E se Atlantide fosse davanti a Cattolica?

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Potrebbe anche essere che Atlantide possa stare da qualche parte, un tempo si derideva chi credeva che Troia fosse esistita e poi nel 1870 Heinrich Schliemann la trovò, ma dove sarà? La fantastica città sommersa   potrebbe trovarsi  nel mare tra Cattolica e Gabicce, quindi in Romagna. Dal Cinquecento gli abitanti di Cattolica si tramandano la leggenda della città sommersa di Conca, a seguito di un’annotazione di un anonimo in cui si parla di tale luogo posto nel mare davanti a Cattolica: la“città profondata”. Gli studiosi lo ritengono impossibile, ma Schliemann non era uno studioso era un appassionato un vero tifoso di Omero. Intanto si trovano strani sassi che paiono reperti archeologici e poi Dante menziona Cattolica nel XXVIII Canto dell’Inferno, quindi Cattolica doveva avere un certo “peso” nel 1300, forse memorie di un tempo antico: “E fa saper a’ due miglior di Fano a Messer Guido e anco ad Angiolello che, se l‘antiveder qui non è vano, gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d‘un tiranno fello”, guarda caso Dante con una “previsione astrologica” fa gettare i due personaggi in mare, proprio a Cattolica e Dante non scrive mai nulla per caso. Oggi Cattolica è una ridente località di villeggiatura estiva, è una delle poche città che è riuscita a creare rotonde artistiche e gioiose arricchite da fontane. Cattolica ha una piacevole passeggiata lungo la Darsena, ha infatti una ricca tradizione marinara (pesca e cantieri navali). Il Museo della Regina di Cattolica (Riccione è la perla dell’Adriatico,Cattolica la regina) è  sorto nel 2000, ospita al suo interno due sezioni: quella archeologica, che espone i reperti rinvenuti nel corso degli scavi cittadini dagli anni ‘60 in poi, e quella  marinaresca con le tradizioni navali, piscatorie e cantieristiche del porto. Sulle imbarcazioni (chiamate trabaccoli) ci sono gli occhi di cubia che sono l’emblema odierno di Cattolica, ricordano un’antica tradizione dei marinai. Le cubie sono dei fori che si trovano sulla prua dove scorre la catena dell’ancora, intorno a questi fori vengono dipinti degli occhi,  si credeva che con gli occhi la barca potesse schivare i pericoli. A Cattolica sole, mare ma anche storia cultura e mistero… poi un grande acquario con squali, pinguini e le simpatiche lontre, hanno persino creato una musica utilizzando le “voci” dei pesci!

immagine:  carta con la “città profondata”

