Boldini dentro e fuori

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Ardengo Soffici, poeta, scrittore e pittore, forse un po’ di parte, perché a causa della rovina finanziaria del padre si ritrovò dall’agiatezza alla povertà, definiva Giovanni Boldini, che era l’artista dei  super-ricchi, “né un pittore, né un creatore, né un poeta”. Aldo Palazzeschi, il grande e ironico scrittore, confrontava Boldini con Toulouse Lautrec, lo “gnomo di Montmartre”, affermando che l’arte dello “gnomo ferrarese” era facile e decorativa, quanto drammatica e angosciosa quella di Lautrec. I due artisti avevano in comune la bassa statura, Lautrec aveva avuto un incidente appena giovinetto alle gambe che ne aveva impedito la crescita, l’aspetto non piacevole ed erano anche scorbutici. Lautrec era di famiglia ricca, la famiglia di Boldini faticava a sbarcare il lunario, entrambi hanno la perizia virtuosistica del disegno, una linea densa ed espressiva Lautrec, una linea decorativa, seducente, accattivante quella di Boldini. Quest’ultimo è adorato  dal bel mondo, dove si muove agilmente e sebbene piccolo e bruttino è attorniato dalle stesse dame che ritrae, come potete vedere alla Mostra “Boldini lo spettacolo della modernità”,a Forlì, ai Musei San Domenico sino al 14 giugno, le dame sono molto belle e charmant. Quasi spogliate, magre, affusolate, sono donne della modernità, potremmo paragonarle alle donne di spettacolo di oggi. Spettacolo è tutto ciò che attrae lo sguardo, ma ciò che sono realmente queste donne, Boldini non ce lo fa vedere. Non si sfugge allo spettacolo di Boldini, all’influenza dei suoi colori e alle sue linee veloci, scattanti, incredibili. Conosceva tutti i trucchi del mestiere un vero artista della lumeggiatura. Boldini si cimenta nella pittura fin dalla giovanissima età. Nel 1862 è a Firenze dove frequenta i macchiaioli, nel 1867 si reca per la prima volta a Parigi e vi si trasferisce definitivamente nel 1871, dopo un soggiorno a Londra. Riscuote notevole successo nella società parigina per i suoi ritratti. Nel 1919 viene insignito della Legion d’onore, massima onorificenza francese. A 87 anni, due prima di morire, sposa una giornalista trentenne . Ad aprire la mostra: “Scena di festa al Moulin Rouge” dove in un tripudio di rosso vivo Boldini si ritrae al centro della scena. Di fianco è esposto : “Ritratti dalla borsa”di Degas, uomini in nero, colore simbolo della borghesia. Negli autoritratti Boldini si ritrae con lo sguardo intenso e l’aspetto piacevole ben diversamente appare quando è ritratto da Degas: sguardo vacuo e portamento tronfio. Al piano superiore  troviamo due diverse immagini di Giuseppe Verdi, entrambe dalla tecnica eccellente. Il ritratto di Verdi a pastello è talmente famoso, che ormai si identifica col grande musicista più del Rigoletto. E poi arrivano le donne, una carrellata di bellezza, di vivacità, di spettacolo,donne scollacciate, dai vestiti alla moda, come ad esempio: “La contessa Speranza” dall’abito nero con la scollatura abissale, colta mentre si infila al volo una corta pelliccia. Ciò che più colpisce nei ritratti delle donne a figura intera sono i vestiti, resi mirabilmente più che nelle foto di moda odierne, svolazzanti, gonfi, ondeggianti par di sentirne il fruscio… ma come sono eleganti! Un po’ irriverente, mi pare, la posizione del dipinto:“Il cardinale Guido Bentivoglio” di van Dyck, rara sinfonia di rossi, fra i ritratti di due seducenti  e discinte donne in rosso scuro di Boldini. I ritratti di queste meravigliose donne sono lo specchio di una società decadente dove il pudore più non esiste. Il mito narra che quando il pudore non riesce più a frenare gli eccessi, non rimane altro che la nemesi: la vendetta che ripara i torti mediante la punizione dei colpevoli. Da lì a poco scoppierà la Grande Guerra. Dopo la guerra la nuova donna è rappresentata in Mostra da un dipinto di Modigliani del 1918: una figura iconica, antica e triste. La star della Mostra non è una donna ritratta da Boldini, ma da Francisco Goya: “Tadea Arias de Enriquez”  del 1789, la fanciulla acconciata e vestita elegantemente alla moda del tempo, si sta togliendo un guanto, ha lo sguardo fermo, volitiva e affascinante ma senza sguaiataggine, né eccessi.

