Alla scoperta di Premilcuore, tra fiumi e montagne

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Nella Romagna Toscana attorniato da alte colline verdeggianti, sulla strada che passa da Predappio e che si inerpica lungo la vallata del fiume Rabbi troviamo un borgo dal nome invitante: “Premilcuore”. Il paese conserva quasi intatto il nucleo medievale, dominato dai resti dell’antica rocca. Alle mura ci si accedeva da due porte: a nord da Porta di Sotto, demolita verso la fine del 1700, a sud da Porta Fiorentina, tuttora esistente, la porta presenta un’antica cella campanaria, al di sotto della quale si conserva un bell’orologio meccanico del 1593. Il nome Premilcuore  sembra derivi  dal latino “Planum Mercurii” italianizzato in“Plan Mercorio”. Il pezzo forte dell’ameno   paese è il verde che attornia il fiume Rabbi (da rabidus  cioè rabbioso, furente) che scorre limpido e veloce fra pozze spumeggianti e gorghi vorticosi, in certi punti i ragazzi si gettano dalle rupi, quasi come i famosi tuffi dalle rocce di Acapulco. Pochi chilometri e ci imbattiamo in Montalto,dove    troviamo una quercia di 400 anni dalla chioma dal diametro di 25 metri! Proseguiamo e siamo al paese fantasma, Castel dell’Alpe un borgo rurale fortificato, dove oggi c’è un piccolo abitato stretto intorno a una chiesa e una piazzetta contornata da case, con uno sparuto gruppo di persone che tuttora vive qui. Ancora qualche altro chilometro, giriamo a sinistra lungo un’erta dove sono poste nelle curve edicole riportanti la Via Crucis, si giunge a Fiumicello, piccolo nucleo abitato che fino al secolo scorso era formato solo dalla chiesa e dalla canonica. Il Santuario è dedicato alla Madonna delle Nevi. Per gli amanti della pesca vi è, annesso al ristorante, un laghetto artificiale, ricco soprattutto di trote, se riuscirete a pescarle, se lo gradite, la cuoca ve le cucinerà. Anni fa mentre a Fiumicello mangiavo le trote appena pescate da mio figlio, si avvicinò Don Giuseppe, l’artefice della Via Crucis, del laghetto, del ristorante e del Santuario, ci invitò nella canonica, voleva offrirci un “santin”, io credevo fosse un’immagine devozionale, scoprii invece che era il vin Santo… delizioso. Ora Don Giuseppe non c’è più ma credo che sarà molto contento che Fiumicello sia diventato un paese sempre più bello, ultimamente poi il borgo è meta di numerosi turisti che desiderano visitare l’antico Mulino Mengozzi, ora restaurato, unico esempio a ruota orizzontale tradizionale.