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno11/08/2014

Storie di santi e … calzolai

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San Mauro Pascoli è famoso in tutto il mondo per la produzione di scarpe di alta moda. Al toponimo San Mauro è stato aggiunto Pascoli in onore del famoso poeta qui nato. Intendo scrivere di scarpe ma prima voglio soffermarmi su Mauro vescovo di Cesena a fine IX secolo, un po’ dimenticato a favore del patrono San Giovanni Battista; ma anche San Mauro Pascoli lo snobba preferendogli come patrono San Crispino; certo Crispino è il protettore dei calzolai ma anche Mauro ha che fare coi piedi. Narra  San Pier Damiani che un pellegrino, andando in processione, per allacciarsi una scarpa posò il piede sopra una tomba nascosta dagli arbusti. Non riuscì più a staccarlo e fu necessario rompere il sarcofago, che rivelò così  la salma di Mauro che fu trasferita a Cesena. Crispino e Crispiniano sono raffigurati come due calzolai intenti al loro lavoro. I due Santi, di origine romana, si sarebbero recati in Gallia insieme con altri al tempo di Diocleziano, erano calzolai,e professavano la fede cristiana. Saputo ciò, I‘imperatore Massimiano li fece arrestare  dal prefetto Rizio Varo, un accanito persecutore dei cristiani,che non riuscendo in nessun modo a fargli rinnegare la fede, in un accesso d’ira si gettò nel fuoco! Massimiano per vendicare il suo ministro condannò i due Santi alla pena capitale. In questa storia ci sarebbe tanto da decifrare per comprendere cosa succedeva tra la popolazione nel passaggio fra il paganesimo e il  cristianesimo. Un dato di fatto era che i Romani che adottavano tutte le religioni dei paesi conquistati, non sapevano neanche più chi pregavano… si deus si dea ( se un dio o una dea) erano le scritte sulle raffigurazioni di dei che venivano da Oriente e da Occidente. Verso il IV secolo, c’era una tale confusione, una tale mancanza di spiritualità che il cristianesimo mise radici con energia. Su San Crispino c’è una bella leggenda che risale ai tempi  delle invasioni barbariche. Il mondo  romano stava crollando ed i contadini fuggivano dalle orde di Attila e di Genserico. Fra i fuggitivi c‘erano anche San Crispino e San Crispiniano. La notte di Natale, tremanti di freddo e di fame, bussarono alla porta di una povera casetta. Aprì una donna in lacrime, il marito era stato ucciso dai Barbari. Aveva un bambino e per scaldarlo aveva messo nel fuoco i suoi zoccoli, l’ultima cosa che aveva. I due  Santi, commossi, andarono ad abbattere un albero nel bosco, intagliarono due zoccoli che posarono davanti al focolare spento, ed ecco che miracolosamente i trucioli che avevano gettato nel camino si misero a danzare e a brillare. Non erano più trucioli di legno, ma pepite d‘oro. E così Crispino e Crispiniano furono proclamati patroni dei calzolai. Il piede é un capolavoro architettonico. Anche se é solo una piccola parte del nostro corpo sostiene e trasporta  tutto il nostro peso. Secondo i medici la struttura del piede può essere danneggiata gravemente dalle calzature sbagliate eppure specialmente noi donne ci lasciamo prendere dalla moda e calziamo improbabili scarpe con altezze vertiginose, tacchi a spillo di 14 centimetri magari con l’aggiunta di altri 5 centimetri del plateau, all’opposto indossiamo delle ballerine raso terra, dannose pure queste perché l’ideale è la scarpa con qualche centimetro di tacco, va bene che bellezza è un po’ soffrire, ma esiste anche: est modus in rebus (la giusta maniera). Naturalmente lo scrivo ma non lo faccio, perché anche io, come la maggior parte delle donne ho la mania delle scarpe,per consolarmi della mia ottusità penso alle pianelle molto diffuse in Europa tra il XIV/ XVII, calzature a forma di pantofola con la zeppa sino a 50 cm., oppure  alle scarpe col “pattino”delle veneziane del XVIII secolo che potevano essere alte sino a 50 centimetri (una sorta di ciabatta-involucro che serviva per non sporcare la scarpa vera  tra i tragitti da casa a casa) o le poulaine, scarpe della nobiltà del XIV con la punta superiore ai 15 cm., nel XV invece andavano di moda le calzature  “a piede d’orso” la cui punta poteva giungere a 15 cm, stavolta in larghezza. Quindi siamo nella norma, indossiamo felici le nostre belle scarpe.

