Il Pontefice del Mille

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Pornocrazia, vendita delle cariche ecclesiastiche, concubinato, alle porte dell’Anno Mille l’ambiguità nella Chiesa la fa realmente da padrona. Occorrono pontefici eccezionali, dalla tempra di ferro, per un ritorno all’ordine e alla legalità. L’uomo che passerà alla storia come Silvestro II, lo sarà, scegliendo il nome del primo papa della storia, (Silvestro I fu papa al tempo di Costantino) sarà il miglior alleato di Ottone III e non   sceglierà autonomamente la nomina dei suoi vescovi che era l’attrito peggiore fra Chiesa e Impero. Silvestro II sarà l’artefice della cristianizzazione dei popoli slavi. Egli sa cosa fare, offre legittimazione e chiede in cambio Fede, affida solennemente la corona di Re d’Ungheria, a Stefano, che è già in odore di santità. Così, dall’Ungheria arriva l’entusiasmo dei nuovi fedeli, i polacchi non saranno da meno. Ora la notte è meno scura, ed i confini più stabili… ma chi era papa Silvestro II? Silvestro II, ovvero Gerberto di Aurillac (950/1003) fu il primo papa francese, emerito studioso, introdusse le conoscenze arabe di aritmetica e astronomia in Europa. La sua grande sapienza fu all’origine di leggende sinistre, che lo misero in relazione con le arti magiche. Silvestro II fu uno dei personaggi storici più controversi, oscuri e chiacchierati mai esistiti. Il futuro pontefice era legato alla Romagna e in particolare a Ravenna perché qui nel 981  in presenza di Ottone II,  di cui era precettore, aveva vinto una famosa disputa filosofica con Otrico di Magdeburgo suo calunniatore, per ciò, venne eletto vescovo di Bobbio da Ottone II, poi vescovo di Reims, quindi arcivescovo di Ravenna, infine papa a Roma. La sua vita fu legata alle “3R”: Reims, Ravenna, Roma. Nacque in una famiglia poverissima, in una zona di Francia chiamata la “terra dei maghi”. Giovanissimo si reca in Spagna e apprende gli insegnamenti dagli eruditi arabi, entrando in contatto con le arti magiche, per far ciò non esita ad abiurare la fede cristiana. Fu Silvestro II che traghettò l’umanità che si aspettava la fine del mondo nell’anno 1000. 31 dicembre 999: la Basilica di San Pietro è stracolma di fedeli in preda al terrore e alla disperazione, attendono la fine del mondo al cospetto del Papa intento a celebrare quella che si teme possa essere l’ultima messa e il papa in questione è un mago, strane voci corrono… ma poco prima di mezzanotte, secondo la leggenda, il Papa sposta il calendario in avanti e cancella di fatto l’Anno Mille, evitando la fine del mondo. Un banale trucco matematico, che sembra funzionare. Nel 1001 Roma è in tumulto, e l’ordine per le strade tocca livelli tanto minimi da costringere Ottone III assieme a Silvetro II a lasciare la città, e a rifugiarsi a Ravenna città a loro fedele … ma Ottone III si ammalò di malaria o forse fu avvelenato, morì non lontano da Roma nell’ennesimo tentativo di sottometterla. Dopo i solenni funerali all’imperatore, Gerberto si installò di nuovo a Roma, nonostante la presenza della famiglia nobile romana dei Crescenzi che guidava le rappresaglie contro gli Ottoni e i pontefici favorevoli all’Impero. Silvestro morì poco dopo (12 maggio 1003), dopo aver celebrato una messa nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme in Roma (anche chiamata“Chiesa di Gerusalemme”), e secondo una leggenda popolare romana, il fatto si verificò in seguito alla maledizione ricevuta da una strega a cui aveva venduto l’anima. Molto più coerente un’altra versione dei fatti che dice Silvestro avvelenato dai nobili romani e dato in pasto ai cani: l’invidia per la  sua grandezza deve essere stata tremenda. È sepolto a San Giovanni in Laterano. Una parte dell’iscrizione sulla tomba di Gerberto  recita “Iste locus Silvestris membra sepulti venturo Domino conferet ad sonitum” (Questo luogo, all’arrivo del Signore, renderà al suono dell’ultima tromba i resti sepolti di Silvestro II) la traduzione errata diede adito alla curiosa leggenda che le sue ossa sbatacchino subito prima della morte di un papa. Altra leggenda è quella che si diffuse negli ambiti della curia romana secondo la quale la tomba si inumidisce alla morte di un cardinale e da essa fuoriesce dell’acqua alla morte di un papa.

