Il Francia di Romagna

258La “Presentazione di Gesù al tempio e Purificazione della Vergine” è un olio su tavola che si trova nell’Abbazia di Santa Maria del Monte a Cesena, è il capolavoro del bolognese Francesco Raibolini detto il Francia (1450/1517). Dopo aver lavorato come orafo, iniziò a studiare pittura presso la bottega di Francesco Squarcione. Influenzato inizialmente dall’opera di Lorenzo Costa e Ercole de’Roberti, il Francia ebbe poi modo di conoscere lo stile di Perugino e Raffaello, addolcendo le sue linee. Vasari riferisce che Francesco smise di dipingere dopo aver visto “L’estasi di Santa Cecilia” di Raffaello, dipinto che lo stesso Raffaello, amico del pittore, gli aveva inviato a Bologna. Sembra addirittura che la depressione causatagli dal riconoscimento che egli non sarebbe mai stato in grado di realizzare un tale capolavoro lo portò presto alla morte. La bellissima tavola di Cesena, presenta il sacerdote Simeone, riccamente vestito da un manto rosso/oro decorato con figure di Santi, mentre sta porgendo le mani al Bimbo ignudo che si volge alla Madre, vestita di rosso con un manto verde/blu, a fianco San Giuseppe con due colombe in mano, è l’offerta per il tempio, è un obolo povero, i ricchi donavano un agnello. Accanto a Giuseppe è Sant’Anna, una profetessa molto vecchia che non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. La presunta figura femminile che regge tra le mani un libro, a destra, non è ancora stata identificata, ma potrebbe essere il committente perciò un priore benedettino. Dietro alle figure una costruzione finemente decorata, mentre il pavimento è a grandi piastrelle colorate. Lo schema compositivo è classico, l’atmosfera è gentile ed estatica, ricorda molto lo stile di Raffaello. Il tema della presentazione e purificazione al tempio si festeggia liturgicamente  il 2 febbraio, in memoria del giorno in cui Maria, in ottemperanza alla legge, si recò al Tempio di Gerusalemme, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, per offrire il suo primogenito e compiere il rito legale della sua purificazione. Il Vecchio testamento recitava: “Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatré giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. Ma, se partorisce una femmina sarà immonda due settimane come al tempo delle sue regole; resterà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue”. La cerimonia della purificazione si svolgeva così: giunta la donna al tempio il sacerdote di turno l’aspergeva con sangue e recitava su di essa alcune preghiere; quindi seguiva l’offerta stabilita per la purificazione e il pagamento dei cinque sicli per il riscatto del primogenito, che apparteneva a Dio. Memoria di questo rito si ritrova  nelle campagne di qualche decennio fa. Quaranta giorni dopo il parto, si andava alla chiesa, il prete con preghiere porgeva una candela, solo dopo le donne potevano entrare in chiesa. Durante la quarantena non si dovevano fare lavori pesanti e c’erano divieti nel cibo. L’incontro del Bambino con il vecchio Simeone esprime simbolicamente il passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento. La festa liturgica, un tempo, per decreto di Giustiniano, era giorno festivo in tutto l’impero d’Oriente, successivamente lo divenne anche in Occidente. Il rito della benedizione delle candele, di cui si ha testimonianza già nel X secolo, si ispira alle parole di Simeone:“I miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti”. Da questo significativo rito è derivato il nome popolare di festa della “candelora”. Questa festa fu istituita forse in opposizione ai Lupercalia dei Romani, evento che era col tempo divenuto sfrenato  e immorale. La candelora è legata verosimilmente anche alla festa celtica di Imbolc che prevedeva alle prime avvisaglie della primavera di festeggiare il ritorno della luce con grandi fuochi, lumini e candele.
immagine: Presentazione al Tempio del Francia

