiti stranieri sono numerose, gli alberghi migliori sono organizzati all’inglese, nelle ville di Fiesole e nei castelli del Lazio, la nobiltà del luogo e il fior fiore del turismo internazionale vivono come fossero a Mayfar. (Il quartiere più lussuoso di Londra)  L’Italia di Montaigne, e di Goethe è “irrimediabilmente perduta”, ma ancora dopo il viaggio del 1864 ricordando il mare d’Italia il filosofo francese Taine scrisse:“Non ci sono parole per esprimere l’infinita bellezza di quell’azzurro a perdita d’occhio. Che distanza dal fosco e lugubre Oceano”; ma annotava pure ricordando Piazza del Mercato a Napoli: “Tutti quanti si muovono, mangiano, bevono, puzzano”. Se Taine scriveva così il suo conterraneo lo scrittore Stendhal commentava: “Nessuno è più pigro degli italiani: il movimento che nuocerebbe alla loro sensibilità, li infastidisce”. Freud amava l’Italia, nella sua collezione di stampe, decine di vedute:  Roma, Firenze, Orvieto, Capri, Pallanza, Palermo, Arezzo, Verona, Siena, Bologna con le sue torri e Ravenna col cosiddetto Palazzo di Teodorico. Freud riteneva il sogno derivante dal desiderio, aveva avuto una serie di sogni che dimostravano ciò, lo scrive nel famoso trattato “L’interpretazione dei sogni”, dove cita pure Ravenna. Si tratta di tre sogni che erano alla base del suo appassionato desiderio di vedere Roma, questa brama di Roma dovrà stare a lungo inappagata in quando lo psichiatra ebbe problemi di salute. Dunque nel primo sogno vede il Tevere e Ponte Sant’Angelo dal finestrino del treno, poi il sogno sfuma e Freud ricorda di non aver mai visto Roma (in una postilla Freud scrive che per l’appagamento dei desideri da lungo tempo ritenuti irraggiungibili occorre solo un po’ di coraggio) e il panorama che ha visto in sogno ricorda un’incisione che aveva visto di sfuggita il giorno prima in casa di un paziente. In un altro sogno si trova su una collina da dove si vede Roma immersa nella nebbia, questo sogno esprime l’incertezza della “terra promessa”. Nel terzo sogno Freud  è infine  a Roma ma con sua grande delusione non si trova in una città  bensì sulle rive di un piccolo fiume dalle acque scure, dove si trovano da un lato rocce scure e dall’altro prati con grandi fiori bianchi, vede un conoscente e gli chiede la strada per Roma. In questo sogno lo psichiatra vi ritrova lui che si sforza di vedere in visione Roma ma evoca  un’altra città a lui nota: Ravenna, nelle paludi di Ravenna aveva raccolto le più belle ninfee adagiate in acque scure, nel sogno crescono sui prati perché era stato assai faticoso tirare le ninfee fuori dall’acqua … aveva evocato Ravenna  perché almeno per un po’ di tempo la città sottrasse a Roma il privilegio di capitale.

 

 