immagine: Papa Silvestro II

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 30/11/2015     

Una fata nel destino del futuro papa

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Nella storia di Gerberto ovvero Silvestro II c’è anche una fata, le fate erano anticamente le druidesse o anche le seguaci della Sibilla. Gerberto la incontra in un bosco mentre è solo e disperato. La fata Meridiana in cambio della sua fedeltà, promette al giovane ricchezza, onore e gloria. Gerberto accetta e Meridiana lo inizia in attività segretissime. Il giovane si risolleva di colpo dalle terribili condizioni in cui si trovava ed ottiene tutto quello che aveva sempre desiderato; Meridiana lo aiuta a raggiungere anche l’illuminazione della mente con pratiche esoteriche. Probabilmente Meridiana è una metafora per illustrare la grande sete di conoscenza del futuro Papa. Comunque  Meridiana predisse che il diavolo sarebbe venuto a prendere Gerberto quando avesse detto messa a Gerusalemme. Silvestro II messo sull’avviso, cancella un pellegrinaggio a Gerusalemme, ma la profezia si avvera quando il pontefice dice messa nella Chiesa della Santa Croce di Gerusalemme a Roma. Vedendo Meridiana, Gerberto si rende conto che la morte è vicina, si sente male, fa pubblica confessione e chiede che il suo corpo sia messo su un carro di buoi e seppellito dove i buoi si fossero fermati, in un’altra leggenda viene attaccato dal diavolo durante la messa. Su Gerberto le leggende sono numerose  oltre ad una tresca con Meridiana, sembra che avesse una maschera d’oro parlante, un libro magico e anche un Djinn (un Genio come quello della lampada di Aladino) al suo servizio… in ogni caso tutte le leggende cercano di spiegare la salita al potere di Gerberto con un potere esoterico in quanto inspiegabile la sua sapienza. Silvestro II si fece costruire una maschera d’oro che rispondeva alle domande e prevedeva il futuro incatenando un diavolo dentro la maschera lo avrebbe costretto a rispondere senza menzogne … possibile che avesse una specie di computer? Inventò un  globo celeste in cui tutti gli astri avevano proprie orbite e propri movimenti e compivano in tempi proporzionati le proprie rivoluzioni … possibile che avesse inventato un qualche tipo di planetario? Di tutte queste invenzioni e di altre ancora non abbiamo che notizie imprecise, poiché alla sua morte tutto fu distrutto. Nel 1684 la sua tomba venne aperta e il corpo  trovato ancora intatto, ma esposto all’aria, si mutò in polvere in un attimo. Rimase il suo anello con la dicitura: “Sic transit gloria mundi”.

 

immagine: Gerberto e il diavolo

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 30/11/2015 

 

 

