QUEL FRATE ERA UN HIPPY

cattura di fra Dolcino e MargheritaBenvenuto da Imola,(1330/1388) è stato un letterato imolese, a lui è intitolato il liceo classicodi Imola. Fu uno dei primi commentatori della Divina Commedia, assieme al Boccaccio, che conobbe a Firenze. Autore del Romuleon, riassunto di storia romana, e di un commento alle Bucoliche e alle Georgiche, è noto per il suo commento alla Commedia dantesca, apprezzato per originalità e profondità. Esiliato da Imola andò a Bologna dove rimase dieci anni, successivamente si trasferì a Ferrara, ospitato da Niccolò d’Este, alla cui corte restò fino alla morte. Nel Canto XVIII dell’Inferno, dove sono puniti i seminatori di discordia, Dante riceve da Maometto una profezia: di ammonire fra Dolcino a procurarsi molti viveri, se non vorrà che la neve lo costringa ad arrendersi ai Novaresi che lo assedieranno.(Si intravede in Dante una certa simpatia per il frate eretico) Benvenuto da Imola, nel commento, ci dice che Dolcino nacque a Romagnano Sesia, poi andò a Vercelli, vivendo nella chiesa di Sant’Agnese dove studiò la grammatica. Era molto intelligente e abile negli studi, di bassa statura, sempre sorridente e di temperamento gentile. Un giorno un prete si lamentava che gli erano stati rubati dei soldi, alla fine accusò Dolcino e lo voleva torturare per farlo confessare. Gli altri sacerdoti rifiutarono e lo sollevarono dal sospetto di furto, ma Dolcino era terrorizzato e fuggì lontano nella città di Trento, dove incontrò e si unì alla setta degli apostolici. Per capire fra Dolcino e gli apostolici bisogna retrocedere a qualche anno prima al 1260, data dell’Apocalisse secondo l’abate calabrese Gioacchino da Fiore, lo Spirito Santo sarebbe sceso dal cielo per imporre un nuovo ordine mondiale basato finalmente sulla giustizia. Gioacchino ebbe un’influenza significativa sulle varie correnti religiose del secolo successivo, in particolare sui movimenti di origine francescana, fiorivano gruppi votati alla povertà che volevano il ritorno della Chiesa alle sue origini diseredate e di comunione dei beni. Tutto ciò mentre la Santa Sede era impegnata quasi solo a difendere il suo potere temporale. Il movimento degli apostolici, chiamato così perché volevano imitare gli Apostoli, vivevano di elemosina con le barbe lunghe e incolte, fu fondato da un ventenne di Parma, Gherardo Segalelli, che vide respinta la sua richiesta di farsi francescano ed allora lui diede vita a un ordine monastico nuovo. Gli apostolici furono scomunicati nel 1286 da Onorio IV ed entrò in campo l’inquisizione, nel 1300 Gherardo fu bruciato vivo. Fine degli apostolici? Niente affatto a Segalelli subentrò Dolcino, dal Piemonte, prese i contatti con i superstiti emiliano/romagnoli e con loro si ritirò in Trentino dove l’inquisizione era più blanda. Dolcino fondò un’attività monastica simile ad una comunità hippy degli anni ’70, tutti liberi e uguali, poverissimi, capelloni, contestatori, pacifici e buoni, con mogli e figli. La compagna di Dolcino si chiamava Margherita e Benvenuto da Imola la descrive come persona di gran carattere e di immensa bellezza. Nel 1303 Dolcino decise di spostare la sua “Chiesa” in Piemonte, ma nel lungo tragitto, forse la mancanza dell’obolo dell’elemosina e del cibo, gli apostolici si tramutano da allegri fraticelli in briganti. Gli apostolici dovevano aver subito delle dure traversie, si ridussero infatti ad uno stadio di denutrizione tale, che mangiavano i topi. Inizialmente i montanari erano con loro, ma poi quando i frati presero a saccheggiare e a incendiare le case, le simpatie scemarono. Fu così che la propaganda della Chiesa ebbe buon gioco, i vescovi di Milano e Vercelli armarono un esercito intorno al monte Rubello, rifugio degli apostolici. La guerriglia durò un anno finché nel 1307 i soldati riuscirono a fare strage dei frati eretici, buttarono i loro cadaveri in un fiume che da allora si chiamò Carnasco. Margherita e Dolcino furono presi vivi, prima fu bruciata lei, mentre fra Dolcino fu costretto a guardare, poi toccò a lui. Dolcino è un mito controverso, odiato dalla Chiesa, il Risorgimento ne fece un eroe, fu un simbolo per i socialisti piemontesi, che nel 1907 eressero in sua memoria un obelisco, distrutto dai fascisti e poi ricostruito nel 1972.