immagine: locandina Festa San Crispino a San  Mauro Pascoli

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 28/07/2014

Oriana Fallaci, le origini romagnole della giornalista

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Forse non tutti sanno che l’intrepida, coraggiosa e tenace Oriana Fallaci ha origini anche romagnole, la madre di suo padre era di Cesena. Nel suo libro postumo: “Un cappello pieno di ciliegie”, cita sei volte l’icona della Madonna delle Lacrime, descrivendola nei minimi particolari :“… le piaceva tanto, la Madonna delle Lacrime. Aveva due belle guancie paffute, indossava una bella veste cremisi e trapunta di stelle, col braccio destro reggeva un bel bambolotto che probabilmente era il Bambin Gesù…”. Nel centro di Longiano, paese dell’entroterra romagnolo, nell’antica chiesetta di Santa Maria delle Lacrime, oggi Museo della Ghisa vi era un tempo un’icona (oggi al Museo d’Arte Sacra nell’ Oratorio San Giuseppe) da sempre oggetto di venerazione da parte della popolazione per un presunto miracolo.“Nell’anno 1506 verso sera sudò un’ immagine della Beata Vergine oggi detta comunemente  ‘Delle Lacrime’. L’icona si trovava in casa di Sebastiano Barberi. Per tale prodigioso sudore si commosse tutto il popolo di Longiano, e per tanta devozione il Barberi donò alla comunità la propria casa con detta miracolosa immagine, perché si costruisse una Chiesa” ( Archivio Parrocchiale ). Questa icona è balzata fuori dall’anonimato tramite le parole di Oriana Fallacci, in cui parla di una sua antenata che essendo orfana  era stata accolta come badante da una famiglia di Longiano. La sua ava era figlia illegittima fu depositata di nascosto alla Ruota (il luogo in cui i bambini non desiderati venivano abbandonati). Ella era devotissima alla Madonna delle Lacrime, una Madonna paffuta e malinconica. Questa icona dagli stilemi bizantini presenta una Madre affettuosa con in braccio il Bimbo col globo terrestre sormontato da una croce, il simbolismo del mondo tenuto in una mano, oppure sotto a un piede, era conosciuto anche dagli antichi romani, presso cui era usata la sfera come rappresentazione del cosmo e con il dominio dell’imperatore su di esso; Il globo crucigero, assomiglia molto anche al simbolo capovolto di Venere, rappresenta il dominio di Cristo sul mondo. Nella Madonna delle Lacrime colpisce, per il tono di rosso acceso simbolo quindi di vita, il manto di Gesù, un accordo che contrasta con il rosso molto scuro, segno di regalità, del mantello della Madre. Il fondo oro, si annulla e si disperde nella cornice dorata e ben intagliata.
immagine: Oriana Fallaci

articolo già pubblicato sul quotidiano ” La Voce di Romagna” il giorno 28/07/2014

Compassione dove sei ora?

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Anni fa, una sera fredda d’inverno, trovammo seduto sul ciglio della strada, del mio piccolo paese,       un tunisino o forse un marocchino. Erano gli anni ‘70, gli immigrati erano pochi e questi pochi facevano un sacco di affari con la vendita delle loro “cineserie”. Era festa quando arrivava uno di loro, tutti compravano, quasi tutti avevano in casa una specie di lampada luminosa, che vendevano loro a basso costo, a steli luminosi  di colore arancione, l’antesignana  dei led, l’avrei voluta tanto anch’io, ma a mia madre non piaceva per niente. L’immigrato aveva la testa fra le mani, era disperato, era senza soldi ed aveva fame. Fra i paesani fu una gara per offrirgli cibo e pacche sulle spalle. Fu organizzata una colletta e fu portato alla stazione dei treni, gli comprarono il biglietto e lo abbracciarono. Per lungo tempo si parlò di lui chiedendoci fra di noi: “Starà bene?”. Oggi quelle stesse persone, uguali a come siamo noi tutti, hanno paura di loro, e questa paura blocca la nostra compassione. Il termine “compassione” è oggi fuori moda, è “out”, e non esiste niente di peggio che essere fuori moda, significa essere fuori dal divertimento, essere fuori  dal giro della gente che conta. Se vuoi valere devi essere “in”, “vip” e giù di lì. Ma attenzione l’outsider anche se non è uno dei favoriti a sorpresa può vincere. Dall’etimologia e  dal significato di “compassione” si possono conoscere valori dimenticati, forse non modaioli e quindi non relativi, valori validi in ogni tempo e luogo. “Compassione” deriva dal latino cum (con) e passio (dolore), quindi il significato è il soffrire insieme, ma anche il provare sentimenti di grave intensità, capaci di dominare interamente un essere umano. Infatti vi è anche la passione in amore, la passione per gli hobby, ma abbiamo dimenticato l’origine più vera del termine, quello di provare dolore e partecipazione per le disgrazie e i dolori dell’altro, a prescindere dalla sua appartenenza sociale o geografica o religiosa. Fra i sinonimi troviamo: commiserazione, misericordia, pietà, compatimento; mentre fra i contrari ricordiamo: indifferenza, spietatezza, invidia. Nel mondo in cui viviamo, e non solo quello occidentale, riscontriamo sempre più il dominio dell’indifferenza e dell’invidia e a volte siamo addirittura spietati. Forse abbiamo singolarmente delle colpe, ma la colpa maggiore ce l’ha la società che ci ha inculcato il nichilismo e l’indifferenza, che ci ha ingannato con una ricerca falsa di felicità. Urla di dolore salgono dall’Africa che ha fame e dall’occidente che è grasso. I bimbi affamati dell’Africa sofferenti come molti nostri giovani  che hanno il mal di vivere ma cosa ha combinato la nostra società? Forse ha ragione il Papa, il diavolo è fra di noi, il diavolo dell’invidia che fa vedere l’oro dove non c’è. In occidente i più sensibili non hanno scampo, sono trinciati, non dal mercato o dalla globalizzazione, ma dalla mancanza di rispetto per se stessi e per gli altri, dalla mancanza di amore. Una società che ti insegna la forza, non quella interiore, ma quella fisica. Quando andavo alle elementari, nell’ora di ricreazione, si faceva il gioco della sedia. Un numero inferiore di sedie, quando la musica terminava, occorreva sedersi, qualcuno rimaneva senza sedia ed era escluso dal gioco. Io ero sempre la prima ad essere esclusa perché non riuscivo a spintonare. Una sola volta per un caso si realizzò il mio desiderio, conquistai il posto a sedere, ebbene arrivò un maschietto e con uno spintone mi fece finire col sedere per terra. Mi rialzai, con uno sforzo enorme cercando di non piangere, arrivai al mio banco e poi piansi tutte le lacrime del mondo. Accorsero le maestre, alle loro domande risposi che avevo mal di pancia, l’orgoglio mi impedì di dire la verità. Certo è una mancanza di sensibilità piccola. Far pagare il parcheggio all’ospedale, come si fa oggi in molte città, è un difetto lieve se volete, ma non insegna ad amare, ad avere compassione per l’altro in difficoltà; togliere le panchine o sostituirle con quelle anti/barbone può essere utile sul momento ma quale esempio di solidarietà per le generazioni future? Le piccole cose generano col tempo uragani.

