“MEGLIO FARINI O CLEMENTE XII?”

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L’intento assai meritorio di far uscire la statua di Papa Corsini (fautore del canale Corsini/Candiano e della diversificazione dei fiumi Ronco e Montone che allagavano sovente la città) dal chiostro del Museo Nazionale di Ravenna si appanna un poco con l’ubicazione scelta: Piazza J. F.  Kennedy.La statua fu eseguita dallo scultore romano Pietro Bracci ( 1700/1773) il quale continua la tradizione  scultorea del Bernini, con uno stile pieno di movimento e di sensibilità quasi pittorica, l’artista eseguì varie opere tra cui il gruppo di Oceano nella Fontana di Trevi e restaurò l’Arco di Costantino. Sebbene la statua ravennate non sia considerata fra le sue opere maggiori il manufatto andrebbe rivalutato, presenta un’insolita forza plastica, il Papa sembra quasi alzarsi in piedi in un energico atto benedicente, fra uno svolazzare marmoreo di vesti. Anche Pietro Bracci  è stato svalutato colpevole di aver operato in un tempo di transizione, tra il Barocco successivamente considerato decadente, soggetto a scherno e poi dimenticato in Italia, a favore del nuovo, il Neoclassicismo di Antonio Canova. Questi muove i primi passi artistici aiutato da Virginio Bracci, figlio di Pietro. La statua assai pregevole, forse era un poco invisa ai vecchi ravennati perché Clemente XII combatté con molta fermezza la massoneria, di conseguenza anche i repubblicani e la carboneria, che erano assai anticlericali. Ravenna ne aveva una nutrita forza soprattutto in ambito nobile/borghese/progressista. Clemente XII emanò il primo decreto pontificio contro la massoneria, scomunicandone gli aderenti con la bolla pontificia:In eminenti apostolatus specula“(1738). In Piazza Kennedy è ubicato Palazzo Rasponi Murat, qui hanno dimorato esponenti di spicco della massoneria e della carboneria, uno fra tutti il patriota e uomo politico Gioacchino Rasponi, fu parlamentare per quindici anni consecutivi. Quindi storicamente Piazza Kennedy non va bene, ma pure è inadeguato lo stile della statua: si “imbruttirebbero” a vicenda. Inoltre è di cattivo gusto posizionare un Papa a benedire, che in vita non avrebbe mai fatto, chi la consacrazione proprio non la voleva. Se proprio si vuol collocare una statua in Piazza Kennedy meglio sarebbe disporvi il monumento di Luigi Carlo Farini, toglierlo dalla Stazione, dove l’illustre medico, storico, politico e patriota sembra (scusatemi ma a volte occorre esprimersi con franchezza) collocato nella stanza da bagno seduto sulla tavoletta, e allogarlo nella piazza dei “progressisti”. La statua di Clemente XII ha subito la “diaspora” che capita a volte ai personaggi che secondo le epoche sono invisi o amati. Pasquino (statua “parlante” di Roma dai motti assai feroci) ricorda il Papa con insolito rispetto: “Son stato un ricco abate / un comodo prelato / un pover cardinale / e un papa spiantato”, a differenza di altri Papi a cui succedeva il contrario. Nel 1899 Santi Muratori (studioso e bibliotecario della Classense sino al 1943), aveva proposto di trasferire in piazza Arcivescovado la statua di Clemente XII. Questa collocazione risulta assai integrata per stile architettonico, arricchendo la spiritualità della zona con la forza integerrima quasi magnetica di Clemente  XII.  Qualche anno fa Franco Poggiali propose di sistemare la statua nella zona della Darsena, su una banchina del porto, con lo sguardo volto verso il mare. Collocazione suggestiva e perfettamente legata alla storia, il Papa accanto al canale da Lui voluto, in un ambiente opposto per stile e forma, ma a volte gli opposti si incontrano, il Barocco della statua del Corsini contrapposto alle costruzioni “razionalistiche” del Dopoguerra della Darsena… la benedizione di Clemente XII al futuro progetto della Darsena inserito in Ravenna 2019. La candidatura di Ravenna sia occasione anche per Clemente XII.  Oltre a tutto ciò, stiamo facendo una pessima figura con gli anconetani. Piazza del Papa è nel centro storico della città di Ancona, qui è posizionata la statua di Papa Clemente XII, in riconoscenza al pontefice della concessione alla città del porto franco nel 1732 e dell’ampliamento del porto.