immagine: cattura di fra Dolcino e Margherita

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22/08/2016

LA CATTEDRA DI MASSIMIANO

busta08_ 003A Ravenna al Museo Arcivescovile, è custodita la cattedra d’avorio, una straordinaria opera d’arte del VI secolo appartenuta quasi certamente all’arcivescovo Massimiano. Osservandola frontalmente, si nota il monogramma di Cristo fra girali, pavoni e cervi. Nel piano inferiore, al centro della teoria degli evangelisti, è la figura di Giovanni Battista vestito di una lunga tunica, regge nella mano sinistra un clipeo sul quale è raffigurato l’Agnello, simbolo di Cristo. Nell’iconografia della cattedra la figura del Battista è la chiave di unione tra Antico e Nuovo Testamento. L’Antico Testamento è riassunto, lungo i fianchi della seduta, con le vicende di Giuseppe, rifiutato e venduto dai suoi fratelli, farà poi fortuna col faraone. Il fronte dello schienale presenta, nelle cinque formelle pervenute, il vangelo dell’infanzia di Gesù. Alcune scene appartengono ai vangeli apocrifi. Apre il ciclo iconografico l’annunciazione a cui fa seguito la prova di Maria delle acque amare. Questa raffigurazione è rara e singolare, il Sommo Sacerdote faceva bere all’imputata l’acqua sacra invocando una maledizione che rendeva sterili e deformi, serviva a provare l’infedeltà delle donne adultere, si metteva quindi in dubbio la verginità della Madonna. Il protovangelo di Giacomo racconta l’episodio, sottolineando l’ammirazione di tutto il popolo verso Maria e Giuseppe, che non ricevettero alcun danno dalla prova. Nella stessa formella, Giuseppe sorregge con tenerezza la Vergine nel viaggio verso Betlemme. Nel secondo registro è la natività nella quale si nota la levatrice dalla mano inaridita, altro brano assai inusuale. Vicenda quasi sconosciuta, narrata nei vangeli apocrifi. Alla nascita di Gesù, la levatrice non era convinta della verginità di Maria e voleva accertarsene con le mani, queste ultime le si paralizzarono all’istante. La Madonna impietosita toccò le mani della donna col corpo di Gesù, che subitamente guarirono. In alto, al centro, racchiuso in un clipeo è il Cristo benedicente che regge nella sinistra uno scettro. Posteriormente la cattedra raffigura scene della vita di Gesù, tra cui la moltiplicazione dei pani e dei pesci, le nozze di Cana, la samaritana al pozzo ed altre. La cattedra, anche se ha perso parte delle formelle istoriate, rimane un esemplare unico e eccezionale di scultura paleocristiana in avorio. Massimiano (Istra di Pola, 498/Ravenna 556) è stato il primo arcivescovo di Ravenna, egli godeva della fiducia di Giustiniano, fu per questo che fu inviso ai ravennati, perché lo percepivano come un rappresentante del potere imperiale in città. Massimiano, si conquistò poi velocemente la fiducia dei cittadini di Ravenna facendo eseguire molti lavori pubblici, sia civili, sia religiosi, tra cui i mosaici nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe e i mosaici con i ritratti di corte di Teodora e di Giustiniano in San Vitale. Nel corteo di Giustiniano si fece ritrarre accanto all’imperatore, con il nome scritto a chiare lettere, mentre tiene tra le mani una croce gemmata. Al tempo la Chiesa di Ravenna era molto importante, Giustiniano le aveva assegnato il ruolo di perno dell’unificazione spirituale d’Italia assieme alla Chiesa di Roma. Massimiano, raccontano le cronache ravennati, fu uno dei massimi difensori del prestigio di Ravenna. A questo proposito, c’è una storia che racconta l’impegno di Massimiano per portare le spoglie di Sant’Andrea a Ravenna. Il Santo era venerato a Costantinopoli, Massimiano ne chiese il corpo, ma l’imperatore rispose che la salma di Sant’Andrea e quella del fratello San Pietro dovevano restare nelle due città sorelle, Roma e Costantinopoli. Massimiano ricorse all’astuzia per impossessasi del corpo del Santo, ma le cose andarono male e dovette accontentarsi della barba di Sant’Andrea, tagliata di nascosto durante una veglia notturna. Commenta mestamente Andrea Agnello, storico e presbiterio di Ravenna, del nono secolo, autore del Liber pontificalis ecclesiae ravennatisse il corpo del Santo, fosse stato sepolto nella nostra città i vescovi di Roma non sarebbero mai riusciti a sottomettere quelli di Ravenna. Ho una domanda che mi gira nella testa… la barba del Santo dove sarà nascosta?