  articolo già pubblicato sul quotidiano  “La Voce di Romagna” il giorno 05 maggio 2014

 

Venere di Savignano, il mistero della donna

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La Venere di Savignano è una piccola scultura di cm 22,5. E’entrata nella storia grazie al prof. Giuseppe Graziosi al quale fu consegnata ,in cambio di due quintali di uva, da un contadino la cui moglie gli aveva consigliato di buttare quel brutto sasso, per fortuna non lo fece. Il ritrovamento avvenne  a Savignano sul Panaro nell’anno 1925 durante i lavori all’esterno di una stalla. Graziosi  donò la statuetta al Museo Pigorini  di Roma dove tuttora è conservata.“La Venere non è soltanto un reperto archeologico; è una testimonianza diretta di uno dei più appassionati misteri della storia umana: la nascita dell’arte” (B.Benedetti). Arte che nasce per magnificare il mistero della nascita e della morte, arte quindi affine alla religione. Sono quasi 190 le raffigurazioni femminili, tra statuette a tutto tondo e figurine schematiche piatte attribuite al paleolitico e ritrovate in Europa, Francia sud-occidentale, Italia, Europa centrale, Ucraina, Russia meridionale e Siberia e nonostante il fenomeno abbia riguardato territori così lontani tra loro, molte sono le caratteristiche comuni a queste figure. Sono figure caratterizzate da grossi glutei  con seni e ventri esagerati, a cui si contrappongono lineamenti appena accennati. Le Veneri probabilmente sono la raffigurazione tangibile del mistero della natura incarnato nella donna, culto della fertilità, ma la loro grassezza fa anche pensare che anticamente l’uomo “si togliesse il cibo dalla bocca” per le donne in quanto molto più necessarie degli uomini per la sopravvivenza della specie, finché  poi l’uomo non scoprì che anche lui partecipava alla procreazione. Questi manufatti  forse rappresentano la Dea Madre. I tanti ritrovamenti per lo più fortuiti fanno pensare che questi oggetti fossero in realtà molto comuni, e che quelli che troviamo noi siano solo un’infinitesima parte di quelli che circolavano. Si pensi che alcune sono state trovate in negozi di rigattieri, quindi è molto facile che ad esempio ve ne siano nel sottosuolo romagnolo. Monte Poggiolo (Terra del Sole di Forlì) è il sito paleolitico più antico d’Italia, è stata rinvenuta un’industria litica a schegge e nuclei, rappresentata da migliaia di manufatti, ricavata da ciottoli scheggiati dall’uomo preistorico, chissà che non sbuchi anche una Venere … voi se trovate un sasso particolare, attenti a gettarlo via.