immagine: statua di Clemente XII

articolo già pubblicato  sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 17/03/2014

LA GRANDE SELVA CESENATE

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Cesena e i suoi dintorni furono abitati fin dall’età neolitica, le ipotesi sulle origini del suo nome sono varie, la più probabile è che derivi dal latino caesa, tagliata, che fa riferimento alla presenza sul territorio di una grande selva abbattuta. Il primo nucleo abitativo di Cesena sorge con ogni probabilità per opera degli Umbri intorno al VI-V secolo a. C. Sopraggiungono poi i Galli di cui  rimangono tracce nella lingua e nell’economia (allevamento e ortofrutta) altro non rimane, in quanto i Celti  costruivano capanne, non ponti e murature e non usavano la scrittura. Cesena entra   nella storia con la dominazione romana, avvenuta insieme alla conquista della Valle del Savio tra il III e il II secolo a.C. Ma vediamo un po’ la storia della selva “caesa” e dell’arrivo dei Romani. Secondo alcuni  storici la Selva Litana era compresa tra il Rubicone e il Po e i lavori di disboscamento, necessari per l‘apertura della via Emilia (in epoca romana) l’avrebbero distrutta. Livio, lo storico romano, racconta di una enorme foresta, chiamata Litana dai Galli, attraverso la quale Postumio Albino, console romano, voleva farvi passare l‘esercito. Negli alberi di quella foresta i Galli praticarono tagli in modo da lasciarli dritti, ma che cadessero al minimo urto. Postumio aveva circa venticinquemila uomini, nel momento in cui l’esercito entrò nella foresta, i Galli diedero una spinta agli alberi tagliati. Questi crollarono l‘uno sull‘altro, seppellendo le legioni. I Galli che erano appostati tutti intorno alla selva, massacrarono chi riuscì ad uscire dal bosco. Postumio cadde lottando e i Galli usarono la sua testa per farne una coppa per libare agli dei. Era usanza per i Celti decapitare il nemico valoroso, ripulirne la testa, svuotarla, ornarla di oro e usarla come contenitore sacro, forse per le pozioni  taumaturgiche dei Druidi. La Selva Litana sarebbe stata attraversata anche da Giulio Cesare. Ai tempi di Cesare però gran parte di questa selva era stata già abbattuta; malgrado ciò nella parte rimasta Cesare sembra si sia smarrito. Gambettola, distante da Cesena circa dieci  chilometri, un tempo si chiamava “Bosco” ciò  deriva probabilmente dalla Selva Litana, ovvero del  “bosco sacro” dei Galli. Naturalmente non si sa con sicurezza dove fosse la Selva Litana, uno studioso reggiano ipotizza che la battaglia nella Selva Litana sia stata combattuta vicino a Reggio Emilia stabilendo un interessante collegamento tra San Donnino ed il culto delle teste tagliate dei Galli.Donnino era un martire cristiano morto durante le persecuzioni  nel 304 d.C. circa. Era un militare al servizio dell‘imperatore, quando scoprirono che era cristiano fuggì, ma fu raggiunto e gli fu tagliata la testa con una spada. La leggenda narra che San Donnino raccolse la propria testa e la depositò nel luogo dove ebbe la sepoltura. Viene raffigurato con la palma del martirio, in abito militare, con il capo tronco fra le mani, a volte con un cane; questa devozione deve essere antica, poiché è attestata da un racconto della passio, secondo il quale il Santo guarì un idrofobo, dandogli da bere acqua e vino, dopo averla benedetta e aver invocato il Signore. Decifrando la storia di Donnino, possiamo scrivere di una decapitazione con seguente raccolta della testa che diviene reliquia taumaturgica. I Druidi erano ritenuti dei “santoni” con conoscenze sulla natura sterminate, non è impossibile che conoscessero davvero un antirabbico, non è ancora accertato scientificamente ma  pare che la rosa canina si chiami  così  perché l’infuso delle sue radici curerebbe la rabbia. Il culto di Donnino è legato al territorio di Fidenza (Parma),di cui è patrono… ma c’è un Donnino anche in Romagna. L‘antica Fiera di San Donnino, risale al 1849, caduta in disuso circa mezzo secolo, si svolgeva a Rocca San Casciano. La fiera era dedicata in particolare al mercato di bestiame e di prodotti agricoli. Da qualche anno il paese fa di nuovo festa intorno all’antica abbazia di San Donnino in Soglio, cercando di valorizzare i prodotti  di tutto l’Appennino forlivese, come avveniva  un tempo, quando affluivano merci, bestiame e persone da tutta la Romagna Toscana.  