immagine: Premilcuore

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 08/09/2014

Madonna del Latte, un affresco del Quattrocento

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La Madonna del Latte  che si trova nel palazzo comunale di Mondaino è un affresco databile intorno al 1480-85  attribuito  a Bernardino Dolci capostipite di una famiglia di artisti, nacque a Casteldurante di Urbania  nella prima metà del sec. XV.  La Vergine è rappresentata a seno scoperto, colta nell’atto di allattare il figlio in altre figurazioni può essere ripresa mentre un getto di latte esce dal suo seno verso la bocca di un Santo. Nella prima versione è Madre di Dio e modello per tutte le madri, nella seconda la Madonna  mostra la sua benevolenza  per un personaggio indicandolo come esempio da seguire. L’iconografia risale all’antico Egitto, alla dea Iside intenta ad allattare il figlio Horus, e ancora prima alla  dea Madre. Molte statue di Iside e di altre dee furono venerate come Madonne originali. Le prime  immagini  ufficiali della  “Madonna del Latte” si ritrovano nell’Egitto cristianizzato del VI o VII secolo, sono icone molto stilizzate ed irreali, dall’Egitto si diffusero in Oriente col nome greco di Galaktotrophousa . Si propagarono  poi  anche in Occidente,  assieme al culto di custodire nelle chiese come reliquie ampolle contenenti il latte della Madonna ( il Sacro Latte). Successivamente l’immagine della Madonna del Latte  divenne realistica in certi casi molto sensuale (Jean Fouquet  la rappresenta bellissima e eccitante, forse effigiata col corpo e il volto dell’amante del re di Francia Carlo VII). Fu così che la Riforma cattolica (1543) la  annoverò tra  le immagini sconvenienti, che si riteneva potessero fuorviare il fedele. Nell’immagine di Bernardino Dolci la Vergine è in un paesaggio idilliaco, assisa su un trono purpureo contornata da angeli musicanti, dalla lunetta superiore Dio la benedice e festoni di frutta pendono da due pilastri: ghiande associate  alla vita e all’immortalità, melagrane legate  alla fertilità e pere che rappresentano la dolcezza della salvezza attraverso il sacrificio. E la scimmia? Nel folclore cristiano medievale la scimmia era considerata indecente e vergognosa. Un bestiario medievale del XII secolo dice che l’intero essere fisico della scimmia è “orribile, ma mai quanto le sue natiche, assolutamente orripilanti”.  Quindi la scimmia nascosta non può essere che la parte “umana” di Maria espulsa dalla sua santità. In un dipinto non c’è solo da  osservare, c’ è anche un libro tutto da leggere.

 

immagine: Madonna del Latte di Mondaino

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 01/09/2014

Storie attorno a Mondaino

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La Valconca  è un luogo di dolci colline e di ubertose campagne, è ricca di castelli essendo luogo di confine fra due grandi Signorie: i Montefeltro e i Malatesta, ovviamente i castelli servivano per difesa, uno di questi è Mondaino. Il borgo  è a pochi chilometri dalla spiaggia, raccolto nella Rocca, con un’elegante piazza semicircolare, che gli abitanti chiamano“Padella”. L’etimologia del suo nome sembra legata a Diana, dea della caccia che sembra fosse venerata in questi colli. I Romani quando conquistavano nuovi  territori  davano il nome di Diana alla divinità legata alla dea Madre. Col tempo i luoghi della dea Madre diventarono molto spesso i Santuari delle Madonne nere, sovente accompagnati