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 09/02/2015

Il Regisole, teoderico a cavallo… fino a Pavia

a3666f9065cf96fbc7f58f7c8a8eeb00Cosa è il Regisole e quale l’origine di tale strano nome? Doveva trattarsi di un’opera tardo antica in bronzo dorato, eseguita con la tecnica a cera persa, come i Bronzi di Riace per intenderci; quasi certamente si trovava a Ravenna e rappresentava Teodorico a cavallo, probabilmente in posa trionfale, forse echeggiava il mosaico, asportato per damnatio memoriae, ma ancora se ne intravede l’ombra, di Sant’Apollinare Nuovo. Fu uno dei modelli a cui attinsero gli scultori del Rinascimento per far rinascere l’arte del monumento equestre. La statua aveva una mano innalzata come il Marc’Aurelio e il cavallo teneva una zampa sollevata per evidenziare il dinamismo. Per quanto riguarda il nome, tre sono le ipotesi più accreditate: alcuni sostengono che la parola sia legata al personaggio con la mano alzata intento a “reggere” il sole, altri all’effetto del bronzo dorato che riflette i raggi del sole, mentre qualcuno pensa che Regisole significhi “regisolio” cioè trono regale. Molto più intricato sapere come la statua equestre sia finita a Pavia, collocata davanti alla cattedrale, diventando uno dei simboli della città, emblema pure sul sigillo d’argento del Comune; da Ravenna si è spostata a Pavia… ma come ci sia arrivata nessuno lo sa. Numerose e controverse sono le ipotesi avanzate dagli studiosi, alcuni ritengono che i pavesi in lotta coi bizantini sottrassero a quest’ultimi il Regisole, altri credono che la statua equestre fosse sempre appartenuta a Pavia, ma potrebbe essere anche la statua di Teodorico a cavallo che Carlo Magno si portò a Aquisgrana e che scomparse subito dopo. Viene da pensare che la città di Ravenna, dopo la morte di Carlo Magno, si sia riappropriata del manufatto e poi l’abbia perso di nuovo guerreggiando coi pavesi. Quello che è fuori da ogni dubbio è che il Regisole a Pavia colpì l’immaginazione di illustri ospiti della corte viscontea: Francesco Petrarca ne parla in una lettera al Boccaccio, Leonardo Da Vinci l’ammira nel 1490, durante un viaggio a Pavia in compagnia di Francesco di Giorgio Martini. Nel 1796 il Regisole fu distrutto dai giacobini pavesi che riconobbero in esso uno dei simboli della monarchia. Sparì quindi dal contesto urbanistico e storico di Pavia fino a quando il Comune commissionò allo scultore Francesco Messina, verso la metà degli anni ’30, una nuova statua equestre basata su raffigurazioni antiche.

immagine: Regisole di Francesco Messina

articolo già pubblicato sul quotidiano “la Voce di Romagna” il giorno 09/02/2015

 

 