 

immagine: “La contessa  Speranza” di Giovanni Boldini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 23/03/2015

Quando l’arte è anche un monito della natura

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A Forlì, uscendo dalla Mostra su Boldini, a pochi passi troviamo l’oratorio di San Sebastiano. La chiesa fu realizzata in stile rinascimentale; ha una pianta a croce greca, con un atrio coperto da una cupola. La prospettiva che la chiesa presenta fa pensare a un intervento di Melozzo da Forlì, fu edificata su modello di Pace Bombace, architetto che appartenne appunto al gruppo di Melozzo. Un tempo sede della confraternita dei Battuti Bianchi, l’edificio è oggi utilizzato per mostre temporanee. Sino al 29 marzo si svolgerà l’esposizione: “Mirroring – rispecchiarsi nella Dea”, il titolo fa pensare che le autrici vogliano rispecchiarsi nella Dea Madre cioè la Natura che etimologicamente significa: la forza che genera. La Dea, perché all’inizio fu il matriarcato, per migliaia d’anni, poi fu il patriarcato e le donne vennero sottomesse. Oggi, i soprusi  continuano come sempre verso i più deboli, bambini, donne e anziani. Uomini e donne sono su un falso piano egualitario, ci sono le leggi, ma è cresciuta l’incomprensione fra i due sessi. Rosetta Berardi ed Alessandra Bonoli sono le protagoniste della mostra. Rosetta ci ricorda la Pineta di Lido di Dante distrutta da un incendio doloso, i suoi alberi sono neri e ramificati come se le radici si fossero capovolte, al posto della chioma dei bitorzoli, sono testimoni muti, ma paiono dire:“Guarda che hai fatto uomo”. In questo contesto i pini si rinnovano, l’oratorio è intitolato a San Sebastiano, questo Santo è sempre raffigurato trafitto da frecce, gli alberi sembrano così strali scagliati su di noi, anche sull’autore dell’incendio, perché il piromane ha fatto del male pure a se stesso, perché gli alberi sono la vita. Alessandra ci fa vedere un mondo di geometrie fortemente simboliche che si ispirano alla natura e alle sue forme. Sono prototipi di grandi strutture originate dalla ricerca sulla struttura aurea, sui numeri di Fibonacci, sulla geometria, è quindi scienza e tecnica; vengono poste in spazi determinati, a contatto col terreno, in modo che ascoltino e interagiscano col luogo. Sono sculture che emettono il sibilo dolce o arrabbiato della Terra oppure sono culle che tentano di farci riposare o ricordare quello che la Dea ci dice e che noi non siamo più capaci di ascoltare. L’autrice auspica l’armonia fra tecnica e natura. La tecnica deve andare al passo con la natura perché essa stessa è natura.

immagine: foto del  catalogo della mostra, un pino di Rosetta Berardi adornato da una scultura di Alessandra Bonoli