da chiese dedicate a San Michele Arcangelo (Mondaino ha una chiesa dedicata a San Michele). Qui troviamo  una religiosità atavica continuativa, considerate che qui soggiornò San Francesco e nel convento dei Francescani vestì il saio Papa Clemente XIV inoltre il paese ospita il convento delle Clarisse. Nella Rocca è conservata una rinascimentale  dolce Madonna del Latte dai colori soffici e pastosi propri dell’affresco, è immagine universale di tenerezza. Alle spalle della Vergine è rappresentata, in modo velato, una scimmia che fa la lingua. Forse il diavolo che sbeffeggia la Vergine? La Madonna del latte è legata al simbolismo della Vergine nera, la quale  è allacciata alla dea Diana il cui emblema è la luna, la scimmia era anticamente in Egitto legata al dio della luna, forse l’artista ha voluto ricordare la densa simbologia di questa Madonna. Ma si narra anche che la scimmia partorisca sempre due piccoli, gettandosi sulle spalle quello che gli è antipatico, mentre porta davanti a sé  abbracciandolo il preferito, ma le può accadere di dover fuggire e di correre così su quattro zampe,   costretta per forza a perdere il prediletto  e a conservare quello che aveva scartato. Forse l’autore ha tolto all’antica dea Madre l’aspetto crudele trasformandola in Madonna del latte e la scimmia sarebbe dunque  l’effigie di questo lato oscuro che non c’è più. Mondaino è famoso per il Palio del Daino, si svolge attorno al 20 agosto di ogni anno, rievoca l’accordo di pace siglato nel 1459 tra Pandolfo Malatesta e Federico da Montefeltro. La pace fu accolta con gioia dalla popolazione che festeggiò con giochi e libagioni, ma questo Palio così sentito ancora oggi dalla popolazione è possibile che in qualche modo nasconda una religiosità ancestrale, il 15 agosto è la Festa dell’Assunta, festa assai vicina ad antichi culti. Il borgo merita di essere visitato non solo durante il Palio, la bellezza naturale del luogo e la ricchezza del suo patrimonio storico e artistico è assai diversificata, comprende la Rocca Malatestiana, Piazza Maggiore, il Convento delle Clarisse, la Chiesa parrocchiale di S. Michele Arcangelo, i Musei, Porta Marina. La Rocca ha numerosi passaggi segreti e camminamenti sotterranei, dal terrazzo si gode una vista mozzafiato, all’interno ha sede il Museo Paleontologico e di notevole interesse è la raccolta di maioliche. Ma andiamo in cerca del fantasma, perché come in ogni castello che si rispetti Mondaino ne ha uno. Nei primi anni del XVI secolo fu nominato quale governatore di Mondaino il poeta Giovanni Muzzarelli (1486/1516), amico del Bembo e dell’Ariosto, il quale dopo pochi anni scomparve in circostanze misteriose. Si narra che Giovanni sia stato assassinato da un marito infuriato per il tradimento subito, gettato in un pozzo col suo mulo e il garzone. Tale teoria pare avvalorata dal fatto che, in una parete del pozzo del castello, si sia trovato scritto il nome“Giustina”, una delle amanti del governatore. Ma esiste anche un’altra teoria: la nomina a governatore di Muzzarelli  avrebbe scatenato molta invidia e risentimento, a tal punto da sopprimerlo. In entrambi i casi, il fantasma del poeta vaga nel castello per ricordare ai visitatori la sua morte e facendo ogni tanto qualche dispettuccio…  nel 1987 alcuni carabinieri che presidiavano i seggi elettorali denunciarono che una notte  le urne erano state violate senza che nessuno entrasse nelle sale e dopo aver udito frastuoni e suoni alquanto sinistri.