immagine: Venere di Savignano

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 21/07/2014

Tartarughe paradossali

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Anno scorso nel mese di luglio in bicicletta mentre transitavo accanto al Pala de Andrè di Ravenna, costeggiando il canale che passa lì vicino, ho fatto un salto sul sellino, l’acqua era piena di schiuma giallastra che aumentava a vista d’occhio! Preoccupata mi sono fermata, ho osservato meglio e sorpresa… erano centinaia di minuscole tartarughe gialle. L’Emys  orbicularis, meglio conosciuta come tartaruga palustre europea è una specie protetta, a rischio estinzione  causa l’inquinamento delle acque. Le Emys  sono stanziali e abitudinarie tanto che una volta trovato un nido o una tana continuano ad utilizzarla per molto tempo. Da ottobre a marzo le Emys  sono in ibernazione quasi totale fin quando l’acqua non raggiunge una temperatura di 10°. L’accoppiamento che può durare anche un’ora, avviene in acqua nel periodo primaverile; la deposizione  delle uova avviene dopo circa  30 giorni. I luoghi preferiti per la collocazione sono di solito asciutti, esposti al calore dei raggi solari e in prossimità delle rive. Le femmine, in gruppi,  depongono  ciascuna circa 10 uova nel loro nido. Dopo circa 80 giorni nascono i piccoli, essi sono dotati di un “dente dell’uovo”,  che poi scomparirà, serve a loro per rompere il guscio. Tante piccole tartarughe però poche di loro ce la faranno a vivere, già la natura ha deciso così, infatti la maggior parte dei piccoli, vengono catturati dagli uccelli prima che riescano a nascondersi, ma ci si mette anche l’uomo, in Cina ad esempio c’è il commercio delle loro uova. La tartaruga quando depone le uova piange, c’è una valida  spiegazione scientifica: lacrimando espelle il sale, ma le lacrime  non potrebbero essere anche di dolore? In dialetto romagnolo la tartaruga è detta: “besa galâna”, perché sta sotto terra come una biscia e razzola come una gallina. Nella mitologia greca la ninfa Chelone, dalla quale la tartaruga prende il nome, avendo  offeso Zeus ed Era, fu punita dagli dei che la lanciarono  in mare e la condannarono  a recare sul dorso la propria casa. Il dio Ermes invece uccise una tartaruga e col suo carapace e sette corde costruì la prima lira che regalò ad Apollo, e questi al figlio Orfeo. La tartaruga è simbolo di protezione, saggezza  longevità e immortalità. Legato alla tartaruga vi è un famoso problema matematico:  il paradosso di Achille e la tartaruga. Il filosofo Zenone se ne serviva per dimostrare l’inesistenza dello scorrere del tempo nella realtà, e perciò del divenire.  Zenone, allievo di Parmenide,  era certo della staticità  dell’essere, e dell’illusorietà del movimento. Achille  dà un vantaggio di dieci metri alla tartaruga; quando Achille avrà percorso quei dieci metri, la tartaruga, data la sua lentezza, avrà percorso solo un metro. Quando Achille avrà raggiunto anche quel metro, la tartaruga avrà percorso un decimo di metro, e così all’infinito; in questa maniera sembra impossibile per Achille raggiungere la tartaruga.  Aristotele fu il primo a decifrarlo, oggi un qualsiasi studente lo sa risolvere. Ma l’entrata in campo della meccanica quantistica ha riproposto il paradosso in termini probabilistici … in fin dei conti Achille prima di raggiungere la tartaruga può infilarsi uno spino nel tallone!  “Zenone è incontestabile, a meno di confessare l’idealità dello spazio e del tempo. Accettiamo l’idealismo, accettiamo l’accrescimento concreto di quanto è percepito, e potremo eludere il brulicare di abissi del paradosso. Ritoccare il nostro concetto dell’universo, per quel pezzettino di tenebra greca?”(J. L. Borges) Noi non abbiamo timore di ritoccare il concetto dell’universo basta una poesia. “ La besa galâna/ La m’è sèmpar piaʂuda ,/ srêda int e’ su mond/ la s’arves e la s’asëra/ sgond dagli ucaʂion./ A s’arven nenca  nó piân piân,/a gvarden la luʂ  ad tre staʂon/ e a i prem fred a s’sren int un grâñ sòn./ A s’ʂvigiaren pu, Signór:/e’ bur d’afat l’è brot. (La tartaruga mi è sempre piaciuta chiusa nel suo guscio si apre e si chiude secondo le occasioni. Ci apriamo anche noi pian piano, guardiamo la luce di tre stagioni e ai primi freddi ci chiudiamo in un grande sonno. Ci sveglieremo pure, Signore il buio completo è brutto).  Nevio Spadoni noto poeta romagnolo.