immagine: San Donnino

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 24/02/2014

QUANTI COLLEGAMENTI FRA SANTARCANGELO E IL SANGIOVESE

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Da Santarcangelo di Romagna, l’origine del nome è riferita a San Michele Arcangelo, sembra derivi    il nome per il nostro vino più famoso: il Sangiovese. Santarcangelo ha più di 150 grotte scavate nel sottosuolo, un vero labirinto di fatto e di mente. Gli studiosi non sono ancora riusciti ad identificarne l‘origine e la funzione. Ipotesi parlano di culto mitraico, altre di catacombe, altre ancora parlano dei monaci basiliani. Questi monaci che erano prevalentemente di rito greco giunsero sulle nostre coste per salvarsi dalla furia iconoclasta (distruzione delle immagini sacre) che imperversava in Oriente nel secolo VIII. Si stabilirono soprattutto nel Salento, dimoravano sempre in grotte che venivano chiamate “laure”. Famosa ancora oggi è la grotta di San Michele sul Gargano. Si potrebbe quindi ipotizzare un collegamento fra le grotte di  Santarcangelo e quelle del Gargano, di una matrice unica, quella basiliana. Sul colle Giove sorge il paese  in cui si diramano ipogei artificiali ricavati nell’arenaria, distribuiti su tre livelli collegati tra loro da pozzi, aperture e scale, ai quali si accede dalle case private e non dall’esterno, così che l’accesso risulta impedito agli estranei ed ai passanti. Successivamente è possibile che le grotte siano divenute cantine per il vino. Il Sangiovese è il vino re della Romagna, ha un bel colore rosso rubino con riflessi violacei; olfatto suadente e vinoso, con sentori più o meno accentuati di viole. Tannini abbastanza morbidi, retrogusto piacevolmente amarognolo. La versione “superiore” ha una gradazione maggiore, quella  “riserva” e’ invecchiata più di due anni. Il Sangiovese si accosta bene a salumi, primi piatti con il ragù, paste ripiene e pasticciate, arrosti e bolliti di carni, ma anche con la piadina ed i ciccioli. Una leggenda narra che i padri Cappuccini di Santarcangelo, siamo alla fine del 1500, abili coltivatori di vite e produttori di un prelibato vino rosso, ospitarono un giorno un illustre personaggio. In occasione del banchetto gli offrirono una coppa del loro vino migliore, l‘ospite estasiato dalla bontà del vino, ne chiese subito il nome. I Cappuccini si guardarono con imbarazzo perché nessuno di loro aveva mai dato un nome al vino, ma uno dei frati prontamente disse: si chiama Sangue di Giove, ispirandosi al colle su cui sorgeva Santarcangelo… e così nacque il Sangiovese.