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 23/03/2015

Dolce nome di Romagna

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La Romagna è una regione storica dell’Italia fin dall’VIII secolo. Dal 1861 con la costituzione del Regno d’Italia cessò di esserlo. Nonostante i continui attacchi l’Esarcato bizantino resistette ai Longobardi.   L’Esarca, che aveva sede a Ravenna, difese strenuamente il territorio dell’Esarcato che rimase l’unica regione della Pianura Padana con leggi, usi e costumi di derivazione romana. Mentre infatti nel resto della pianura i Longobardi dopo il loro arrivo introdussero nuove unità di misura (che sono alla base delle attuali misure agrarie tradizionali), in Romagna si mantennero in uso più a lungo le misure romane. Il territorio sottomesso ai Longobardi venne definito Langobàrdia (poi Lombardia), l’Esarcato divenne la “Romandíola”   (che significa ‘residua terra dei romani’). Secondo lo storico dell’arte francese Henri Focillon (1881/1943)  l’Arte Romanica deriva dall’Arte Bizantina di corte unitamente ad altri ambienti rurali e barbari. Già verso la metà del primo millennio nelle pievi delle campagne tra Ravenna e Forlì il Romanico aveva raggiunto i suoi caratteri definitivi che dureranno per secoli. “Romània” da cui Romagna (nei testi in volgare la forma più usata fu Romagna, e tale rimarrà) giustificherebbe l’appellativo di Arte Romanica. Il Romanico è quella fase dell’Arte Medievale europea sorta nell’alto Medio Evo e sviluppatasi a partire dal X secolo fino al sorgere dell’Arte Gotica. L’Esarcato cadde nel 751, i Longobardi conquistarono la Pentapoli: Forlì, Forlimpopoli, Classe, Rimini, Cesena e Ravenna, (anche se esisteva una Pentapoli più estesa che comprendeva parte delle Marche). Papa Stefano II, temendo che i Longobardi scendessero a Roma chiese aiuto a Pipino il Breve di Francia. Quest’ultimo arrivò col suo esercito sconfisse i Longobardi ed assegnò il territorio al Papa. Nel 774 il figlio di Pipino, il famoso Carlo Magno sottomise definitivamente i Longobardi, e confermò l’appartenenza  dell’ex Esarcato alla Santa Sede. Quando nel 774 Carlo Magno riportò la vittoria definitiva sul regno dei Longobardi la storia aveva già fatto il suo corso: i territori un tempo appartenuti ai Longobardi si chiamarono definitivamente “Longobardia” e i territori dell’Esarcato si chiamarono definitivamente “Romandiola”. L’Imperatore aveva liberato i Bizantini dai Longobardi, attribuito il nome alla Romagna, ma poi la sottomise a Roma. A questo punto la Chiesa ravennate preoccupata della sua indipendenza, invita Carlo Magno in città. Gli arcivescovi locali rivendicano gli antichi privilegi concessi dall’imperatore bizantino, che aveva riconosciuto alla Chiesa ravennate l’indipendenza da Roma. Nel 784 l’arcivescovo Grazioso accolse Carlo Magno con i dovuti onori a Ravenna. A Carlo Magno furono donati i mosaici ed i marmi dell’ex  Palazzo degli Esarchi, ormai abbandonato, che sorgeva sull’ex Palazzo di Teodorico, sembra si portasse via anche il Regisole. Forse fu un dono del vescovo Grazioso, ma era ugualmente un esproprio in quanto i territori dell’Esarcato avevano perduto l’indipendenza ed erano costretti ad elargire regalie per ottenere la protezione dell’Imperatore. Il Regisole era un monumento la cui l’origine non fu mai  risolta, alcuni ipotizzano che si trattasse della statua equestre di Teodorico, portata ad Aquisgrana da Carlo Magno altri che si trovasse a Pavia. E veniamo a Carlo Magno, nel 2014 si sono festeggiati i 1200 anni dalla sua morte, è stato ricordato in vari luoghi, ad Aquisgrana, ad esempio, con una bella Mostra con opere prestate anche dal Museo Nazionale di Ravenna. L’imperatore fu incoronato a Roma la notte di Natale dell’800 da papa Leone III, nel 1165 è stato canonizzato, nonostante la vita privata assai disdicevole, da parte dell’antipapa Pasquale III (bisognerebbe chiedersi se il titolo di Santo vale anche se elargito da un antipapa). Nell’803 Carlo Magno rinnovò la promessa di donazione e s’impegnò a proteggere tutta l’area dell’ex Esarcato, che chiamò Romandiola. Il termine fece la sua prima apparizione assoluta in un documento ufficiale … quindi quest’anno sarebbero 1212 anni dell’esistenza formale e pubblica della Romagna .

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 16/03/2015

L’altra storia di Apollinare, il Santo di Longana

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Longana è un piccolo paese, a pochi chilometri da Ravenna, sulla strada che porta a Forlì. C’è un’antica pieve dei primi dell’XI secolo, intitolata a Sant’Apollinare, qui il Santo veniva a riposare e la leggenda narra che qui morì. All’interno vi è l’ultima opera, di Baldassare Carrari detto il Giovane (1460/1416), raffigura Sant’Apollinare con i Santi Rocco e Sebastiano. Le linee aspre, proprie del Carrari, svaniscono verso influssi di scuola veneta. San Sebastiano è struggente nella sua intensa sofferenza mitigata da un’inusuale leggiadria. Molti anni fa mentre seguivo un corso di volontariato sui beni culturali, chiesi a un insigne studioso se era possibile che Sant’Apollinare fosse morto a Longana, il prelato negò qualsiasi ipotesi, concludendo con:“Cosa doveva andare a fare Apollinare a Longana? Niente”. Occorre dire che gli studiosi si basano su scritti, lapidi, reperti ecc., ma se non siamo certi di ciò che è accaduto oggi, senza contare le diatribe ancora vive su fatti accaduti nell’ultima guerra, in cui una parte sostiene una cosa e la parte opposta la contesta, come facciamo ad esserlo in fatti accaduti duemila anni fa? Il nome di Longana deriva dal fatto che qui vi erano paludi dette Acqua Longa e ciò da una carta del 949, ma allora perché costruire qui una chiesa? Per caso ho scoperto che l’Anguana o Longana è il nome di una ninfa acquatica appartenente alla mitologia alpina, diffusa anche in Emilia-Romagna, è una fata che vive solo in acque dolci. Appurato che Longana  forse deriva dalla presenza di una fata… chi era costei? Fra il popolo dei celti c’erano i druidi, grandi sapienti, guaritori e conoscitori della natura, il loro addestramento durava più di vent’anni, e le  druidesse, al loro pari, anche se donne. le druidesse venivano chiamate anche fate. Il motivo per cui Sant’Apollinare veniva a Longana poteva essere quello di incontrare un’intelligenza e conoscenza pari alla sua, perche Apollinare era quasi certamente un druido. Apollinare veniva dalla Siria, dove esisteva una scuola pitagorica, sembra che i druidi fossero filosofi pitagorici, oltre che giudici, teologi, medici e profeti. Si nutrivano solo di vegetali, formaggio e pane e si vestivano di bianco. Professavano il bene, il culto della religione e il fuggire le azioni malvagie. Probabilmente i primi evangelizzatori del cristianesimo furono druidi convertiti.