 

 

immagine: tartarughe ninjia

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 21/07/2014

Perchè piace la terrazza

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Il mio quotidiano preferito: La Voce di Romagna, un tempo pubblicava poesie in prima pagina, oggi ripropone, forse su richiesta dei lettori maschili, in ultima pagina le “terrazze con vista”. Non mi interessa né il polemizzare, né il giudicare, mi piace il capire, comprendere perché l’uomo è così attratto dal balcone. Da cinquanta anni il seno della Loren ha popolato i sogni di generazioni di appassionati, in effetti era da “bomba sexy” niente a che fare coi molti seni plastificati di oggi.  Sembra che pure un alto prelato non fosse in grado di staccare gli occhi da tali ubertose montagne, se ricordo bene la Sophia nazionale indossava una catena con crocefisso che cadeva tra il solco dei seni, qualcuno un po’ puritano fece notare al vescovo la spudoratezza della Diva, presentarsi in Vaticano così, ma l’alto prelato rispose: “Vorrei tanto esserci io al posto del crocifisso”. Parlando di donne, se stiamo sugli attributi fisici, lasciando perdere l’aspetto interiore (sic), oltre al seno, molto accattivanti risultano essere le mani, il portamento, gli occhi e lo sguardo soprattutto, il cosiddetto “lato b” e assai importante è la voce. Per il seno abbondante il richiamo viene da molto lontano, dalle veneri preistoriche, piccole figurine dai seni debordanti in cui gli studiosi vi riconoscono il culto della fertilità. Pensiamo alla famosissima Venere di Savignano (sul Panaro e non sul Rubicone) ma è possibilissimo che tali statuette siano presenti anche nel sottosuolo riminese in quanto si sa che nella zona vi erano stanziamenti paleolitici … è bene tenere in vita le belle tradizioni, ben vengano le terrazze con vista. Oltre a ciò c’è dell’altro, sembra che la simbologia del seno sia  emblema del cuore. Ho sempre creduto che il simbolo del cuore si riferisse al “cuore organo” e con sorpresa ho scoperto, frequentando le lezioni di Anna Spinelli alla Casa Matha di Ravenna, che non è così. Il simbolo del cuore deriverebbe dall’Albero della Vita ai cui lati si confronterebbero due persone, queste due persone rappresentano l’Oriente e l’Occidente. L’Albero della Vita è il progetto seguito da Dio per creare il mondo, e  Oriente e  Occidente stanno quindi ai lati dell’Albero a testimonianza della Creazione. Col tempo l’Albero è quasi scomparso ma sono rimaste le sagome delle due persone. Volendo queste due sagome che si fronteggiano possono essere viste come l’incontro che unisce. Se prendiamo in esame invece la triade rosso / cuore/ amore, ci confrontiamo con il sentimento, la passione e la sessualità. Il colore rosso è simbolo per eccellenza dell’amore e dell’eros e può dare una sensazione forte, calda e protettiva, ma anche molta eccitazione nervosa. Mi dispiace rovinarvi la tradizione romantica sul cuore, ma l’affare sembrerebbe assai più erotico che sentimentale. Girando per internet ho trovato un’altra simbologia sul cuore. Il cuore verrebbe stilizzato in questa particolare maniera per un preciso motivo: rappresenterebbe le natiche della donna. Se infatti si capovolge il classico simbolo stigmatizzato del cuore, esso rappresenterà le natiche femminili così come sono viste dall’uomo durante il rapporto “da dietro”. Questa rappresentazione ha radici molto antiche, risale ai tempi in cui l’essere umano non aveva ancora assunto la posizione eretta, per cui i genitali (specialmente quelli femminili) non si erano ancora spostati nella parte frontale del corpo. Le natiche avevano una funzione di richiamo sessuale, funzione poi assunta, con l’evoluzione, dal seno femminile che ha la stessa forma tondeggiante delle natiche. Col passare del tempo quella rappresentazione stilizzata  del richiamo femminile delle natiche, poi passata al seno, è stata caricata di significato romantico, ma il senso di fondo è sempre quello del richiamo sessuale. Sarà poco romantico, ma la realtà è questa. Sappiate che da quarantamila anni il rapporto  erotico è rimasto come al tempo dell’homo sapiens, ci siamo evoluti solo nel fisico, ma la nostra fantasia sessuale è rimasta tale e quale all’uomo preistorico. Non c’è sesso senza amore o non c’è amore senza sesso?