Gli Assassini e i Templari

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Non molto tempo fa in un’intervista al Corriere della Sera, il ministro dell’interno Alfano ha precisato che sarebbero almeno 50 gli italiani arruolati tra le fila dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante). Giovani che vengono reclutati e indottrinati spesso attraverso il Web, risiedono soprattutto nelle città del Nord, molti di loro sono italiani convertiti all’Islam da poco, ma ci sono anche figli di immigrati, di seconda generazione. Tutti sono attualmente tra Siria e Iraq, pronti ad immolarsi per la jihad (guerra santa). Si contano 12 terroristi legati alla Romagna, di cui 4 già morti in guerra, partiti per la Siria, provenivano dalle apparentemente placide nostre città: Imola, Ravenna, Cervia, Forlì. C’è chi se la prende con l’immigrazione, chi punta il dito sulla mancanza di controllo. Stefano Allievi, sociologo, esperto di Islam e docente universitario spiega: “Sono personalità irrisolte che usano qualunque ideologia per esaltarsi e dare un senso alla propria vita”. C’è chi dice che la storia si ripete, può essere ben vero, vi racconto una storia che risale attorno al 1200, che ha delle logiche assai simili. All’epoca i Templari avevano assimilato idee dell’ellenismo greco in rapporto con l’islam, nella Terrasanta. Erano venuti in contatto con la setta degli Assassini. Secondo alcuni storici quella degli Assassini non sarebbe altro che la frangia integralista degli ismaeliti, una sorta di  prefigurazione di Al Qaeda. Gli Assassini erano degli iniziati, avevano un’interpretazione simbolica del Corano e professavano una spiritualità neoplatonica, sconosciuta al resto dell’Islam. Erano dei musulmani eretici. Negavano la proprietà privata, poiché i beni della Terra dovevano essere goduti da tutti. Inoltre, consideravano demoniaca sia l’adorazione della pietra sacra che si trova alla Mecca, sia il culto di qualsiasi santo, compreso il profeta Maometto. Erano terroristi ante litteram, qualcuno li chiama rivoluzionari, che è la stessa cosa, sono sinonimi nel vocabolario. Perpetravano l’assassinio politico come strumento di lotta, uccidevano i tiranni, ma come sempre era un pensiero loro. Abbiamo assistito ultimamente all’uccisione di dittatori, le persone esultano, bruciano e spaccano tutte le raffigurazioni del despota e poi la situazione è peggio di prima e gli stessi belligeranti, che hanno causato la distruzione dell’autocrate, lo rimpiangono … c’est la vie. Gli Assassini erano reclutati fra i giovani, venivano indottrinati dal Veglio della montagna, che era il loro capo e possedeva le chiavi del Paradiso in cui poteva accedere il kamikaze. Il Veglio aveva, fra due montagne, palazzi dipinti d’oro in un bellissimo giardino con frutti, fiori e bestie e uccelli provenienti da tutto il mondo; qui scorrevano fiumi di acqua e di vino, qui ballavano, suonavano e cantavano i più bei fanciulli e fanciulle e donne, belle e misteriose solo per gli Assassini. Il Vecchio della montagna aveva una sua corte di giovani adepti, li nutriva a oppio e poi quando erano intontiti li portava nel giardino e loro credevano di essere in Paradiso. I giovani poi anelavano al ritorno in quel luogo e il Veglio, in cambio, richiedeva un lavoretto … un omicidio, una strage. Che Vecchio subdolo e, pare sia proprio esistito, sembra che sia Marco Polo che Federico II lo abbiano visitato e siano stati ricevuti con grandi onori. Sugli Assassini gira in Internet un gioco, si chiama: Assassin’s Creed, è un videogioco che va per la maggiore, in cui si ipotizza la setta degli Assassini, in una guerra segreta contro i Templari lungo i secoli della storia sino ad oggi. I Templari si sforzano per soggiogare l’umanità, gli Assassini lottano per garantire la sopravvivenza del libero arbitrio. All’indomani degli atti terroristici che hanno colpito il cuore dell’Europa è facile provare odio con la manovalanza, ma è legittimo chiedere a gran voce che il pericolo venga estirpato alla radice e sappiamo bene che tutto nasce là dove combattevano un tempo i Templari, con le nazioni che appoggiano o l’una o l’altra parte probabilmente per validi fini economici … panem et circenses  vale sempre.

immagine: dal videogioco Assassin’s Creed

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 23/11/2015

San Massimiano. il vescovo di Giustiniano

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San Massimiano fu il ventottesimo vescovo di Ravenna, e primo arcivescovo d’occidente, nacque nel 498 a Pola, in Istria, dove divenne diacono. Il ritrovamento di un “tesoro” per mano sua o del padre, gli permise di recarsi alla corte imperiale di Costantinopoli, guadagnandosi la stima dell’imperatore Giustiniano. Nel 545, alla morte del vescovo di Ravenna, i fedeli della città chiesero all’imperatore di eleggere un loro candidato, ma Giustiniano “consigliò” a papa Vigilio di incaricare Massimiano. I ravennati si ribellarono, non lo volevano, lo sentivano imposto. Massimiano si accampò fuori dalle mura, ospite del vescovo ariano dei goti, ma poi riuscì ad accattivarsi la simpatia dei fedeli, ottenendo così il permesso di accesso alla sua sede.   Andrea Agnello (800/850 circa), presbitero e storico ravennate, scrive che i cittadini andarono incontro lietamente a Massiminiano, “cum signis et bandis”, dal che nacque la parola bandiera, d’origine gotica. Una delle prime preoccupazioni di Massiminiano, fu quella di cancellare le tracce dell’arianesimo, degli sconfitti  goti. Nella basilica di Sant’Apollinare Nuovo, fece rifare parte dei mosaici affinché non restasse nulla che ricordasse Teoderico e il suo governo. Massiminiano rappresentò l’età d’oro della Chiesa di Ravenna: furono completate e consacrate le basiliche di San Michele e San Vitale, molte altre furono abbellite. A Sant’Apollinare in Classe fece iniziare un ciclo di mosaici celebrativi della diocesi ravennate, nel catino absidale Apollinare, primo vescovo di Ravenna, sontuosamente abbigliato con dodici pecorelle che rappresentano i fedeli. La scelta del tema è legata alla lotta all’arianesimo, poiché ribadisce la natura umana e divina di Cristo, parzialmente negata dagli ariani. Il grande scontro fra ariani e cattolici, è in un passo del Padre Nostro, la preghiera che fu insegnata da Gesù ai suoi apostoli, mentre egli si era ritirato in preghiera, dove si dice: “generato e non creato”. Massimiano morì a Ravenna nel 556 e le sue spoglie furono tumulate nella basilica di Sant’Andrea, poi trasferite in cattedrale. Massimiano è raffigurato nei mosaici di San Vitale accanto a Giustiniano, e la sua cattedra vescovile, forse dono dell’imperatore, realizzata con pannelli in avorio e scolpita tra il 546 e il 556, è conservata presso il Museo arcivescovile di Ravenna.