immagine: Sant’Apollinare in Longana

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 16/03/2015

L’arte vera tragli scarti

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Cesena è anche nota come città dei Tre Papi, sebbene solo due siano di origine cesenate, il terzo fu  vescovo di Cesena ma era originario di Gravina in Puglia. Due secoli fa, nel 1814, papa Pio VII di origine cesenate, soggiornava nella sua città natia. Pio VII dopo la sua elezione subì gli abusi di Napoleone che, incoronato imperatore, aveva incorporato all’Impero gli Stati Pontifici. Pio VII rispose con la scomunica, fu così fatto prigioniero e condotto a  Fontainbleau. In seguito alla disastrosa campagna di Russia di Napoleone e al suo esilio all’Elba , Pio VII rientrava a Roma fermandosi a Cesena. Dopo i “cento giorni” di Napoleone e la sua definitiva prigionia, Pio VII poté dedicarsi al governo della Chiesa. A lui si deve il ripristino della Compagnia di Gesù e un nuovo impulso all’attività missionaria. L’accoglienza di Cesena a Pio VII fu grandiosa, un grande arco trionfale venne innalzato, mentre la carrozza del Papa, staccati i cavalli   venne trainata da 200 persone. Il Pontefice riceve i marescialli delle potenze straniere e colloquia con Gioacchino Murat. Il Primo maggio apre il mese mariano alla Madonna del Monte, mentre due giorni dopo riceve Maria Letizia Ramolino Bonaparte, madre di Napoleone, e il cardinale Joseph Fesch, zio dell’imperatore. Vediamo un po’ chi era il cardinale Joseph Fesch. Era nato ad Ajaccio nel 1763 e nel 1785 divenne sacerdote. Pochi anni più tardi, preso dal fuoco della Rivoluzione Francese, si liberò dell’abito talare e si dedicò ad affari redditizi ma oscuri, probabilmente trafficava per impossessarsi di qualcosa a cui non sapeva resistere. Poi vi dirò cosa lo prendeva alla gola. Bonaparte che era anche un genio politico ordinò allo zio di rientrare nella Chiesa rendendosi utile, Fesch, non si sa se volentieri o meno, riprese la tonaca e il nipote gli spianò una carriera sfolgorante. Divenne quasi subito cardinale, mentre le onorificenze più prestigiose gli piovevano addosso. Poi tutto cambiò, Pio VII fu imprigionato, Fesch dichiarò la sua totale  docilità al Papa di Roma. L’ira dell’Imperatore fu grande e si trasformò in una persecuzione implacabile. Vessazioni che Fesch, sopportò  serenamente a Roma nel suo palazzo stracolmo di opere d’arte, forse l’unico amore del cardinale. Fesch  giunto in Italia nel 1796  apprezzò talmente tanto l’arte italiana, da iniziare una collezione di opere di artisti come: Bernardo Daddi, Lorenzo di Credi, Giovanni Bellini, Sandro Botticelli, Perugino, Tiziano, Veronese e altri ancora. Il Museo Fesch è situato ad Ajaccio e custodisce una enorme collezione di opere d’arte, comprendente dipinti, sculture, mobili, oreficerie e oggetti per uso liturgico. La raccolta di dipinti italiani è la seconda in Francia, dopo quella ospitata al Museo del Louvre. Pare che il cardinale Fesch avesse una collezione di 17000 dipinti di cui alla sua morte ne restarono poco più di 1000, quelli che andranno al museo di Ajaccio. Al cardinale capitò un evento che dire fortunato è dire poco: il San Girolamo di Leonardo da Vinci appartenuto ad Angelica Kaufmann (1741/1807) una pittrice svizzera, era andato perduto, lo ritrovò proprio il cardinale Joseph Fesch. Il prelato era drogato d’arte, girava come un disperato fra rigattieri, mercanti ed antiquari col terrore che qualcuno si aggiudicasse un capolavoro al posto suo. Naturalmente lo stare in Italia era una pacchia per lui, forse qualche opera se la sarà pure  trafugata. La sua passione fu coronata dal sogno che magari abbiamo fatto tutti, quello di comprare una crosta a poco prezzo e scoprire poi che è un capolavoro. In uno dei suoi giri il cardinale scoprì da un rigattiere una tavola tagliata con un leone, la comprò. A casa non si capacitava di cosa avesse fra le mani. Tornato dal rigattiere vide che questi aveva usato una tavola dipinta per fare un sedile, sconcertato comprò a poco prezzo la sedia. Ritornato a casa si rese conto che le due tavole combaciavano e vi riconobbe il San Girolamo appartenuto alla Kaufmann, che lui conosceva bene in quanto era spesso nel salotto della donna. Il dipinto del San Girolamo venne acquistato nel 1845 da Pio IX dagli eredi del cardinale e destinato da allora ai Musei Vaticani.