immagine: Sophia Loren

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 14/07/2014

Guerra civile romagnola

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Può sembrare strano ma dal 1860 in poi parecchi italiani, parteciparono alla guerra civile americana fra Nordisti e Sudisti (1861/1865), si arruolarono da entrambe le parti. Di questi uomini  si sa poco o nulla, fra di loro anche un romagnolo: Giovanni Gordini, classe 1838. A ventitre anni s’imbarca per New York dove si arruola volontario, nel 39° Reggimento Fanteria (Garibaldi Guard). Del giovane romagnolo si sa solo che nel 1862 era presente in località Cross Keys dove si svolse una delle più sanguinose battaglie, qui fu ferito gravemente e trasferito in un ospedale da campo, poi se ne perdono le tracce. Ma cosa spingeva questi uomini a lasciare la propria casa? Sovente ex garibaldini o ex mazziniani delusi, con in mente solo la rivoluzione e l’anarchia. In Romagna nacque addirittura il Partito socialista rivoluzionario (PSR) attivo tra il 1881 e il 1893. Fu costituito nel 1881 a Rimini, su iniziativa di Andrea  Costa. Ma ancora prima possiamo trovare i semi di questi avventurosi nella  storia del Passatore (1824/1851). La cui vicenda è simile  ad un film assurdo, dove  vittime e carnefici, inseguiti e inseguitori, sono crudeli e spietati dove ci sono solo antieroi. “Il buono, il brutto, il cattivo” è un film del 1966 diretto da Sergio Leone in cui vi è uno spaccato sulla guerra di secessione americana. Gli scalcagnati protagonisti nel viaggio verso il cimitero per recuperare l’oro, vengono catturati dall’esercito nordista, decidono di arruolarsi dopo aver parlato con il capitano. Quest’ultimo, palesemente ubriaco, rivela ai due un suo personale piano per far cessare l’inutile massacro di entrambi gli schieramenti: far saltare il ponte. Poiché il cimitero è dall’altra parte del ponte, i due decidono di farlo esplodere. Dopo aver fatto esplodere il ponte, i due eserciti come previsto si ritirano e i due soci arrivano  al cimitero. Sentenza sarà ucciso e Tuco e il Biondo si divideranno l’oro. Leone si esprime così sul suo film:“Da sempre pensavo che il buono, il cattivo e il violento non esistessero in senso assoluto e totalizzante. Un assassino può fare mostra di un sublime altruismo, mentre un buono è capace di uccidere con assoluta indifferenza. Una persona in apparenza bruttissima, quando la conosciamo meglio, può rivelarsi più valida di quanto sembra  e capace di tenerezza… Incisa nella memoria avevo una vecchia canzone romana, una canzone che mi sembrava piena di buon senso comune:‘È morto un cardinale che ha fatto bene e male. Il mal l’ha fatto bene e il ben l’ha fatto male’. In sostanza era questa la morale che mi interessava mettere nel film… Nel mio mondo, sono gli anarchici i personaggi più veri. Li conosco meglio perché le mie idee sono più vicine alle loro. Io sono fatto di tutti e tre. Sentenza non ha anima, è un professionista, come un robot. Considerando il lato metodico e cauto del mio carattere, sono simile al Biondo: ma la mia profonda simpatia andrà sempre dalla parte di Tuco… sa essere toccante con tutta quella tenerezza e umanità ferita. Ma Tuco è anche una creatura tutto istinto, un bastardo, un vagabondo… Ciò che mi interessava era da un lato demistificare gli aggettivi, dall’altra mostrare l’assurdità della guerra. La frase chiave del film è quella di un personaggio (il Biondo) che commenta la battaglia del ponte:‘Mai visto morire tanta gente… tanto male’. La colonna sonora del film, famosissima, fu composta da Ennio Morricone, Il motivo principale, assomiglia all’ululato del coyote, è composta da due note, ogni  protagonista ha un suo tema musicale. I personaggi esprimono l’animo umano con luci ed ombre. Il Biondo che non ha neanche un nome, non parla, fuma e mastica sempre il sigaro è il buono, è l’angelo in noi ma spietato all’occorrenza, poi c’è Sentenza il cattivo, quello da eliminare, ha solo cattiveria inutile e deleteria è un assassino a pagamento non è mosso da passioni, è la parte di noi stessi da togliere. Tuco è il brutto anatroccolo, si dimena, si da fare, ciarla, fa il mascalzone ma di fondo è buono e il Biondo alla fine riconosce ciò, gli lascia la vita e la metà dell’oro. I protagonisti assomigliano a quegli avventurosi romagnoli di fine ‘800  un po’ santi, un po’ mascalzoni.