immagine: grotte di Santarcangelo

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 10/03/2014

La nostra città ideale

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Il 13 ottobre (cioè oggi) la commissione esaminatrice sarà in visita a Ravenna e il 17 ottobre ci sarà la scelta fra le città candidate (Siena, Cagliari, Matera, Lecce, Perugia, Ravenna). Quale sarà la Capitale europea della cultura 2019? Io sono piena di speranza e credo che Ravenna possa vincere. Nel Dossier della candidatura tanti eventi e tanti progetti, qualcuno un po’ scontato, qualcuno grandioso, ma ciò non ha importanza: si è pensato, attivato, creato, ci si è messi in gioco cercando di rendere Ravenna una città ideale. E come deve essere una città ideale? Nel ciclo del “Buono e del Cattivo Governo” di Ambrogio Lorenzetti che si trova   nel Palazzo Pubblico di Siena è raffigurato il Cattivo Governo nella personificazione di un Diavolo attorniato dalle figure: Crudeltà, Discordia, Guerra, Perfidia, Frode, Ira, Tirannide, Avarizia e Vanagloria che portano ad una comunità abbandonata a se stessa. All’opposto nel Buon Governo vi è la figura di un saggio monarca che siede sul trono, circondato dalle figure della Giustizia, della Temperanza, della Magnanimità, della Prudenza, della Fortezza e della Pace. Ravenna è un poco lontana dal Buon Governo e i cittadini di conseguenza pure loro. La delinquenza, i furti, gli atti di vandalismo e di bullismo in aumento perché? Prima di tutto per avere un  Buon Governo occorre denaro perché tutto costa dai mezzi pubblici, agli ospedali, ai parchi, alle scuole, agli asilo nido, musei, teatri, palestre, rampe per disabili, scuole d’italiano per immigrati ecc., senza dimenticare che se molto deve essere fatto per i giovani perché sono il futuro, di più occorre fare per gli anziani, che sono i nostri progenitori, in fondo gli anziani sono dei bambini brutti e perciò molto spesso scansati. Da dove prende i soldi il Buon Governo per fare ciò? Dalle tasse e quindi ora apprendiamo bene il perché del  primo articolo della nostra Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. (Se Ravenna vince con l’indotto ci sarà anche la città del lavoro). Poi ci sono i neuroni a specchio, quelli che imitano i comportamenti degli altri, così succede che non si dà una monetina al mendicante anzi lo si insulta, ci si arrabbia poi in auto con gestacci, a me hanno detto “puttana” in Piazza del Popolo, due neri, li ho infamati, ero nella Piazza, sotto la Sala del Comune, con accanto la sede della Prefettura, alle 18.00 di una sera di settembre, ci sono rimasta così male, però magari quei due erano senza lavoro e si sentivano inferiori e “sbagliati”. I neuroni a specchio che, secondo gli scienziati, fanno in modo che noi copiamo gli atteggiamenti degli altri istintivamente senza ragionare, sono gli stessi che permettono al bambino di imparare i movimenti, il linguaggio ecc., se in presenza di bambini ci limitiamo coi  comportamenti scorretti perché non ci imitino, perché poi non usiamo lo stesso metro con gli adulti? Se le parole non bastano per i bambini, ma occorre anche l’esempio, non credete che quest’ultimo serva allo stesso modo agli adulti? Usando comportamenti educati e corretti lo si diventa pure interiormente non solo esteriormente. La forza dei neuroni a specchio è neutrale, essi copiano quello che vedono, percepiscono quindi non solo il male ma anche il bene. Ravenna per realizzare la sua candidatura ha coinvolto il maggior numero di persone, associazioni, scuole, tutti ma proprio tutti, se volevano farlo, hanno avuto la possibilità di proporre le loro idee. Ravenna per la prima volta ha unito la Romagna, trascinando le altre città, le quali hanno generosamente risposto. Idealmente sono per una regione Romagna divisa dall’Emilia, ricordo che i romagnoli dovevano avere la loro regione già nel 1860 con l’Unità d’Italia, non l’ebbero in quanto l’Italia fu una Monarchia, i romagnoli che erano accesi repubblicani furono tenuti a distanza per timore di un capovolgimento di governo. Ironia della sorte, nel Secondo Dopoguerra l’Italia con suffragio universale divenne una repubblica, ma la Romagna repubblicana pagò lo scotto di aver dato i natali al Duce, a Roma si saranno detti… teniamo quei rivoluzionari assieme ai più civili emiliani. Buona fortuna Ravenna!

immagine: Piazza del Popolo Ravenna

 

 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 13/10/2014

 

 