 

immagine: San Girolamo di Leonardo

articolo giàpubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 09/03/2015

 

Ravenna, città che chiude le ere

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Ravenna è città di morte, non per niente Dante è morto qui, inoltre la città è piena di sarcofagi e spesso è velata dalla nebbia come da un sudario, il quale può essere un lenzuolo funebre, ma presso gli antichi romani si usava per asciugare il sudore. La cultura è nata per cercare di spiegare la morte, per dare un senso al nostro vivere, e si raggiunge con fatica. Ravenna come città di morte, ma se la vita è la porta della morte, di conseguenza la morte è la porta della vita. L’Impero romano morì a Ravenna nel 476. Poco tempo prima Stilicone (359/408) il generale che riusciva a difendere l’impero fu ucciso a Ravenna. Stilicone si rifugiò in una chiesa, gli fu promessa salva la vita, invece fu decapitato, avrebbe potuto ribellarsi, forte del suo esercito di unni, non lo fece per non scatenare una guerra civile. Un valente generale che ebbe dall’imperatore Onorio, come segno di gratitudine la morte. Onorio in odore di incesto, sembra che baciasse sulla bocca, anche in pubblico, la sorella Galla Placidia, di lui si hanno notizie poco lusinghiere. Un aneddoto racconta che egli amasse passare le giornate dando da mangiare alle sue galline che giravano liberamente per il palazzo. Un giorno un inviato gli portò la notizia che Roma era caduta, Onorio rispose:“Ma come, se ha mangiato solo poco fa!”. Alludeva alla sua gallina preferita, da lui chiamata Roma. Ma continuiamo nelle morti ravennati, Odoacre il primo re d’Italia fu ucciso da Teoderico, questi pure morì a Ravenna. Teoderico fu un grande re, un “tedesco” allevato dai bizantini, la sua memoria era così forte, la sua figura così tenace che subì la damnatio memoriae, di lui non esistono più raffigurazioni, cancellati i mosaici che lo ritraevano nella sua chiesa ariana, la sua salma gettata via, rimane il suo Mausoleo e forse il suo sarcofago di porfido. A Ravenna morì papa Giovanni I, imprigionato con l’inganno da Teoderico e morì Rosmunda la regina dei longobardi. Come dimenticare poi il vescovo Rinaldo da Concorezzo? Contemporaneo di Dante, dotto prelato che sfidò il Papa e assolse i templari, con motivazioni che saranno riprese molto più tardi da Cesare Beccaria. Gaston de Foix, l’Alessandro Magno del 1500 ebbe una morte poco eroica sempre a Ravenna. Infine Anita Garibaldi spirò nella landa desolata fra la terra e il mare di Ravenna. Per ultimo, come si conviene ad una star, voglio parlarvi dello strano destino di Flavio Ezio (Durosturum 390 circa / Ravenna 454). Ezio veniva dalla Dacia, e aveva sposato una donna romana. Aveva passato parecchi anni come ostaggio degli unni, e Attila era per lui come un fratello, dato che erano cresciuti insieme. Prima di essere ostaggio degli unni lo era stato dei   visigoti di Alarico, sequestrato nel sacco di Roma (410) assieme a Galla Placidia. Ezio accumulò un potere che nemmeno Stilicone aveva mai avuto, e un giorno, lo sapeva, avrebbe raggiunto il trono; non era certo l’imperatore Valentiniano III a fargli paura, il cui unico pregio era l’essere figlio di Galla  Placidia. Ezio controllava la Gallia del nord coi suoi guerrieri; si sentiva unno lui stesso, parlava la loro lingua alla perfezione e da loro aveva imparato a cavalcare, a tirare d’arco e le tecniche militari tipiche dei cavalieri della steppa. Fu sempre fautore dell’alleanza romana coi barbari. Sembra che in ogni battaglia vedesse un duello, una sfida cavalleresca, addirittura un giudizio divino, era un antesignano della figura del cavaliere. Nei libri di storia è ricordato per la battaglia dei Campi Catalaunici (451) vicino a Troyes dove sconfisse Attila. In un modo o nell’altro l’Impero tenne fino al 454, sino a quando Valentiniano uccise Ezio. Il baluardo dell’Impero fu ucciso da un imbelle rammollito come Valentiniano, il quale fu poi eliminato l’anno successivo dai guerrieri di Ezio. A Ravenna, l’agonia e la fine dell’Impero Romano ma anche l’inizio del Medioevo con le gesta ricordate nelle saghe dei Nibelunghi (di cui fanno parte anche Teoderico e Attila) e di Artù e i cavalieri della tavola rotonda. Chrétien de Troyes scrittore e poeta francese medievale, ideatore del ciclo bretone, può essersi ispirato alla battaglia avvenuta tanti anni prima nella sua città natia.