immagine: San Massimiano

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 23/11/2015

 

Il pane bianco di San Pier Damiani

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San Pier Damiani nasce a Ravenna nel 1007 da famiglia nobile, ma disagiata. Rimasto orfano viene allevato dalla sorella e dal fratello maggiore, diventando “uno dei migliori latinisti del suo tempo, uno dei più grandi scrittori del medioevo latino”. Ammiratore dell’eremita San Romualdo di cui scrive la Vita, ritiene l’eremitaggio il vertice della vita cristiana. Fu un uomo di preghiera, di meditazione, di contemplazione, e  non temeva di denunziare lo stato di corruzione esistente nei monasteri e tra il clero. La Chiesa dilaniata   da discordie e scismi, dalla simonia e dalla leggerezza del clero sul problema del celibato, aveva bisogno di uomini come Pier Damiani, egli  fu al fianco di ben sei papi. Come egli stesso raccontò, fu un episodio che determinò la sua vocazione. Offrì a un cieco del pane scuro tenendo per sé il pane bianco. Una lisca di pesce si conficcò in  gola, interpretò ciò come una giusta punizione per il suo egoismo, diede al cieco il pane migliore e la lisca scivolò in gola senza fargli male. L’ingresso nella vita monastica avvenne quando conobbe a Ravenna due eremiti di Fonte Avellana, eremo fondato da San Romualdo, di cui in seguito divenne priore. Divenne poi cardinale e vescovo di Ostia ma non accolse la nomina con favore, nonostante ciò si trasferì a Roma dove rivestì un ruolo di primo piano svolgendo missioni delicate sia sul piano politico che religioso. Ormai anziano vorrebbe starsene nel monastero di Fonte Avellana ma viene inviato a Francoforte nel tentativo di evitare il divorzio di Enrico IV dalla moglie Berta. Nel 1072 si reca a Ravenna per ristabilire la pace con l’Arcivescovo locale, che aveva appoggiato l’antipapa provocando la scomunica sulla città. Durante il viaggio di ritorno al suo eremo, una malattia lo costringe a fermarsi a Faenza dove muore nel 1072, qui il suo corpo riposa nella Cattedrale. Dante Alighieri, nel XXI canto del Paradiso, colloca Pier Damiani nel cielo di Saturno, dove racconta la sua vita: la predilezione per i cibi frugali e la vita contemplativa  e l’abbandono della vita di convento per la carica vescovile e cardinalizia. Il ricordo del cappello cardinalizio offre al Santo il destro per inveire contro i prelati del tempo: “ai loro tempi Pietro e Paolo percorrevano il mondo da evangelizzare magri e scalzi ma oggi, copron de’manti loro i palafreni, – sì che due bestie van sott ’una pelle…”.

immagine: San Pier Damiani Pinacoteca comunale di Ravenna

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Ravenna” il giorno 16/11/2015 

 