NON VELINE MA VENERE

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In Italia la prima festa della donna si celebrò il 12 Marzo 1922 (la domenica successiva all’8) sotto la spinta del Partito Comunista. Il dono della mimosa  è diffuso solo nel nostro Paese e venne distribuito per la prima volta nel 1946. A quei tempi in Romagna nell’immaginario popolare era la festa delle “donne comuniste”.  Col tempo la mimosa è stata sdoganata e la festa non è più caratterizzata da impegno politico ma da feste a volte un po’ avvilenti o malinconiche. La mimosa è un fiore bellissimo che rappresenta al meglio l’intelligenza, la forza e la bellezza delle donne. Il fiore sboccia pochi giorni prima della primavera, di colore giallo e perciò legato al sole e alla vita, fa parte della famiglia delle acacie il cui nome significa “intreccio di canne flessibili”.  Scrivere sulle donne è assai difficile, ma devo tentarci perché ho ricevuto una sfida da un uomo. Questi mi ha detto provocandomi: “Chiediti come sarebbe una Repubblica governata da sole donne, non te la senti vero? Sai che le brutte impiccherebbero tutte le belle”. Se credeva di scandalizzarmi si è sbagliato, conosco la malignità e l’invidia delle donne, ma so pure della superbia e dell’insensibilità dell’uomo. Nella “Venere degli stracci” (1967) di Michelangelo Pistoletto, leader dell’Arte Povera e fautore del “Terzo  paradiso”, vi è la risposta su cosa sia oggi la donna. Il terzo paradiso è la fusione tra il primo (regolato dalla natura) ed il secondo paradiso  (sviluppato dall’uomo con ogni artificio, divenuto innaturale e globalizzante). Il terzo paradiso consiste nel condurre l’artificio, cioè la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura e la politica a restituire vita alla Terra in un passaggio ad un nuovo livello di civiltà planetaria, indispensabile per assicurare al genere umano la propria sopravvivenza. Ma torniamo alle donne, l’opera di Pistoletto è una riproduzione della Venere Callipigia (significa dalle belle natiche o lato B come si dice oggi) attorniata da cenci colorati. La Venere Callipigia  è esposta al Museo Archeologico di Napoli, è una replica di un bronzo ellenistico, è considerata un’icona della bellezza ideale, è una copia quindi è un falso, da cui Pistoletto realizza un’ulteriore contraffazione, molta più vitalità e genuinità vi è negli stracci colorati che la ricoprono. Un materiale povero come gli stracci acquista dignità, supera la Venere saltando il concetto di cultura alta e di cultura bassa. La Venere dalle belle natiche è falsa, e la Venere vera dove si trova? Il decantato Bello ideale è falso non ci appartiene più, la vita vera è negli stracci. E’ la vita vera, delle donne meravigliose, che lavorano, amano i figli e la loro casa, le donne generose. Un po’ pazze e isteriche ma a cui basta un fiore in dono. Oggi indossiamo l’abito consumistico, ma questo non è totalmente da demonizzare, diciamo che è da sistemare. Un po’ di colpa è nostra se a forza di sentirci dire le stesse cose poi le adottiamo anche se non ci piacciono realmente.  Siamo schiave della  transitorietà della moda e della bellezza immutabile. Ma la bellezza non è immutabile cambia coi tempi e la vita è un transito è per questo che abbocchiamo alla pubblicità perché mischia il vero col falso. Queste Veneri degli stracci invece di amarle le avete costrette a ferree diete dimagranti, a siliconarsi, a cambiare la loro dolcezza in aggressività.  Certo le Veneri povere vogliono mutuare le veline della tv,  vogliono rifarsi anche loro il seno e le labbra e poi vogliono un uomo ricco o più giovane, l’ideale di uomo è un calciatore. Ma chi ci ha messo in testa questo? Se la donna è autolesionista, l’uomo dov’era? Donne dono divino, in grado di fare miracoli, almeno ancora per un po’, fra poco ci toglieranno la possibilità di procreare rendendo la maternità artificiale. Smettiamola di farci condizionare dagli stereotipi, la bellezza è relativa, ciò che ci piace veramente lo sa il nostro corpo, non i mass media, noi cerchiamo chi ama la vita, chi sa coglierla per quella che è…un mistero. Non c’è nulla di più attraente del mistero e noi donne lo siamo.     