immagine: Sigmund Freud

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22/06/2015

Ravenna, città che chiude le ere

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Ravenna è città di morte, non per niente Dante è morto qui, inoltre la città è piena di sarcofagi e spesso è velata dalla nebbia come da un sudario, il quale può essere un lenzuolo funebre, ma presso gli antichi romani si usava per asciugare il sudore. La cultura è nata per cercare di spiegare la morte, per dare un senso al nostro vivere, e si raggiunge con fatica. Ravenna come città di morte, ma se la vita è la porta della morte, di conseguenza la morte è la porta della vita. L’Impero romano morì a Ravenna nel 476. Poco tempo prima Stilicone (359/408) il generale che riusciva a difendere l’impero fu ucciso a Ravenna. Stilicone si rifugiò in una chiesa, gli fu promessa salva la vita, invece fu decapitato, avrebbe potuto ribellarsi, forte del suo esercito di unni, non lo fece per non scatenare una guerra civile. Un valente generale che ebbe dall’imperatore Onorio, come segno di gratitudine la morte. Onorio in odore di incesto, sembra che baciasse sulla bocca, anche in pubblico, la sorella Galla Placidia, di lui si hanno notizie poco lusinghiere. Un aneddoto racconta che egli amasse passare le giornate dando da mangiare alle sue galline che giravano liberamente per il palazzo. Un giorno un inviato gli portò la notizia che Roma era caduta, Onorio rispose:“Ma come, se ha mangiato solo poco fa!”. Alludeva alla sua gallina preferita, da lui chiamata Roma. Ma continuiamo nelle morti ravennati, Odoacre il primo re d’Italia fu ucciso da Teoderico, questi pure morì a Ravenna. Teoderico fu un grande re, un “tedesco” allevato dai bizantini, la sua memoria era così forte, la sua figura così tenace che subì la damnatio memoriae, di lui non esistono più raffigurazioni, cancellati i mosaici che lo ritraevano nella sua chiesa ariana, la sua salma gettata via, rimane il suo Mausoleo e forse il suo sarcofago di porfido. A Ravenna morì papa Giovanni I, imprigionato con l’inganno da Teoderico e morì Rosmunda la regina dei longobardi. Come dimenticare poi il vescovo Rinaldo da Concorezzo? Contemporaneo di Dante, dotto prelato che sfidò il Papa e assolse i templari, con motivazioni che saranno riprese molto più tardi da Cesare Beccaria. Gaston de Foix, l’Alessandro Magno del 1500 ebbe una morte poco eroica sempre a Ravenna. Infine Anita Garibaldi spirò nella landa desolata fra la terra e il mare di Ravenna. Per ultimo, come si conviene ad una star, voglio parlarvi dello strano destino di Flavio Ezio (Durosturum 390 circa / Ravenna 454). Ezio veniva dalla Dacia, e aveva sposato una donna romana. Aveva passato parecchi anni come ostaggio degli unni, e Attila era per lui come un fratello, dato che erano cresciuti insieme. Prima di essere ostaggio degli unni lo era stato dei   visigoti di Alarico, sequestrato nel sacco di Roma (410) assieme a Galla Placidia. Ezio accumulò un potere che nemmeno Stilicone aveva mai avuto, e un giorno, lo sapeva, avrebbe raggiunto il trono; non era certo l’imperatore Valentiniano III a fargli paura, il cui unico pregio era l’essere figlio di Galla  Placidia. Ezio controllava la Gallia del nord coi suoi guerrieri; si sentiva unno lui stesso, parlava la loro lingua alla perfezione e da loro aveva imparato a cavalcare, a tirare d’arco e le tecniche militari tipiche dei cavalieri della steppa. Fu sempre fautore dell’alleanza romana coi barbari. Sembra che in ogni battaglia vedesse un duello, una sfida cavalleresca, addirittura un giudizio divino, era un antesignano della figura del cavaliere. Nei libri di storia è ricordato per la battaglia dei Campi Catalaunici (451) vicino a Troyes dove sconfisse Attila. In un modo o nell’altro l’Impero tenne fino al 454, sino a quando Valentiniano uccise Ezio. Il baluardo dell’Impero fu ucciso da un imbelle rammollito come Valentiniano, il quale fu poi eliminato l’anno successivo dai guerrieri di Ezio. A Ravenna, l’agonia e la fine dell’Impero Romano ma anche l’inizio del Medioevo con le gesta ricordate nelle saghe dei Nibelunghi (di cui fanno parte anche Teoderico e Attila) e di Artù e i cavalieri della tavola rotonda. Chrétien de Troyes scrittore e poeta francese medievale, ideatore del ciclo bretone, può essersi ispirato alla battaglia avvenuta tanti anni prima nella sua città natia.

immagine: Mausoleo di Teoderico

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 02/03/2015

Ravenna, città per artisti

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Oscar Wilde noto poeta e scrittore irlandese, personaggio eccentrico con scarsa considerazione per l’opinione pubblica, antesignano di una sessualità libera e promiscua per cui pagò un prezzo elevato, finendo in carcere e ai lavori forzati. Amò uomini e donne ma queste ultime un po’ le disprezzava. Oscar Wilde espresse il suo pensiero sulle donne tradite ad un amico. Il poeta aveva notato come in Francia avessero quella che lui considerava una gran brutta abitudine, quella di amare troppo le donne. Questo portava inevitabilmente al tradimento con altre donne. In Inghilterra ciò non accadeva, perché gli inglesi amavano poco le donne. Nella primavera del 1877 si trovava in Italia in vacanza, e visitò Ravenna. Entrò in città a cavallo ed ebbe un colpo di fulmine, non poteva essere che così, la città ha un fascino che turba, è intrisa  della velata inquietudine della morte, del disfacimento della gloria. Wilde dedicò a Ravenna una poesia struggente con cui partecipò al concorso Newdigate vincendolo. La poesia, divisa in sette parti, narra l’incontro di Wilde con Ravenna, terminando con un saluto alla città dove Dante dorme e che Byron ha amato così tanto…( ‘O bella! O triste! O Regina sconsolata! In devastata leggiadria tu giaci morta…  Ma tu, Ravenna, di tutte la più amata, I tuoi palazzi in rovina che sono un manto Che nasconde la tua grandezza caduta!’). Lord Byron poeta inglese soggiornò a Ravenna per seguire la sua innamorata Teresa Guiccioli. Byron aveva un’indole da “eroe romantico”, sprezzante del censo e dei privilegi (ma lui li possedeva) si fermò a lungo a Ravenna scrivendo di essere stato “marchiato” dalla città, qui continuò a scrivere il suo capolavoro: il Don Giovanni e  altri scritti tra cui il Ravenna Diario.  Ravenna è stata cantata da Hermann Hesse poeta e scrittore tedesco, che ha scritto ben due poesie su Ravenna una è dedicata alle sue donne. (‘Le donne di Ravenna portano/negli occhi profondi e nei teneri gesti/ in sé una coscienza dei giorni/ dell’antica città e delle sue feste’). Alexander Blok poeta simbolista scrisse una poesia intitolata Ravenna ispirata dal suo viaggio italiano. Thomas S. Eliot poeta e drammaturgo statunitense scrive la poesia “Luna di miele”(scritta in francese) descrivendo una coppia in luna di miele a Sant’Apollinare in Classe. Henry James scrittore statunitense scrisse di Ravenna annotando poi: “Non ho spazio sufficiente per elencare tutte le varie splendide gemme della raccolta”. Marguerite Yourcenar affermò che “nei mosaici di Ravenna c’è Dio”. Gustav Klimt celebre pittore simbolista fu talmente colpito dai mosaici di Ravenna da influenzarne la sua arte scrisse: “A Ravenna tanta miseria, i mosaici di splendore inaudito”. Ezra Pound aveva tra le sue città predilette Ravenna, Gabriele D’annunzio dedicò un’ode alla città e il cielo stellato del Mausoleo di Galla Placidia è stato fonte di ispirazione a Cole Porter, in visita a Ravenna negli anni ‘20, per la composizione della famosa canzone Night and Day.  Carl Gustav Jung fu talmente affascinato dai mosaici da cadere preda di una sorta di visione… si potrebbe continuare ma chiudo con Thomas Middleton che ha scritto una commedia su Ravenna: “La Strega”, prendendo in prestito la storia di nobili ravennati traendola dalla narrativa di Matteo Bandello (ideatore della tragedia di Romeo e Giulietta di William Shakespeare). Forse Middleton   l’ambientò qui in terra romagnola come satira contro le credenze e le pratiche di stregoneria della società ravennate del tempo. L’opera la Strega è nota soprattutto per le parti sulle streghe e su Ecate che sono state incorporate da  Shakespeare nel Macbeth. Vorrei terminare ma non posso non dirvi che intorno al 700  è stato compilata da un chierico anonimo un’opera geografica molto rara chiamata Cosmografia ravennate che si compone di un elenco di toponimi che coprono il mondo dall’India all’Irlanda, un lavoro immane, considerando i tempi, in un angolino ad est dell’India l’autore vi localizza il Paradiso terrestre. L’ultima ciliegina: Ravenna è citata quattro volte nelle profezie di Nostradamus, in una di queste Ravenna darebbe origine al terzo e ultimo Anticristo.