 

 

  articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 07/07/2014

Usi, costumi e pregiudizi dei contadini napoleonici

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Tradizione è ciò che ci viene trasmesso, come un’eredità, sono abitudini che a volte sono preziose e sono da mantenere, altre volte sono da abbandonare, in qualche caso è meglio lasciare il vecchio per abbracciare il nuovo, altrimenti non ci sarà posto per il futuro. La tradizione ci da sicurezza ispira fiducia, pensiamo spesso al buon tempo passato guardando con paura al progresso e alla scienza.     Michele Placucci (Forlì 1782-1840) era segretario generale di Forlì ebbe così l’occasione di conoscere i risultati dell’inchiesta svoltasi nel 1811 condotta dal Governo del Regno d’Italia, siamo in epoca napoleonica, da cui trasse l’opera: “Usi, costumi e pregiudizi dei contadini della Romagna”. Placucci scrive su ogni ambito della vita del contadino romagnolo. Il libro inizia con le credenze: se senti cantare la civetta per tre volte avrai un morto in casa, se il cane abbaia a lupo avrai una disgrazia, se la gallina fa il verso al gallo altra triste disgrazia, né di martedì  né di venerdì  mai iniziare un lavoro o partire ed altre simili. Io che sono nata in campagna vi posso dire che queste convinzioni erano in uso fino a pochi decenni fa, a tal punto che se sento cantare la civetta sto bene attenta a quante volte lo fa. Ma voglio raccontarvi una storia di povertà di quando si era veramente poveri e le famiglie bisognose mandavano i propri figli a lavorare presso la casa di un contadino più abbiente come garzone, che il più delle volte voleva dire lavorare dalla mattina presto fino a sera e poco cibo perché non ce n’era. Erano ragazzini, era lavoro minorile, per tradizione, il giorno scelto per la loro partenza era il 25 marzo, i maschi lavoravano nei campi e nelle stalle, le femmine in casa con l’azdora. Valmina siccome in famiglia erano in tanti fu mandata in una casa colonica della campagna riminese, aveva dieci anni, doveva lavorare sempre, continuamente rimproverata e se per caso le rimaneva un po’ di tempo l’azdora le faceva lavare le zampe alle galline. Valmina aveva paura delle galline perché la beccavano e un bel giorno non ce la fece più fece un fagotto con  le sue poche cose e se ne andò di notte, fece venti chilometri a piedi, non ebbe mai paura, ritrovò la sua casa. La sua famiglia non ebbe il coraggio di rimandarla indietro. Valmina oggi non c’è più la vita con lei è stata sempre molto dura, ma lei l’ha affrontata col sorriso avendo fiducia nel progresso.  

immagine: la gazza

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 30/06/2014