Gli Ottoni Periodo d’oro

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Attorno all’anno Mille, Ravenna fu la capitale effettiva del regno d’Italia, i tre Ottoni vi tennero sinodi,  placiti e vi si decideva chi doveva essere papa, carica a quei tempi molto pericolosa. Silvestro II, papa assai legato a Ravenna, fu ucciso dai nobili romani invidiosi della sua sapienza e dato in pasto ai cani, mentre anno più anno meno, all’antipapa Giovanni XVI le cose andarono ancor peggio. Vediamo un po’ come andarono le cose. Giovanni Filagato fu antipapa col nome di Giovanni XVI dal 997 al 998, era nato a Rossano in territorio allora bizantino. Nel 996 Ottone III sostenne l’elezione di papa Gregorio V che era suo cugino. Gregorio V successe a Giovanni XV (papa patrocinato dalla nobiltà romana di cui si diceva avesse regnato due volte, e che oggi viene omesso dalla lista dei papi), all’età di soli ventiquattro anni. A Roma Ottone III organizzò l’elezione del cugino a papa come Gregorio V e questi incoronò Ottone III imperatore. Ottone III aveva un sogno: l’ideale della “Renovatio Imperii”, acquisito dal suo precettore Gerberto di Aurillac futuro papa Silvestro II. Ottone III divenne imperatore a soli tre anni e a quindici anni non aveva più parenti stretti, la nobiltà romana approfittò di questo vuoto di potere per scacciare Papa Gregorio V, con lo zampino della famiglia Crescenzi. Giovanni Crescenzi, il cui titolo di patricius  gli era stato confermato dalla madre di Ottone III, amministrava la giustizia civile assieme al fratello in un vero e proprio traffico di leggi, screditando l’autorità di papa Gregorio e sostenendo un altro papa nella persona dell’antipapa Giovanni XVI. Ottone III ebbe una vita fatta di continui spostamenti fra Roma, Ravenna e Aquisgrana; mentre era assente da Roma per combattere contro gli slavi, spodestarono il “suo papa” per fare salire al soglio il “papa dei Crescenzi”. Ottone cercò di sbrigarsi per tornare a Roma a difendere i suoi diritti di legittimo sovrano e rimettere Gregorio V al suo posto. Si fermò a Pavia per essere incoronato re d’Italia poi con un’imponente armata che raccoglieva forze da tutte le province germaniche si fermò a Ravenna, quindi passò  a Roma che facilmente cadde. L’antipapa Giovanni XVI fuggì mentre i Crescenzi  si asserragliavano in Castel Sant’Angelo resistendo strenuamente. Crescienzo Crescienzi fu catturato, decapitato e il cadavere senza testa precipitò  dagli spalti del castello. Giovanni XVI, l’antipapa, fu mutilato tagliandogli il naso e le orecchie,  cavandogli gli occhi, amputandogli anche le mani e la lingua, fu poi deposto pubblicamente di fronte ad Ottone III e a Gregorio V, rivestito degli abiti e delle insegne papali, poi spogliato e come se non bastasse il prigioniero, venne posto a cavalcioni di un asino con il capo rivolto all’indietro e con la coda in mano, rivestito di un ridicolo copricapo, dopodiché fu rinchiuso in un monastero romano, sembra che Ottone abbia avuto molti rimorsi per ciò … mi sembra il minimo. Sebbene Giovanni XVI non sia stato riconosciuto come papa legittimo e il successivo papa Giovanni assunse la numerazione pontificale XVI, diversi cataloghi storici considerarono l’antipapa legittimo papa, questa correzione errata non venne mai rettificata così Giovanni XVI  idealmente diviene papa, forse una piccola consolazione per quello che aveva sofferto, a me piace pensare così. Più tardi ci fu un altro errore, si saltò un Giovanni XX e si passò direttamente al XXI. Per questi motivi il più recente papa col nome Giovanni, Angelo Roncalli (il papa buono) è stato in effetti solo il ventunesimo pontefice legittimo con questo nome. L’elezione di Giovanni XVI come antipapa contro Gregorio V, si spiega con la lotta politica della nobiltà romana contro l’espansione del potere imperiale a Roma. Ottone III riportato al potere Gregorio V si trasferì a Ravenna, dove fece eleggere vescovo della città l’intellettuale più brillante dell’epoca: il futuro papa Silvestro II.

 

 

 

immagine: antipapa Giovanni XVI

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Ravenna” il giorno 16/11/2015 