 

immagine: Mosaici di Galla Placidia, Ravenna

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Vove di Romagna” il giorno 03/11/2014

 

 

Il dolore e il sorriso di Giorgio Celiberti in mostra

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Sino all’11/12/ 2015 sarà visibile a Ravenna al Museo Nazionale la mostra “La Passione e il Corpo della Storia” di Giorgio Celiberti. E’ lodevole far dialogare e mettere a confronto le opere antiche con quelle  odierne, anche perché l’arte è sempre un disfare e un rifare. La mostra non è molto grande ma vi è il percorso di Celiberti dagli anni ‘70 ai giorni nostri. Parte dalla svolta dell’artista nata dal dolore. Quando Celiberti arriva nel 1965 in visita  al lager di Terenzin vicino a Praga, dove erano morti 1500 bambini ebrei, rimane scioccato e fulminato dal dolore che l’uomo può creare. “Lager” e “Tabelle” sono lavori grigi  e spenti come cenere, graffiti con delle  X che paiono più che lettere o numeri, croci di Sant’Andrea, seguono i “Fiori” pietrificati e fossili, e  i “Muri” densi e corposi. Con “Finestre porte e stele”, c’è un ricordo  dell’antico, di tombe funerarie che proteggono corpi che ormai possono essere solo in un’altra dimensione. Infine i graffiti in bianco e nero de “La Passione” opera quasi monumentale creata per Ravenna, l’artista spiega che è rimasto affascinato dal Mausoleo di Teodorico, dalle sue porte e finestre e non poteva essere che così, un simbolo del potere che parte con buoni propositi politici per finire in una crocifissione:  Teodorico avvelenato e il suo corpo disperso… sempre e per sempre la pietà è accoppata. Giorgio Celiberti è nato a Udine nel 1929,  interviene ai grandi eventi dell’arte contemporanea. Partecipa giovanissimo alla  Biennale di Venezia del 1948, dove c’erano anche Picasso e Matisse. Si sposta tra Parigi, Londra e Roma.Italo Calvino individua nella sua pittura “il peso doloroso della vita” e non si sbagliava. L’artista era presente all’inaugurazione ed ha avuto parole lusinghiere per la città e i suoi abitanti, mi hanno colpito la sua dolcezza, i suoi occhi cerulei che emanavano un alone di bontà e il suo sorriso, mi sono così incuriosita e mi sono avvicinata. “Maestro, io conoscevo le sue opere, ma non Lei, sono rimasta stupita dal dolore che invade i suoi lavori, mentre Lei invece sorride sempre, mi aspettavo di vederla un po’ abbattuto”. “Nei miei lavori metto il dolore del mondo, lo denuncio, ma poi devo sorridere, sorridere anche per chi non può farlo”. “Maestro le sue parole mi hanno creato il “magone”, ha detto una cosa fantastica trovare la forza di sorridere per chi non può farlo … posso baciarla”?.

immagine: “La Passione” di Giorgio Celiberti

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 20/10/2014