immagine: Mausoleo di Teoderico

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 02/03/2015

Ma perchè i cani muoiono soli?

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Il migliore amico dell’uomo è famoso per la sua fedeltà, la sua allegria e la sua intelligenza, allora perché si dice “solo come un cane”, che significa anche “morire come un cane”, in modo dispregiativo, con significato di solitudine estrema? Il modo di dire, si dice nasca dall’osservazione che un cane tenuto isolato, lontano dai propri simili (come spesso succede ai cani da guardia), è sofferente e bisognoso di compagnia in quanto è un animale sociale. Se pensiamo poi a un tempo quando venivano legati a una catena, il ragionamento non fa una grinza. Ma perché si nasconde quando sente che sta per morire? Perché si allontana da chi l’ha accudito con affetto e sollecitudine? Il motivo sarebbe da collegarsi agli istinti primordiali dell’animale, legati a quando viveva in branco e quindi si allontanava per non essere di intralcio o causare problemi all’ interno del gruppo con la sua carcassa. Sceglieva il luogo più idoneo e si preparava al trapasso. Nella mia vita sin da piccola, il mio primo cane si chiamava Ringo, ho avuto attorno a me diversi cani, il cui ricordo della loro morte mi dà ancora dolore. Li ho osservati bene e penso che si nascondano perché noi non accettiamo fisiologicamente  la loro dipartita provocando a loro un intenso dolore. Non vogliono lasciarci, non vogliono vedere le nostre lacrime altrimenti non riescono ad accettare naturalmente la loro morte. Il mio cane lo trovai nascosto in un cespuglio, in un posto introvabile anche se vicino a casa, ero euforica ma il suo sguardo accorato mi gelò: sembrava si rimproverasse di non essere stato abbastanza accorto, mentre ero stata io la testarda egoista… lo lasciai lì e me ne andai. Agli animali che vivono in appartamento, questa ultima opportunità di scelta viene preclusa anche se tentano di celarsi magari sotto un armadio.“Solo come un cane” o “morire come un cane”, non sarebbe quindi sinonimo di emarginazione, ma accettazione, che non vuol dire indifferenza, bensì ricevere senza poter rifiutare. C’è dell’altro, anni fa gli anziani raccontavano che quando una persona era in punto di morte i familiari non dovevano piangere, curarlo questo sì, ma far finta di niente, perché altrimenti il moribondo avrebbe faticato nel passaggio verso la morte ,“trattenuto” dal dolore che causava. Io non so se questo sia vero o verosimile ma al mio funerale voglio musica, canti, cibo e vino a fiumi per tutti.