immagine: Mondaino

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 01/09/2014
 

Montebello, il castello col fantasma di Azzurrina

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Quella di Montebello è una delle rocche più belle e meglio conservate della Romagna. Il castello ha la particolarità di poggiare le sue fondamenta proprio sul picco del monte.  Il Mons Belli che tradotto dal latino vuol dire monte della guerra, fu meta di molti assalti, ad iniziare dai Malatesta nel 1186. Dopo circa 200 anni furono i Montefeltro a conquistarla e la rocca rimase sotto il loro dominio fino al 1438 quando Il signore dei Malatesta Sigismondo Pandolfo la riconquistò. Oggi i proprietari del castello di Montebello sono la famiglia Guidi di Bagno.  Montebello si trova nell’entroterra di Rimini ed è famoso per il fantasma di Azzurrina.  La storia narra della giovanissima figlia di Ugolinuccio Malatesta, Guendalina, che scomparve misteriosamente all’età di otto anni, mentre giocava rincorrendo una palla di stracci all’interno della fortezza del castello di Montebello. Questa vicenda attira ai giorni nostri centinaia di turisti che, recandosi al castello  cercano il brivido del fantasma. La piccola Guendalina aveva una particolarità: era albina e a quel tempo questa particolare anomalia era considerato un segno di stregoneria e quindi frutto del demonio. Le fu affibbiato il soprannome di Azzurrina in quanto la madre, per nascondere la sua presunta malattia le tinse i capelli di nero. Ma la tipica chioma degli albini non trattenne a lungo la tinta che colò lasciando però ai capelli un particolare riflesso  azzurro. La leggenda dice che l’ultima volta che venne vista dal suo accompagnatore la bimba stava giocando a palla all’interno del castello, in quanto era una giornata piovigginosa. Guendalina corse dietro alla palla e scomparve.  Non vennero mai ritrovati i resti della bambina e si ritiene decisamente impossibile che possa essere uscita  dai sotterranei  del castello in altro modo se non risalendo quelle stesse scale. Fuori le mura imperversava un furioso temporale che si placò con la scomparsa di Azzurrina. Risate, giochi di bimba, 12 rintocchi di campane, il battere veloce di un cuore, questi i fenomeni più volte uditi e registrati che si possono sentire solo in quegli anni che finiscono con lo “0” o il “5” nel giorno di solstizio d’estate.