Fedeli d’amore Virtù eretiche

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La leggenda di Dante eretico e precursore della massoneria ha avuto grande diffusione nell’Ottocento,  anche se è stata fatta a pezzi dagli studiosi. Il Poeta avrebbe fatto parte dei Fedeli d’Amore,movimento legato ai Templari e in forte sospetto di eresia. I Fedeli d’Amore erano un gruppo di poeti che praticavano una spiritualità erotica, che può essere vista come un’applicazione nella realtà di idee cavalleresche proprie dell’amore cortese, atte alla rigenerazione della società. L’amore cortese si basa sul concetto che solo chi ama possiede un cuore nobile. L’amore cortese è un’esperienza non solo di corteggiamento platonico ma è fondato sulla compresenza di desiderio erotico e tensione spirituale. Per questa ragione,non può realizzarsi dentro al matrimonio,l’amore cortese è quindi adultero per definizione. L’amore cortese è desiderio fisico. Si instaura fra la dama e l’amante un rapporto d’amore esclusivo, così come il poeta deve rivolgersi a una sola dama, la donna deve accettare non più di un amante. Per l’amante il marito non è un problema, un grattacapo saranno gli altri della corte che tenteranno di portargli via la dama. Questo comportamento non è proprio solo delle corti del Milleduecento. Nell’Ottocento il cosiddetto cicisbeo, l’accompagnatore delle dame non era solamente un cavalier servente, ma era anche un focoso amante, si pensi a Byron e alla contessina Guiccioli. L’ideale cavalleresco e l’amore cortese nati nel Medioevo, rivissero grazie ai letterati romantici per tutto l’Ottocento. Il Romanticismo infiammò di fantasia ogni classe sociale, in quanto da tale letteratura apparve poi nei comportamenti umani fino forse all’esagerazione, tanto che nel XX secolo ci sarà un rifiuto totale di quanto piacque nel secolo precedente.“Il godimento nel sacrificio, l’affinamento morale nell’adulterio, l’esaltazione nel segreto”, questi sono i temi. I Fedeli d’Amore, quasi scomparsi dalla storia, erano “sopraffini spiriti” che lottavano per elaborare un codice di vita cavalleresco in cui la virtù fosse personale e non dovuta al censo. Essi “formavano un gruppo chiuso dedicato al raggiungimento dell’armonia tramite la parte erotica ed emotiva e le loro aspirazioni intellettuali e mistiche”. La loro formazione era basata su dottrine psicologiche e spirituali.  Donna me prega poesia di Guido Cavalcanti (1250-1300), è considerata come il manifesto dei Fedeli ed è dedicato a Sapientia (Sapienza), anche Beatrice nella Divina Commedia sarebbe vista da Dante in questi termini. La poesia dei Fedeli conterrebbe eresie, ci sarebbero termini camuffati per proteggere gli scrittori dal braccio terribile dell’Inquisizione. Molti termini possono essere interpretati in due o più modi, ma non è così chiaro se questo fosse intenzionale e se questo modo di scrivere risultasse comprensibile solo agli iniziati. Dante sebbene abbastanza ermetico,nella Divina Commedia si trovano un mucchio di doppi sensi, ha cercato nella sua opera di bilanciare la chiarezza e l’oscurità. Ci sono molte somiglianze di stile e contenuto tra la poesia sufi e la poesia dei Fedeli, soprattutto nella loro idealizzazione dell’Amata come Santa o Sapienza. La parola“Sufi”ha una triplice etimologia: 1) i Compagni del Profeta che avevano lasciato tutto pur di vivere quanto più vicino al Profeta, 2)i Sufi asceti che vivevano nei deserti vestiti di una lunga tunica di lana, loro unica proprietà, insieme al secchiello per l’acqua. Una tunica di toppe, cento toppe come i nomi di Allah menzionati nel Corano,che più tardi divennero colorate, fino a diventare l’abito tipico dei Dervisci, 3) i Sufi sono i Puri. Per questo se chiedete a uno se é un Sufi, non sentirete mai dire di sì, perché chi lo é, per modestia non lo dice. Ci sono altre fonti di influenza islamica, tra cui la tradizione trobadorica e i pellegrini di ritorno dalla Terra Santa. I Templari possono aver portato ai Fedeli alcune di queste idee, così come la tradizione del Tempio di Salomone come la dimora della Sapienza. In effetti, ci può essere stata un’alleanza tra i Fedeli e Templari. E un continuum poi coi Rosacroce per arrivare alla massoneria.

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Ravenna” il giorno 09/11/2015

Ma perché festeggiare… le corna?