immagine: Cattedra di Massimiano

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 15/08/2016

MISTERI FRANCO/ROMAGNOLI

Rennes-le-Château

Il romanzo di Dan Brown,“Il codice da Vinci”, si appoggia su di una ipotetica “base storica”: il cosiddetto “mistero di Rennes le Château”, comunemente attribuito ad un “terribile” segreto scoperto da don Bérenger Saunière (1852-1917), un sacerdote nato e vissuto nel Sud della Francia, non lontano dal confine con la Spagna. Secondo l’ipotesi più diffusa egli avrebbe trovato qualcosa che proverebbe l’esistenza del “sangue reale”, ovvero che Gesù sopravvisse alla croce e generò figli con Maria Maddalena. Tuttavia, non mancano congetture alternative: il tesoro del Tempio di Gerusalemme, la coppa del Graal, un procedimento per diventare immortali, la memoria di una catastrofe ciclica, e molto altro. In ogni caso Saunière sarebbe venuto a conoscenza dell’esistenza di una società occulta, ramificata e potente, il Priorato di Sion, (di cui avrebbe fatto parte anche Leonardo da Vinci), che avrebbe avuto lo scopo di gestire il segreto. Tutto ciò sarebbe provato da una complessa rete di iscrizioni su pietra, messaggi inseriti in quadri, pergamene, lettere, che occorre decifrare, perché presentano scritte sbagliate, rovesciate, rebus, ecc. Il segreto di Rennes le Château passerebbe anche per la Romagna. Pier Luigi Pini, abita a Brisighella, è una persona assai cortese e affabile, appassionato e ricercatore, assieme alla moglie Anna Maria, dei misteri di Rennes su cui ha tenuto numerose conferenze. Pini si è recato a Rennes, per studio, per ben 13 anni, qui in questo luogo ha conosciuto Dan Brown, quando non era ancora famoso, lo scrittore si aggirava col suo camper per raccogliere il materiale per i suoi scritti. Vediamo un po’ cosa ci racconta Pier Luigi. Tutte le popolazioni antiche, (Celti, Romani, Visigoti, Ebrei) si ritrovano in Romagna e nella zona di Rennes, come pure gruppi religiosi in odor di eresia, (come i Catari e i Templari). Faenza, nel medioevo fu un luogo cataro, addirittura volevano bruciare tutta la città per debellare l’eresia. Ancora oggi, a Faenza, c’è una chiesa chiamata Commenda (onorificenza civile, superiore al cavalierato) dedicata a S. Maria Maddalena. Sempre a Faenza, si sarebbe decodificata una lapide del 1600, proveniente dal Duomo della città (la scoperta di uno schizzo su un taccuino, farebbe risalire a Leonardo la sua costruzione, vi ricordo che Leonardo scriveva da sinistra verso destra cioè a rovescio, così come si scrive anche l’arabo). La lapide sembra celare un messaggio segreto, riferito a Rennes:“Sul monte Bezu a Rennes la chiesa di Cristo cela l’arco nei monti”, scritta che si ritrova pure nella Pala Bertone, dipinto di autore ignoto, di proprietà della pinacoteca faentina. A Faenza, ritroviamo anche Felice Giani, che qui dipinge ben tre opere con la dicitura: “Et in Arcadia ego” (anch’io facevo parte dell’Arcadia) un’iscrizione enigmatica riportata in alcuni importanti dipinti del Seicento, fra cui uno del Guercino, e due del pittore francese Nicolas Poussin. Vi è poi la diffusione della devozione al Preziosissimo Sangue, congregazione fondata da San Gaspare che si ritrova sia a Bologna e nella Romagna, sia nella zona di Rennes. Altro riferimento è l’oratorio di S. Maria Maddalena a Villa Salta, si trova a Predappio, che avrebbe riferimenti simbolici con la chiesa che si trova a Rennes. La costruzione dell’oratorio, più o meno nel 1450, si deve a Nicolò, capostipite dei Raineri di Salto, personaggio illustre molto sensibile al lato spirituale e religioso. Altro riferimento alla Maddalena si può ritrovare in San Camillo, fondatore della “Compagnia dei ministri degli infermi”. I Camilliani portano l’abito nero con la croce rossa di stoffa sul petto, si dedicano alle cure degli ammalati. Il cuore di questo Ordine è la Chiesa di S. Maria Maddalena a Roma, dove il loro ideatore è sepolto. Questo Ordine è molto conosciuto a Predappio, opera in un centro di accoglienza residenziale per persone con problemi psichiatrici. Per quanto riguarda il legame coi Merovingi, gli ipotetici detentori del “sangue reale”, i riferimenti sono molti, mi limito a scrivervi, che il “nostro” Teoderico sposò una figlia di Childerico, quest’ultimo fu il primo sovrano, storicamente accertato, di tale dinastia.