 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 02/03/2015

Boccaccio e Teoderico: legami caotici medievali

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Una leggenda sulla morte di Teoderico narra che il re avuta la notizia dell’avvistamento di una cerva dalle corna d’oro, si armò e si mosse alla sua ricerca, ma di colpo il cavallo si imbizzarrì e iniziò a correre senza fermarsi, saltando lo stretto di Messina e gettandosi dentro all’Etna con il re in groppa, la leggenda è ripresa in un’ode dal Carducci. Caccia selvaggia, caccia infernale, masnada di Hellequin, è un mito nordeuropeo chiamato in modo diverso secondo i luoghi, di cui Teoderico di Verona è un protagonista. Potremmo così paragonare Teoderico a Hellequin e questi all’Alichino di Dante. Alichino è un diavolo inventato dal Poeta, inserito in una truppa di demoni all’Inferno, che creano una parentesi “simpatica”, sono diavoli burloni. Gli studiosi pensano che Dante si sia ispirato nella scelta al satanico Hellequin, presente in molte leggende. Hellequin/Alichino con vari passaggi si trasformerà nella nota maschera di Arlecchino. Teoderico, Arlecchino, la novella di Nastagio degli Onesti e tanto altro ancora! Impossibile districarsi in questo groviglio, in cui Teoderico è di “Verona”, certo il re aveva molto cara la città veneta, ma è Ravenna la capitale del suo regno e la sede del suo mausoleo. Si può ipotizzare una damnatio memoriae da parte della Chiesa ravennate che non voleva nel suo territorio il ricordo di un re che a Ravenna imprigionò il Papa che vi morì. Boccaccio attua la caccia selvaggia nel luogo “giusto”, nella pineta di Classe. Nastagio è un giovane di Ravenna innamorato di Bianca, ma la ragazza non ne vuole sapere di lui. Il giovane soffre molto, per distrarsi va a Classe. Qui nella pineta incontra una donna nuda e bella rincorsa da due mastini e da un cavaliere che tentano di ucciderla. Nastagio cerca di difendere la donna, ma scopre che sono anime dannate. Il cavaliere in vita amava follemente la donna che ora insegue, ma lei non lo ricambiava, così si uccise con la stessa spada con cui ora cerca di strapparle il cuore. Nastagio, invita Bianca  ad un banchetto in pineta, durante il quale si ripete la caccia selvaggia e Bianca, per paura di dover scontare la stessa pena, comunica a Nastagio che il suo odio si è trasformato in amore. Nel 1483 Botticelli eseguì ben 4 pannelli con questa storia, un dono di nozze per ricordare la disponibilità che la donna deve avere verso chi la desidera… impossibile rifiutare un matrimonio/affare.

 

immagine: Caccia selvaggia di sandro Botticelli

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 23/02/2015

La caccia selvaggia

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Se ci soffermiamo sui Celti il nostro pensiero corre subito al nord Italia e al nord Europa, un pregiudizio errato, in quanto ad Oriente vi era un loro regno: la Galazia e nel sud Italia vi è una tradizione letteraria che va dagli inizi del IV sino ai primi decenni del III sec. a.C., che ha tramandato il ricordo di una massiccia e continuativa presenza celtica nell’Italia del centro/sud… probabilmente furono quei Celti Senoni, che si trovavano nella Romagna e nelle Marche. Il Lazio, la Campania e, soprattutto, la Puglia sono ricche di “pietre”. In Puglia ne sono disseminate 102 (79 menhir e 23 dolmen) secondo alcuni studiosi la derivazione potrebbe essere proprio celtica. Alcuni dolmen in provincia di Taranto, a Bisceglie e a Cisternino sono da secoli dedicati ai paladini della Tavola rotonda, nell’archivolto dei leoni, nella Basilica di San Nicola, a Bari, ci sono sculture di cavalieri che richiamano la Bretagna epica, nella cattedrale di Oria è raffigurato re Artù, inoltre il padiglione Italia per Expo 2015, si ispira in parte al mosaico della cattedrale di Otranto che raffigura oltre all’albero della vita anche il leggendario re. Detto questo non parrà più impossibile che il mito propriamente nordico, gelosamente legato ai tedeschi e agli inglesi, quello della “caccia selvaggia”, si ritrovi a Ravenna, citato da due “scribacchini” come Dante e Boccaccio. La caccia selvaggia sarebbe un corteo notturno di esseri sovrannaturali che attraverserebbero il cielo o la terra disputando una furiosa battuta di caccia, fra i protagonisti troviamo Odino( Scandinavia), re Artù (Britannia),  Carlo Magno (Francia), Wotan (Germania), Teoderico  (Italia) e poi animali, anime dannate, esseri mostruosi, capitanati dal diavolo. Essere testimoni della caccia selvaggia viene considerato un nefasto presagio e i mortali che si trovano sul cammino del corteo sono in genere destinati a essere rapiti e portati nel regno dei morti. La credenza a questo mito è legata al timore verso il buio, noi non possiamo comprendere la paura dell’uomo di un tempo in quanto abbiamo la luce elettrica. La simbologia del  buio, la mancanza di luce è equiparata al peccato e alla morte ma anche alla manifestazione del sacro, il buio è meraviglia/terrore. Nel tredicesimo canto dell’Inferno nel settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro se stessi e gli scialacquatori compare una caccia selvaggia. Nell’Inferno dantesco gli scialacquatori fanno la loro comparsa nell’orrida foresta dove gli alberi, secchi, contorti e neri, altro non sono che le anime dei suicidi, gli scialacquatori corrono nudi tra la selva, inseguiti da nere cagne che li fanno a brandelli. Renato Serra (1884/1915) scrittore e studioso cesenate scrive nel 1904 in “Su la pena dei dissipatori”:A Ravenna non ci poteva esser la caccia selvaggia; a Ravenna furono i Goti, e ai Goti la leggenda mancava; chè non erano odinici. Io penso: cacciatore selvaggio fu spesso, già lo vedemmo, Teodorico; Teodorico di Verona, dicevano i poeti tedeschi, ma, in realtà, di Ravenna. Nella pineta di Ravenna, nella foresta incantata dove Dante visse, sognò, creò tanta parte, tutta forse la Commedia divina, c’era la leggenda della caccia selvaggia. Ricordiamo che la Commedia fu composta forse intiera (intiera certo, deve dire chi ha letto la Mirabile Visione del Pascoli) in Romagna, e che la Romagna la empie tutta della sua gente, dei suoi paesi, delle sue memorie; ricordiamo che Dante scrisse in Ravenna, ed ebbe sempre meravigliosamente viva negli occhi la fatale pineta, che è insieme selva oscura e divina foresta”. Questa tesi di Renato Serra è supportata da Giovanni Boccaccio, noto poeta e scrittore, ma anche autore della prima biografia su Dante, che nel Decamerone, nella novella “Nastagio degli Onesti”, ambienta la caccia selvaggia nella pineta di Ravenna. Anche Torquato Tasso accenna alla demoniaca caccia nella Gerusalemme Liberata. Il mito forse originario della Germania e della Britannia  si è diffuso in molte altre regioni europee, dalla Scandinavia e dalle Alpi, ma anche a Ravenna e forse sino al sud, dove la leggenda dice finì la caccia selvaggia di Teoderico…nell’Etna.