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Era usanza, in Romagna, qualche decennio fa, per San Martino, cioè l’11 novembre partecipare alla corsa dei becchi, anche nei piccoli paesi c’era fermento e partecipazione. Il becco è una capra, il riferimento è alle sue corna e a qualsiasi animale con le tanto temute biforcazioni, in quanto per corna si intende che la moglie o la compagna ti ha tradito. La corsa dei becchi è la marcia dei cornuti. Ma perché facevano questa corsa solo per uomini, sposati o fidanzati dove i giovani li deridevano con schiamazzi ed urla? Le ipotesi sono tante, l’usanza risale comunque ai Celti. Qualcuno pensa che, essendo il giorno 11, questo simbolo raffiguri le corna eseguite con le mani. Altri lo ritengono un uso antico, in cui gli uomini correvano attorno all’accampamento con stecchi o corna in testa, come rito scaramantico per l’abitato. Probabile fosse una specie di rito di purificazione per eliminare nella chiusura dell’anno agricolo tutte le mancanze o i peccati dell’anno, attraverso la loro pubblica denuncia. L’adulterio era considerato un peccato grave, un male nefasto, non solo perché poteva creare tensioni nella comunità, che invece doveva avere la propria forza nella coesione, ma anche perché, in un ambito religioso, in cui si pensava che i morti tornassero a rinascere nei propri discendenti, una nascita “irregolare” avrebbe precluso il ritorno degli antenati a favore di quelli del seduttore. Ma se ciò accadeva perché non era colpa della donna, che tradiva? No, la pubblica riprovazione andava ai “becchi”. Mentre la natura, nel mese di novembre, accettava il seme nella terra, dopo essere stata dissodata, il becco non era capace di fecondare la sua donna, attirando così la malasorte sulla comunità e sul raccolto. Le donne non erano disprezzate perché concepivano lo stesso, era il becco che difettava. Così il cornuto diventava anche capro espiatorio. Per la festa di San Martino, a Santarcangelo,  oltre alla corsa dei becchi, si svolge ieri come oggi, la fiera più importante di animali con le corna, mucche, buoi, tori, capre, montoni, qualcuno considera questo il motivo della corsa dei cornuti. La festa ha inizio,   con la tradizionale corsa dei becchi, che transita sotto l’Arco di Clemente XIV, a cui vengono appese, per l’occasione, grandi corna. La tradizione vuole che oscillino al passaggio delle persone che hanno le corna… cioè che sono state tradite.

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Ravenna” il giorno 09/11/2015

I legami tra Dante, la massoneria e l’Argentina

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La tomba di Dante, dai ravennati era chiamata un tempo “la Pivarola”. Fu il poeta Olindo Guerrini, che la definì in questo modo. Termine azzeccato perché sembra proprio un macinapepe e nessuno al mondo ha avuto mai lo stesso “pepe” di Dante nelle invettive. Strano che il tempietto in stile neoclassico, fin troppo armonico, presenti un festone con teste di capro che paiono simili al simbolo del bafometto, quest’ultimo secondo la leggenda, era un idolo pagano, il dio dei Cavalieri Templari. Certo che ciò non fa di Dante un massone, ma testimonia, la tomba fu restaurata alla fine del Settecento dal cardinal Luigi Valenti Gonzaga mentre era legato pontificio in Romagna, che al tempo qualcuno ci credeva. Ritroviamo qualcun altro che aveva le stesse idee su Dante. Se pensiamo alla lista dei massoni della P2, in mano a Licio Gelli, vi troviamo oltre ai famosi della politica e dello spettacolo, anche molti adepti provenienti da Buenos Aires, inoltre Licio Gelli aveva buoni rapporti con l’Argentina, i legami fra la massoneria italiana e quella argentina erano di lungo corso, sarà un caso che a Buenos Aires venne costruito Palazzo Barolo? Fine della Prima Guerra  Mondiale, l’Europa era distrutta mentre l’Argentina, allora settima potenza del mondo, era un paese fiorente. Gli argentini in parte italiani volevano salvaguardare Dante il padre della lingua italiana e portarselo a Buenos Aires. L’architetto Palanti inizia a costruire nel 1919 per Luis Barolo l’Edificio Barolo destinato a conservare le ceneri di Dante: grazie a un accordo tra le due massonerie quella appunto italiana e quella argentina. L’edificio riprende simbolicamente tutta la Divina Commedia, l’Inferno è al primo piano del palazzo con statue di animali spaventosi, il Purgatorio dal quarto e quindi il Paradiso dal ventiquattresimo piano con una cupola terminale e un grande faro. L’Edificio venne terminato nel 1923 ma, mentre Buenos Aires aspettava le ceneri di Dante, l’Italia cavalcava l’onda degli anni ruggenti americani, si avviava verso il regime fascista, che introduceva il nazionalismo e l’esaltazione delle proprie radici e le ceneri di Dante rimasero a Ravenna. Figuriamoci Ravenna non le volle dare a Firenze, questa massoneria doveva ben essere fuori dai coppi per anche solo pensare di portare via le ceneri del Poeta dalla terra di Romagna. Dio ce le ha date e qui rimangono!

immagine: Palazzo Barolo, Buenos Aires

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 02/11/2015

 