immagine: Venere degli stracci Michelangelo Pistoletto

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 10/03/2014 

Il Giardino delle erbe dimenticate

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Il Giardino Rasponi o delle Erbe Dimenticate si trova a Ravenna. Qui è assai piacevole passeggiare o sedersi sulle comode panchine ascoltando piacevolmente un sottofondo di musica New Age. Il binomio musica più giardino è molto accattivante. Il giardino è nascosto da mura, ed è proprio nel centro città. Al giardino è possibile accedere attraverso il portale progettato da Camillo Morigia. Le mura di cinta proteggono il giardino rendendolo ovattato. La caratteristica del Giardino delle Erbe Dimenticate è quella di custodire preziose erbe aromatiche all’interno di aiuole in perfetto stile ottocentesco. Tutte le aiuole sono poste attorno alla bellissima fontana in ferro battuto del XIX secolo. Nella fontana ci sono pesci rossi che guizzano ruotando ed accompagnano i nostri pensieri. Tra le varie erbe coltivate all’interno del Giardino Rasponi bisogna ricordare l’Issopo, il Pungitopo, e piante di Farfara, Farfaraccio, Bardana, Luppolo, Levistico, Erba di San Pietro e tante altre. Questo giardino  apparteneva alla famiglia Rasponi Murat  il cui splendido palazzo è proprio di fronte. Giulio Rasponi faceva parte di una famiglia romagnola, da secoli al centro delle vicende politico sociali di Ravenna, nel 1825 sposò la principessa Luisa Giulia Murat, figlia di Carolina sorella di Napoleone, pertanto nipote  del Bonaparte. Vicino ai Carbonari, il suo salotto divenne luogo di ritrovo e di dibattito dei patrioti liberali. Nel 1839  assieme ad altri esponenti dell’ aristocrazia progressista locale fondò la Cassa di Risparmio di Ravenna. Fu  nonno di Gabriella Rasponi Spalletti ( 1853/1931) presidentessa  del Consiglio Nazionale delle Donne Italiane e pioniera dell’associazionismo. Nella piazzetta che si trova tra il palazzo ed il giardino è stata collocata, non molto tempo fa un’opera d’arte. Il soggetto scelto per simboleggiare l’immagine femminile è un fiore selvatico che nasce sulle dune, forte e flessibile ma sensibile al degrado ambientale. La scultura è realizzata su bronzo con mosaico e madreperla, simbolo di femminilità, e ha alla base un triangolo come simbolo maschile, che regge gli steli. Sopra ci sono cinque petali e  cinque nomi: Kadra, Barbara, Iolanda, Rosalia, Dalia vittime della violenza maschile. Non dimentichiamo che sebbene possa essere violenta anche la donna, l’uomo la deve sempre proteggere.

immagine: Giardino Rasponi

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 0003/03/2014

RIFLESSIONE SULLA RAGAZZA CON L’ORECCHINO DI PERLA

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Quand che al nuval al va a bulogna e piòv c’un s’vargogna. (Quando le nuvole vanno verso Bologna, piove senza vergogna) Prendo spunto da questo proverbio romagnolo per soffermarmi sull’ossessione che in questi giorni ha invaso Palazzo Fava, a Bologna, che ospita, secondo gli ideatori della mostra, il capolavoro dei capolavori: “La Ragazza con l’orecchino di perla”, (il titolo del quadro in realtà sarebbe ‘Ragazza col turbante’) ignorando le altre seppur importanti tele tra cui opere di Hals e di Rembrandt. Di Jan Vermeer, l’autore, si sa veramente poco, affiancava l’attività di pittore a quella di locandiere ed aveva una tecnica particolare che“illuminava” il dipinto. Usava i pigmenti più costosi, non rinunciò ad usare i lapislazzuli, per ottenere il blu oltremare, dal costo proibitivo anche negli anni in cui versava in pessime condizioni economiche. Nel 1900 un abilissimo falsario, utilizzando le stesse tecniche pittoriche dell‘artista, creò numerosi dipinti con composizioni del tutto originali riuscendo a spacciarli come opere autentiche di Vermeer, tanto che molti famosi collezionisti ed alcuni dei più importanti musei d‘Europa acquisirono questi dipinti nelle proprie collezioni. La “Ragazza col turbante” è uno fra i suoi altri capolavori, e a seconda del gusto delle persone può piacere o non piacere.  Il deus ex machina  dello  show è Marco Goldin, autore anche di belle mostre tenutisi a Rimini, certo occorre dargli merito delle qualità delle opere, le quali si spostano dai loro musei a suon di bigliettoni che devono poi essere recuperati  dalla vendita dei biglietti. Detto questo, mi chiedo come mai nella società della comunicazione di oggi pensiamo sempre più passivamente, crediamo che la Gioconda sia il più bel quadro del mondo, per qualcuno forse, ma la Gioconda è bruttina, è diventata famosa per un furto effettuato nel 1911, da lì gli artisti fecero il resto, Duchamp ad esempio la dipinse coi baffi. Marco Goldin organizza bellissime esposizioni, in cui vuole risvegliare le emozioni, ma qua mi pare che si faccia di tutto per far sì che le persone non pensino autonomamente, attirandoli con pregiudizi e luoghi comuni, i più diffusi nella società. Andiamo a vedere la “Ragazza”, ma non dimentichiamo di vedere le altre mostre che si svolgono in Italia, soprattutto visitate i musei, per primo quello della vostra città.       

immagine: “La ragazza col turbante” di  Jan Vermeer

 articolo già pubblicato  sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 24/02/2014