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 25/08/2014

Le api, nostre benefattrici

Le api nostre amiche

Gli antichi Romani quando brindavano alzavano le coppe dicendo: “prosit”, un’esclamazione latina che significa: “sia a favore” e molto spesso lo facevano con l’idromele.  L’idromele è una bevanda alcoolica ricavata dalla fermentazione di acqua e miele. L’uomo primitivo può avere facilmente scoperto che una miscela di miele e acqua, lasciata in un ambiente tiepido, poteva fermentare e diventare una bevanda capace di indurre stati alterati di coscienza o di dare la sensazione di poteri magici… una bevanda simile al vino, Omero la chiama ambrosia. Le origini dell’idromele sono   difficilmente databili. Si hanno notizie del fatto che fosse largamente diffuso e consumato sia nell‘Antico  Egitto, sia dai Greci e dai Romani, dai Celti, dai Vichingi e dagli Slavi, doveva costituire una sorta di bevanda nazionale per un intero emisfero geografico e culturale. Era una bevanda considerata sacra, spesso chiamata il nettare degli dei, e offerta in dono alle varie divinità pagane. Durante le feste e i banchetti era sempre presente, simbolo di fertilità e felicità, e veniva regalato alle coppie di sposi in grandi quantità come dono beneaugurante. Alcuni  ritengono che proprio da questa usanza di regalare idromele e miele ai neo sposi derivi la parola  “luna di miele”. Nell’antichità l’ape era sacra, ma ancora oggi questo insetto è nel nostro immaginario come un qualcosa di particolare. “Se un giorno le api dovessero scomparire, all’uomo resterebbero soltanto quattro anni di vita”, questo è ciò che avrebbe detto Einstein, considerata oggi una bufala, ma ne siamo certi? C’è chi asserisce che le api non si avvicinano a campi con coltivazione OGM, ritenendoli “avvelenati ”. Aldilà  di questa opinione, e del fatto che le api siano le maggiori impollinatrici, ci sarebbe anche un legame comportamentale, un paragone fra il modo di fare delle api, dei ragni e di noi stessi:“la battaglia fra ragni ed api”. Questa contesa è connessa alla disputa fra gli antichi e i moderni, una polemica nata nell’Accademia francese del XVII secolo, che si risolse più o meno così: Il ragno individualista, simbolizza i moderni, crede di dovere tutto al proprio patrimonio, l’ape, rappresenta gli antichi, riconosce nella sua attività il fatto che il linguaggio sia preesistente e che la scoperta non sia una creazione, ma un trovare e un ritrovare. Appare quindi l’arroganza del ragno “moderno” contro l’umiltà  dell’ape “conservatrice”.  Ma torniamo alle api, le quali hanno rischiato seriamente di sparire a causa dell‘uomo. Ora la loro salute è migliorata, ma tanto deve essere ancora fatto per salvare, con loro, la biodiversità vegetale. Oggi, nel nostro Paese l’idromele è quasi sconosciuto, ma ogni anno si producono circa 23mila tonnellate di miele, secondo recenti dati in Italia ci sono circa 40mila apicoltori. Sono quattro le qualità di miele che rientrano nell’elenco dei prodotti tradizionali della regione Emilia Romagna: Il Miele dell’Appennino, il Miele di erba medica della pianura, il Miele vergine integrale e infine il Miele di tiglio, tipico della provincia di Ravenna. La Romagna dedica alla fine di agosto (quest’anno il 6/7 settembre) una festa al miele, a pochi chilometri dalla costa romagnola risalendo verso l’entroterra di Rimini: a Montebello; dove è possibile ammirare il Castello divenuto famoso per la leggenda di Azzurrina. Durante le due serate della sagra si  possono gustare i prodotti  dell’alveare,rallegrarsi fra mercatini ed  intrattenimenti vari lungo le vie di questo borgo affascinante sulle colline riminesi. Tipico di questa zona è il miele di castagno, dal gusto amarognolo e forte, che è l’abbinamento  ideale del formaggio di fossa e la melata, ricavata dagli alberi di querce, dal colore ambrato e ricca di minerali, come il potassio. La melata è un liquido zuccherino e vischioso che ricopre le foglie solo di certi alberi, liquido secreto da afidi che si nutrono della linfa di queste piante, e bottinato dalle api come il nettare dei fiori. Altre produzioni apistiche tipiche sono il polline, ottimo ricostituente, il propoli utile come rimedio contro le malattie stagionali e la pappa reale usata come ricostituente.