La morte di Barbara

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Uno dei massimi capolavori della scultura quattrocentesca è Il monumento funebre a Ilaria del Carretto,     di Jacopo della Quercia, risalente al 1406-1408 e conservato nella Cattedrale di San Martino a Lucca. Il sarcofago marmoreo raffigura la ragazza dormiente e riccamente abbigliata, su un catafalco decorato con putti che reggono dei festoni. Ilaria ha i capelli raccolti da una fascia imbottita e la testa è appoggiata su due cuscini. Il ritratto è dolce ed elegante, con uno struggente contrasto tra la bellezza della fanciulla e l’idea della morte. Ai piedi di Ilaria è accoccolato un cagnolino, simbolo di fedeltà. Questa opera è una delle mie preferite e l’ho sempre associata per bellezza e per la giovane età della defunta, al monumento funebre di Barbara Manfredi a Forlì. Pino III Ordelaffi probabilmente per sgravarsi la coscienza, commissionò a Francesco di Simone Ferrucci da Fiesole un bellissimo sepolcro per la moglie Barbara. Collocato originariamente nella chiesa forlivese di San Biagio, distrutta da un bombardamento durante la seconda guerra mondiale, è ora nell’Abbazia di San Mercuriale di Forlì. Francesco di Simone Ferrucci (12437/1493)  è stato uno scultore italiano, influenzato da Andrea del Verrocchio e da Desiderio da Settignano, appartenente ad una famiglia di scalpellini, fu quasi sempre un maestro itinerante, attivo a Firenze, ma con numerose committenze anche dalla Romagna, Umbria e Marche, dove si trovano numerose sue opere. Il sepolcro di Barbara è a forma di arco, è sormontato da un tondo in stile “Della Robbia”: una Madonna con Bimbo. L’archivolto e i pilastri sono adorni di palmette e decorazioni varie, ricordano la Colonna dei Francesi, in realtà un pilastro, che si trova in aperta campagna alle porte di Ravenna. Dalla volta scendono tessuti damascati di marmo, sorta di palcoscenico per Barbara che sembra essersi appena addormentata. Ha le braccia incrociate e il capo appoggiato su un bel cuscino. Il catafalco è abbellito da due putti ignudi che tengono fra le mani un’epigrafe. Sicuramente una delle più belle opere esistenti in Romagna. Il sontuoso lavoro scultoreo nasce in un ambiente di tragedia familiare, di veleni e di avvelenamenti. Pino III Ordelaffi, era fratello di Francesco IV Ordelaffi, signore di Forlì dal 1448. Pino sposa, nel 1462, Barbara Manfredi figlia del signore di Faenza, Astorre II Manfredi, sua promessa sposa fin da quando ella aveva sette anni. Dopo un sospetto tentativo di avvelenare Pino, che si riprenderà, da parte di suo fratello Francesco e dopo una manovra di Barbara di avvelenare Francesco ecco che quest’ultimo viene assassinato da un ufficiale. Pino assume la signoria di Forlì e Forlimpopoli. Ma non finisce qui: Barbara muore improvvisamente e il padre di lei sospetta immediatamente Pino di averla a sua volta avvelenata, per gelosia. Pino allora si dispera e ordina il lussuoso monumento per la giovane, appena ventiduenne, moglie spirata, forse per togliere i sospetti dalla sua persona. Intanto Pino cerca un’alleanza con Taddeo Manfredi di Imola rivale del signore di Faenza, cercando di contrastare il tentativo del padre di Barbara di cacciarlo con l’aiuto del Papa. Pino così sposa la figlia di Taddeo, Zaffira  Manfredi, che morirà di lì a poco avvelenata nel 1473. Nel 1467 era morta avvelenata anche la madre di Pino. In questo periodo, a Forlì, si beveva più veleno che vino. Il governo di Pino III, anche se offuscato dalle congiure di palazzo, si caratterizzò per un periodo di pace e di espansione economica. Pino si sposò una terza volta con Lucrezia Pico della Mirandola, sorella di Giovanni Pico della Mirandola. Un contemporaneo notò che Lucrezia stava sempre molto attenta a quello che mangiava! Pico della Mirandola filosofo e umanista, è famoso per la sua  prodigiosa memoria: si dice conoscesse a mente numerose opere e che sapesse recitare la Divina Commedia al contrario, partendo dall’ultimo verso. Lucrezia cui ci risulta non fu avvelenata, forse possedeva un po’ della mirabile memoria del fratello, cioè la capacità del cervello di conservare informazioni, nel breve, medio e lungo termine, che spesso serve anche a salvarsi la vita.

immagine: sepolcro di Barbara Manfredi

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 02/11/2015