immagine:  Caccia selvaggia

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 23/02/2015

Le tradizioni culinarie della Quaresima romagnola

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“Chi dzona tot’ la quaresima infera a e’ sàbat sânt quând l’ariva a Pasqua l’à pers e’ fiânc”. Chi digiuna tutta la Quaresima fino al Sabato Santo quando arriva a Pasqua ha perso il fianco. La Quaresima ha inizio dal Mercoledì delle ceneri, giorno in cui era usanza cospargere la fronte dei fedeli con le ceneri benedette. All’inizio il rito era riservato solo ai penitenti poi, in seguito abolita la penitenza pubblica, il rito fu esteso a tutti i fedeli, per rammentare il destino mortale provocato dal peccato originale. Una delle formule rituali del Mercoledì delle ceneri recita:“Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”. La Quaresima è un periodo di digiuno che inizia dopo l’ultimo giorno di Carnevale, il  Martedì grasso, dura quaranta giorni (escludendo le domeniche) e termina con la Pasqua. Ricorda i quaranta giorni che Gesù passò nel deserto, ma il numero quaranta è simbolicamente presente più volte anche nel Vecchio Testamento. E’ un periodo di purificazione durante il quale si effettua il digiuno (Mercoledì delle Ceneri e Venerdì Santo) e l’astinenza dalle carni (tutti i Venerdì), permesso il pesce. La carne era molto costosa un tempo mentre il pesce era a buon mercato. Fino a quarant’anni fa in Quaresima era imperativo mangiare di magro, anche i ricchi, però loro avevano il pan cotto arricchito di latte e formaggio, mentre il pan cotto dei poveri era pane e acqua. Nella tavola si portavano il pane, polenta, zuppe o minestre di ortaggi, brodo matto, uova, pesce fresco o conservato, noci, nocciole e “cuciarul” (castagne secche). Per i più poveri l’aringa, una sola per tutti i commensali, ci si sfregava il pane a turno, si mangiava col profumo e basta. I nostri bisnonni la Quaresima la facevano tutto l’anno e molti soffrivano di pellagra. Oggi non si seguono più i precetti religiosi, si ha carne in abbondanza e si ricercano i piatti poveri di una volta. Io ricordo con l’acquolina alla bocca i cuciarul. Vi scrivo la ricetta. Mettete a bagno i cuciarul la sera prima, poi cuoceteli in acqua con qualche foglia d’alloro per circa due ore fino a quando saranno diventati teneri. Gustateli col loro brodo, oppure scolateli, nel brodo cuocete i quadrettini all’uovo, intanto rimettete sul fuoco i cuciarul per un quarto d’ora con vino e zucchero. Il castagno era chiamato “l’albero del pane” e i cuciarul fanno parte dei prodotti tradizionali della Romagna.

 

immagine: i cuciarul

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 16/02/2015