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 25/08/2014

 

LA STREGHERIA ROMAGNOLA

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Nel 1811,Michele Placucci uno storico forlivese scrisse la prima opera sul folclore in Italia, e sapete un po’ su cosa? Sulla Romagna. Placucci raccolse i risultati  di un’inchiesta sul territorio di Forlì e li pubblicò nel volume “Usi e pregiudizi dei contadini di Romagna” opera a suo dire: a sollazzo di chi si apprestasse a leggerla e specialmente de’ villeggianti”. Vi dico che ne ha scritte di “cotte e di crude”. Charles Godfrey Leland fu un giornalista e folclorista assai stravagante, nonostante ciò si stupì delle stranezze di noi romagnoli. Nei suoi studi, del 1880 circa, Leland, si sofferma sul territorio esteso tra Forlì e Ravenna, qui secondo lui si sarebbero conservati antichi culti pagani, poi divenuti stregoneria. Scrive: “Tra questa gente la stregheria o stregoneria o, come ho udito chiamarla,“la vecchia religione”, esiste ad un grado tale che molti Italiani ne rimarrebbero stupiti. Questa stregheria, o vecchia religione, è qualcosa di più della magia e qualcosa di meno di una fede. Consiste nelle rimanenze di una mitologia di spiriti, i principali dei quali conservano i nomi e gli attributi degli antichi Dei Etruschi o Romani”. Ma che ce l’hanno tutti con noi? I romagnoli amano le loro radici, le loro tradizioni e perciò possono guardare in faccia al futuro senza paura, le innovazioni non sono altro che il passato rivisitato, meglio conservare che spaccare tutto. Conosciamo tutti il significato che la religione cristiana ha dato alla festività dell’Epifania, sappiamo che significa manifestazione della Divinità cioè di Gesù. Che c’entra l’Epifania con la Befana? Il termine Befana deriva dalla storpiatura appunto di Epifania, perché un tempo lontano la Befana era una Dea. L’origine della Befana è nel mondo agricolo e pastorale. Anticamente, in questi giorni si celebrava la morte e la rinascita della natura, attraverso la figura della Dea Madre; la quale stanca per aver donato tutte le sue energie durante l’anno, appariva sotto forma di una vecchia e benevola strega, che volava nei cieli con una scopa, colbisogno di  buttare il vecchio per rinnovarsi e rinascere a nuova vita. La vecchia veniva metaforicamente bruciata, il fuoco, in questo senso, è purificatore e le ceneri erano il simbolo di fecondità e non solo. Le ceneri sono altamente simboliche, basti pensare al Mercoledì delle Ceneri col duplice: “Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai” e “Convertitevi, e credete al Vangelo”. Inoltre sino a non molti anni fa i campi venivano “sterilizzati” con la cenere così come veniva usata per sbiancare il bucato o conservare le uova. Più tardi nell’antica Roma fu Diana, Dea della luna e della fertilità, a prendere  il posto della Dea Madre, nelle dodici notti delle festività natalizie, volava su una scopa in gruppo con altre donne per un rito propiziatorio ai campi, ma poi con l’avvento del cristianesimo la chiesa le considerò streghe. Gli antichi Romani oltre a credere che Diana volasse in cielo, celebravano l’inizio d’anno con feste in onore al Dio Giano, da cui deriva il nome del mese di gennaio, e alla Dea Strenia, legata al bosco e alla fertilità, da cui viene il termine strenna. Il primo di gennaio i romani si scambiavano fichi, mele e rametti di alloro o di ulivo, successivamente si fecero dei doni anche costosi a vicenda. Ma veniamo ai riti odierni che testimoniano un antico legame. Era in uso in certe zone di Romagna che i maschietti (solo loro perché le femminucce portavano iella), la mattina presto del Primo dell’Anno, andassero in giro, a fare gli auguri di Buon Anno Nuovo, ricevendo in cambio denaro e libagioni, il medesimo costume è in uso in Sardegna, qui i maschietti  vengono chiamati figli di Strenia. Siamo sempre in odore di Befana, tra l’altro da Strenia, si passa a stria e poi a strega. Usanza antichissima e amata in Romagna è l‘accensione del ceppo, grosso tronco che dovrà bruciare per dodici notti. Il carbone che rimane dopo la combustione, verrà utilizzato l‘anno successivo per accendere il nuovo fuoco. Il carbone  è tra i doni che la Befana distribuisce, si diceva solo ai bambini cattivi, ma era implicito che era un “cattivo”per modo di dire, se non c’era un po’ di carbone la calza non era perfetta. la Befana è rappresentata vecchia e brutta con un fazzolettaccio in testa e con le scarpe rotte, a cavallo della scopa, vola nella notte, scende dal camino, oggi scenderà forse tramite la banda larga, lascia ai bambini dolci o carbone. Come ogni anno Faenza celebra in occasione della vigilia dell’Epifania la Nott de Bisò, atto conclusivo del Palio del Niballo. Il Niballo, grande fantoccio raffigurante Annibale e simbolo di tutte le avversità, verrà poi bruciato. Altro elemento caratterizzante la Festa,  è il bisò, vin brulé preparato con Sangiovese, aromatizzato con cannella e chiodi di garofano. Quando si parla di rogo e di “biscione” c’è sempre lo zampino della Dea Madre/Befana/Strega, si brucia il vecchio per lasciare posto al nuovo che si spera sia migliore. A Tredozio si svolge il giorno dell’Epifania il falò della Befana, il fantoccio di quest’ultima viene portata in corteo per le vie del paese, poi viene incendiato nel letto del torrente Tramazzo. Come dimenticare poi i Pasqualotti, i gruppi corali che cantano stornelli e ti entrano in casa insieme a befana e befanotto e, dopo aver ballato con i padroni di casa e gli ospiti, se ne vanno facendo gli auguri  alla famiglia. Sapete perché si chiamano Pasqualotti? Tutte le feste religiose vengono considerate come Pasqua perché preludio di quest’ultima Festa in cui viene sconfitta la morte… e non dimenticatevi che la notte della Befana gli animali parlano tra loro, quindi trattateli bene perché altrimenti potrebbero sparlare di voi. 