immagine: Rennes le  Chateau

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 08/08/2016

DUE IPOTESI SULL’INFERNO

 

inferno

“Oltre Dante”, è uno dei più originali eventi del settembre dantesco di Ravenna, sicuramente il più coinvolgente in quanto i cittadini stessi saranno i cantori di tutto il Poema. Tre serate, 1/2/3 settembre, rispettivamente l’Inferno ai Giardini Speyer, il Purgatorio ai Giardini San Vitale, il Paradiso ai Chiostri Francescani, la scelta dei luoghi mi pare assai pertinente, orario dalle 18:00/23:00, ingresso gratuito. Ciò è stato possibile grazie al Centro Dantesco dei Frati Minori e a Dante in Rete, il tutto con la regia di Franco Palmieri. Palmieri, che già da alcuni anni sta dirigendo un’analoga esperienza a Firenze, ha sottolineato come la “Commedia” sia nata per essere portata dalla gente alla gente; per questo a Firenze, per quasi due secoli, vi furono letture pubbliche per il popolo. Tutti possono partecipare, occorreva però prenotarsi già all’inizio di giugno. Ora partendo dal presupposto che la Divina Commedia sia patrimonio di tutti, non solo degli eruditi esperti, mi permetto di scrivere due ipotesi con un mio personale punto di vista. Nel V Canto dell’Inferno, la pena per la legge del contrappasso è di essere trasportati dal vento (come in vita dal vento della passione), qui Dante incontra le anime di Paolo e Francesca, che volano unite e paiono leggere al vento. Paolo piange, mentre Francesca racconta la storia del loro amore, nato mentre leggevano la storia di Lancillotto. Dante, alla vista delle loro anime, è turbato, talmente turbato che sviene e cade come se fosse morto. Come mai Dante mette i due amanti all’Inferno? Mentre leggevano le storie dei cavalieri arturiani? Dante era un Fedele d’Amore e il ciclo bretone era un riferimento per questo gruppo di poeti, che ritenevano l’esperienza d’amore come elevazione morale. Dante è obbligato a metterli all’Inferno perché timoroso di incorrere nell’eresia però, “cadendo come corpo morto cade”, quando non c’è più nessuna speranza ci si può salvare fingendosi morti… ecco che metaforicamente l’Alighieri salva Paolo e Francesca. Nel XXVIII Canto dell’Inferno compare Maometto, si trova tra i seminatori di discordie, la cui pena consiste nell’essere fatti a pezzi da un diavolo armato di spada. Maometto appare tagliato dal mento all’ano, con le interiora e gli organi interni che gli pendono tra le gambe. Maometto indica tra gli altri dannati Alì, che fu suo cugino e suo quarto successore come califfo, tagliato dal mento alla fronte, quindi chiede a Dante chi sia e perché indugi a unirsi a loro nella pena. Virgilio spiega che Dante è ancora vivo ed è lì per vedere la loro punizione. Maometto si arresta e annuncia una profezia riguardante l’eretico fra Dolcino (se non vuole seguirlo presto lì, dice, dovrà rifornirsi di viveri per non essere preso per fame nell’assedio del 1306 nel Biellese, qui Dante sembra provi simpatia per l’eretico fraticello). Durante queste ultime parole Maometto tiene il piede sospeso in aria, in una posizione grottesca che accentua il carattere comico/ realistico, questo è ciò che indicano gli esperti, ma… Dante era una mente illuminata, un’anima tesa a cercare la Pace. Maometto è obbligato a metterlo nelle bolge infernali per non incorrere nell’eresia, ma non è poi maniera di Dante lo sfottere gratuitamente. Esisteva anticamente un modo di dire, “essere su un piede di parità” con significato di un trattato posto sul piano della parità. Forse, Dante aggira l’eresia, mette Maometto all’Inferno come di dovere, in quei tempi la logica delle due religioni era solo quella delle armi e purtroppo oggi è ridiventata attuale, ma lo indica “su un piede di parità” cioè come un Profeta al pari di Cristo. Se questa ipotesi fosse veritiera ecco che l’affresco di San Petronio, a Bologna, di Giovanni da Modena, non avrebbe ben interpretato Dante. Io sono molto religiosa, amo la mia confessione e appunto per questo rispetto enormemente quella degli altri, se gli islamici mettessero Cristo all’Inferno mi arrabbierei moltissimo, quindi, come propose Francesco Cossiga qualche anno fa, sarebbe bene togliere Maometto dall’Inferno. Si potrebbe staccare la sua raffigurazione e apporla accanto all’intero affresco spiegandone la motivazione.

 

immagine: Inferno di Giovanni da Modena, San Petronio, Bologna

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 01/08/2016