SILENO DORME TRA LE ERME

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Anni fa entrare nelle sale del Museo Nazionale di Ravenna era come balzare indietro nel polveroso Ottocento. Da qualche anno invece il Museo si è trasformato in un luogo luminoso, con le opere ben esposte, inoltre si organizzano conferenze e laboratori. Certo non può competere coi Musei Capitolini di Roma, i quali hanno talmente tanta ricchezza da divenire ridondanti, tuttavia da Roma provengono le cinque preziose erme ripescate nel mare vicino a Ravenna nel 1936, ora restaurate e esposte nel primo chiostro del Museo ravennate, accanto ai resti della famosa Porta Aurea. Le erme dovevano approdare alla spiaggia ferrarese, dal duca Alfonso II ma il carico naufragò nel XVI secolo di fronte al lido ravennate e qui restò a lungo. Nel 1567 a Ferrara, il duca Alfonso II incaricò il suo architetto di fiducia, Pirro Ligorio, di progettare all‘interno del castello una biblioteca in cui, accanto ai volumi, voleva collocare busti di filosofi e poeti. A Roma si trovava il cardinale Ippolito II d‘Este (1509-1572), figlio della famosa Lucrezia Borgia e del duca di Ferrara Alfonso I, che aveva  l’incarico di governatore di Tivoli. Il Cardinale aveva un animo artistico, votato alla bellezza, si deve ad Ippolito la splendida Villa d’Este a Tivoli, oggi Patrimonio dell’Unesco. Egli coltivava anche la passione dell’archeologia e collezionò parecchi materiali archeologici.  Si sa che le erme erano state ritrovate sul colle Celio ed acquistate dal cardinale Ippolito da un antiquario, poi vennero spedite a Ferrara dove non arrivarono mai. Le cinque erme ravennati raffigurano Milziade (in due versioni) il cosiddetto Dioniso/Platone, Epicuro e Carneade. Oltre alle erme al Museo sono esposte straordinarie sculture ignote al pubblico, perché  sino ad ora sono state conservate nei depositi, alcune provengono dagli scavi ravennati, altre sono di provenienza sconosciuta. Troviamo  il frammento di una lastra in cui gli studiosi hanno individuato il mito di Anfione e Zeto. Questi ultimi erano gemelli, Zeto era dotato di una forza prodigiosa ed era molto rozzo, Anfione, invece, era d’indole delicata, cantava e suonava. Il mito racconta che cinsero di mura la città di Tebe, Zeto trasportando i massi, Anfione suonando la lira… un po’ come la cicala con la formica. Poi un ritratto di Zeus Serapide (si chiama così perché unisce simbologie greche unitamente ad altre egizie) di bella fattura dai forti chiaroscuri nei ricci ritorti della barba e della capigliatura, quindi un pregevole frammento di statua panneggiato identificato con la musa Polimnia (musa della danza e del canto sacro) vi sono anche capitelli dall’iconografia inusuale in quanto presentano festoni e putti, inoltre troviamo altre opere che arricchiscono la raccolta lapidaria del chiostro. Il pezzo forte (anomalo per la ‘morigerata’ Ravenna ) della collezione è un inquietante Sileno dormiente di provenienza oscura, in marmo bianco, è di piccole dimensioni, è sdraiato in posa sconcia, ubriaco, dalla pancia debordante e molliccia, trasuda vizio e depravazione, ma lungi dal sembrare pentito, sornione se la dorme. Ha la tunica drappeggiata ad arte per lasciare scoperti  i genitali ed evidenziarli ancora di più. Appoggia la mano destra a terra con l’indice e il medio aperti a V e il pollice distanziato nel gesto propiziatorio e scaramantico del tre in uso fra gli antichi romani. Sileno solitamente è rappresentato con la testa calva (da qui forse la credenza che i calvi siano più “maschi”) e la barba lunga, a volte con sembianze animalesche, è comunque sempre legato alla virilità e alla sessualità. A  Roma su una base rocciosa, vi è un Sileno giacente che i Romani chiamano“Babuino” perché  è così brutto che lo hanno paragonato a una scimmia, è una delle statue “parlanti” della Capitale. “Nella nascita della tragedia” di Nietzsche, Sileno risponde al re Mida, che gli aveva chiesto quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l‘uomo, con queste parole: “Non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”. Forse è per questo che Sileno ha tanto bisogno di vino e di stordimento… non crede a nulla.  Avrà torto o ragione?      

 immagine: Sileno giacente

 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 17/02/2014