 

 immagine: Befana pin up

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il 6/01/2014

Regine svedesi in riviera

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Rimini e Riccione, sono state le stelle del boom turistico del dopoguerra, Riccione la perla verde dell’Adriatico, congiuntamente al turismo di massa, fu anche meta vacanziera di personaggi dello spettacolo, della cultura e dello sport, ad esempio il mitico Pelé in viaggio di nozze, ed ancora prima, negli anni ‘30, Benito Mussolini vi aveva la sua casa delle vacanze. Se ci muoviamo nella periferia di Riccione, scopriamo misteri e storie affascinanti. Il castello degli Agolanti, recentemente restaurato è oggi di proprietà del comune, risale al 1260 quando gli Agolanti, per lungo tempo considerati signori del contado di Riccione, fuggirono da Pistoia e si insediarono a Rimini. L’unico loro edificio superstite è questo castello, chiamato anche  “tomba bianca”, nel medioevo il termine tomba indicava una costruzione fortificata eretta in genere su un’altura. Degno di nota è l’arrivo nel 1657, della regina Cristina di Svezia, si fermò nel castello degli Agolanti perché a Roma, dove era diretta, era scoppiata una epidemia. Quindi le prime svedesi non sono arrivate col boom turistico ma ben prima, a Cristina il luogo sarà piaciuto assai altrimenti ne avrebbe scelto un altro. Cristina nasce nel 1626, per un errore delle levatrici, viene dichiarata maschio. Un errore che è solo il primo segno dell’ambiguità che condizionerà tutta la sua vita e la renderà una figura molto originale (e chiacchierata). Ereditato, a soli sei anni, il trono di Svezia alla morte del padre Gustavo, Cristina riceve un‘educazione adeguata al rango principesco. Ciononostante, dimostrando un temperamento vivace e anticonformista, la giovane sovrana non di rado mangia e bestemmia come il più rude dei soldati, e preferisce gli abiti di foggia maschile, le scarpe basse e i capelli corti alle vesti sontuose e alle complicate acconciature che sarebbero state più consone al suo ruolo. Curiosa, colta e intelligente, sviluppa interessi in molteplici campi. Nel 1654, pochi anni dopo l‘incoronazione ufficiale decide con enorme scandalo, di convertirsi al cattolicesimo e abdica in favore del cugino Carlo Gustavo. Lascia quindi la Svezia e inizia una stravagante e dispendiosa nuova esistenza a Roma. Figlia di un secolo inquieto caratterizzato da profondi cambiamenti, Cristina si troverà, a sua volta, a un bivio su questioni di religione, di potere, di politica e di sesso. Considerata di volta in volta Iesbica, prostituta, ermafrodito e atea, infranse ogni convenzione per affermare il suo diritto di seguire la sua indole a prescindere dal ruolo, dal rango e dall’essere una donna. A Roma presso Villa Medici vi è un cancello che mostra i segni di un colpo di cannone,  pare che Cristina attendesse il cardinal Azzolino,suo presunto amante, a Villa Medici, il cardinale era bloccato dal papa, al che Cristina infuriata salì a Castel Sant ’Angelo e sparò con un cannone in direzione di Villa Medici, fu un miracolo che non uccise nessuno, pensate che caratterino! Prima di Cristina, forse un’altra donna di grande tempra visse al castello di Riccione. Chiara Agolanti nacque a Rimini nel 1280, insofferente di ogni sottomissione, passò la sua adolescenza cavalcando e giostrando, ribelle alle pratiche religiose. Morta la madre divenne ancora più irrequieta, si sposò giovanissima, rimanendo vedova quasi subito, ereditando immense ricchezze. Continuò la vita mondana dando scandalo, essendo insaziabile sia di cibo che di sesso.   Il padre  e il fratello morirono lo stesso giorno mentre erano in guerra contro i Malatesta, per il dominio  del territorio riminese, accadde così che tutte le ricchezze della famiglia Agolanti si accentrarono nelle mani di Chiara. Un giorno per curiosità, Chiara  entrò nella chiesa  dei frati francescani, si sentì turbata e agitata, e decise allora di mutare vita. Da quel momento iniziò un’esistenza di pietà, di opere buone, di penitenza. Le sue grandi ricchezze le elargì ai poveri ai quali diede anche il sostegno morale, dotò di dote ed assistenza tutte le ragazze nullatenenti da sposare. Chiara Agolanti morì nel  1326, il suo corpo riposa  nella chiesa di Corpolò un paese dell’entroterra riminese, gode del culto di Beata.

immagine: Castello degli Agolanti

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 11/08/2014

Il prete Gianni dove regnò?

preteGianniNel XII secolo l’Europa è stretta in una tenaglia, a Oriente è minacciata direttamente dall’Islam, a   Occidente la Spagna è sotto il dominio del Califfato di Cordoba. Inoltre infuriano le lotte fra il papato e l’imperatore. In questo clima di tragedia non mancano le inutili rappresaglie, Federico Barbarossa (1122/1190)  imperatore del Sacro Romano Impero decide nel 1158 di eleggere da sé  l’arcivescovo di Ravenna, prova della fiducia che egli riponeva nei conti di Biandrate, ma anche abile atto politico per legare sempre più a sé il potente feudatario piemontese. L’elezione, tuttavia, crea forti reazioni da parte di papa Adriano IV, infatti spettava al papa l’elezione dei prelati. L’arcivescovo Biandrate dovrà penare molto per ottenere la carica, da una parte era spalleggiato dall’imperatore, ma dall’altra è ostacolato anche dal nuovo papa Alessandro III. La situazione è: nemici esterni alle porte e lotte interne fra chi deve governare. Poi, improvvisamente, si verifica qualcosa  di miracoloso, nel 1165 l’imperatore bizantino Manuele I Comneno riceve una strana lettera, da lui poi girata a papa Alessandro III e a Federico Barbarossa. L’autore della lettera si autoproclamava  “prete re” e discendente di uno dei tre Re Magi. Nel merito, la missiva parlava di un certo Giovanni (o Gianni) che aveva di recente sconfitto i musulmani di Persia. Questo Gianni o Giovanni manifestava l’intenzione di ricongiungersi ai cristiani ormai assediati in Gerusalemme dalle truppe del Saladino. La lettera, con linguaggio ampolloso, descriveva il regno di questo prete e re orientale titolare di domini immensi che, definendosi  “signore delle tre Indie”, diceva di vivere in un immenso palazzo fatto di gemme cementate con l’oro e aveva, ogni giorno, non meno di diecimila invitati alla propria mensa, tra i suoi sudditi annoverava  anche folletti, giganti, centauri, e minotauri. I due imperatori non diedero peso a quella lettera mentre il papa per scrupolo mandò una lettera composta esattamente da mille parole, in cui lo informava che una volta giunte notizie più precise, avrebbe inviato presso di lui un proprio ambasciatore. Ma sarà mai esistito questo prete Gianni? Ne parlano un po’ tutti, da Marco Polo a Ludovico  Ariosto, da Umberto Eco a Wilbur  Smith, da  Jacques Le Goff  a Oscar Wilde, ha affascinato un sacco di gente, dove c’è mistero lui c’è, è come il graal, infatti i poemi del ciclo bretone narrano che si trovi nelle sue terre. Possiamo dire che il regno del  prete Gianni è stato cercato, allo stesso tempo, dovunque e in nessun luogo. Il regno del prete Gianni è stato localizzato, di volta in volta, ma sempre senza successo, in Asia, in Africa e perfino in America. L’unica notizia di un certo valore storico ci viene da Marco Polo.  Secondo Marco Polo i mongoli, prima dell’assunzione del potere da parte di Gengis Khan, sarebbero stati originariamente tributari del prete Gianni. Un’altra ipotesi  sposta il dominio del  prete Gianni in Africa associandolo all’altrettanto mitico regno di Gog la cui capitale sarebbe stata Magog, ovvero dei mitici regni di Gog e Magog, nel libro di Ezechiele, le tribù pagane di Gog e Magog rappresentano metaforicamente le forze del male. Dei regni di Gog ad ovest e Magog a sud di Tenduk parla anche Marco Polo che, però, li riporta in Asia e li considera sottomessi al  prete Gianni. Con il passare del tempo la leggenda attribuì a prete Gianni tutta una serie di  meraviglie. Si narrava che egli possedesse uno specchio che gli consentiva di distinguere i buoni dai malvagi e si diceva che nel territorio del suo regno si trovava la fontana della giovinezza, che gli avrebbe consentito di vivere fino all’età di 562 anni. Forse è proprio questa fontana della giovinezza l’attrattiva più gustosa del nostro prete. In molti scritti medioevali si parla di questo misterioso regno cristiano che si sarebbe trovato in una lontana regione dell’Oriente, al di là dei territori dominati dall’Islam. Chissà forse il mito del prete Gianni può anche avere un qualche fondamento di realtà storica. Voi che ne pensate? Mentre siete in viaggio, durante le vacanze non dimenticate di dare un’occhiata un po’ in giro … non si sa mai.

immagine: il territorio del prete Gianni

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 04/08/2014