Ebe e le sue sorelle

EBE

Incede leggera come un frizzante vento di primavera, par che s’involi fra i fruscii della veste trasparente, il nastro sui capelli raccolti che paiono biondi anche se sono in marmo, alza il braccio tenendo in mano un’ampolla, nell’altra mano ha già pronta la coppa, dorata come la collana che ha al collo, che esalta il seno nudo, acerbo e impertinente: è l’Ebe di Forlì. Figlia di Zeus e di Era, nella mitologia greca è la divinità della gioventù, era la coppiera, preparava e serviva il nettare che permetteva agli dei di rimanere immortali. Si narra, in uno dei pochi episodi che la riguardano, che Eracle, per divenire immortale, dovette sposarla. Durante uno dei suoi servizi Ebe cadde malamente, mostrando a tutti le sue parti intime. Le divinità scoppiarono a ridere così Ebe si rifiutò di servirli, mai più. Al posto di Ebe subentrò Ganimede un giovane amato da Zeus con tutti i sottintesi connessi. Della famosa statua di Antonio Canova esistono quattro versioni: ce ne è una anche a Forlì, nei Musei di San Domenico. Questa scultura venne commissionata nel 1816 dalla contessa Veronica Zauli Naldi Guarini per decorare una sala del palazzo di famiglia, Palazzo Torelli Guarini, situato in corso Garibaldi 94, a Forlì. Nel 1887, esattamente cinquant’anni dopo la morte della contessa, gli eredi Guarini vendettero la splendida scultura all’amministrazione comunale della città. Al tempo, l’acquisto avvenuto con denaro pubblico e considerato improduttivo, creò un grande scandalo soprattutto nelle file dei socialisti, i quali chiesero la cessione dell’Ebe a prezzo di realizzo. Fortunatamente   ciò non avvenne e la scultura nel 1888  fu esposta nella pinacoteca civica. L’Ebe forlivese è la stessa fanciulla che Canova aveva già riprodotto in altri 3 esemplari, ognuno dei quali si differenziava dagli altri per qualche variante che lo rendeva unico. La prima Ebe fu scolpita nel 1796 per il senatore Albrizzi di Venezia; la seconda nel 1801 per l’imperatrice Giuseppina, fu acquistata dall’imperatore delle Russie, oggi all’Hermitage; la terza nel 1814 per lord Cawdor. L’opera fu creata da Canova per essere ammirata da ogni lato, per questo il basamento di legno su cui poggiava fu dotato di un meccanismo che permetteva la rotazione. Non era facile ottenere una scultura da Canova, anche se si aveva il denaro sufficiente, ma di Forlì era il segretario particolare di Antonio Canova: Melchiorre Missirini, che avrà fatto sicuramente da tramite. E’noto che possedere una statua di Antonio Canova, fra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, era come ottenere una patente di nobiltà. Fu così che l’affascinante contessa nel 1816 acquistò la scultura. La contessa, rimasta vedova presto, si risposava a Firenze nel 1818, col conte Guicciardini ed il Canova inviava la statua a Firenze. L’Ebe arriverà a Forlì, solo nel 1841. Nonostante la bellissima ed esaustiva Mostra tenutasi a Forlì sul Canova, non molto tempo fa, non molti sanno che nella città ci sono altri capolavori dell’artista di Possagno. Per Forlì, Canova creò tre capolavori. Come abbiamo già visto la famosa scultura della contessa, ma prima vi era stata la richiesta a Canova, da parte del ricchissimo banchiere di Forlì Domenico Manzoni, della “Danzatrice col dito al mento”. La statua è pronta nel 1814, ma resta per tre anni nell’atelier del Canova, in quanto Domenico Manzoni è vittima di un efferato delitto nel maggio del 1817, mistero che rimane tutt’oggi insoluto. La vedova, causa difficoltà economiche, vende la scultura nel 1830 ad un principe russo e oggi, nonostante ricerche la scultura risulta introvabile. La vicenda verrà nobilitata da Canova nella bellissima  stele funeraria a Domenico Manzoni, ancora conservata nella chiesa della Santissima Trinità. La stele raffigura il mesto dolore di una donna con la testa appoggiata alla mano, piena di sofferenza ma allo stesso tempo di dignità. Canova riesce a far sentire l’urlo represso della donna. Inoltre tramite Melchiorre Missirini, per donazione, è pervenuto alla città di Forlì, un prezioso taccuino dell’artista con disegni nei quali spesso è possibile ravvisare lavori poi concretamente realizzati.

immagine:Ebe di Canova, Musei Civici Forlì

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 26/01/2015

 

 

 

 

Domenico Manzoni: un delitto senza colpevoli

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Domenico Manzoni, patriota, amante dell’arte o maneggione, nasce a Faenza nel 1775. E’ un acceso giacobino, è caratterizzato da intransigenza nella difesa dei valori repubblicani, tanto da essere condannato in contumacia al ritorno degli austriaci papalini, dopo l’intermezzo della Rivoluzione francese. Si rifugia a Forlì dove ottiene alte cariche, è affiliato alla Loggia massonica Reale Augusta e prosegue la sua attività di carbonaro nei primi tempi della restaurazione. Poi si arricchisce col commercio di granaglie e con speculazioni bancarie, accumula un enorme patrimonio. Non è amato dal popolo che lo incolpa di affamarlo aumentando il prezzo delle derrate alimentari né dagli amici cospiratori, che ha abbandonato, che lo accusano di spionaggio. Il 26 maggio del 1817, mentre si sta recando a teatro, viene pugnalato al ventre; muore dopo due giorni. I sospetti ricadono sulla carboneria forlivese ma il delitto resterà impunito.  Manzoni  sarebbe stato vittima di un regolamento di conti interno al mondo della carboneria, rivalità fra le varie logge o forse perché fece i nomi di qualche carbonaro in cambio di privilegi da parte del governo. Nel 1824 un delatore confida alla polizia che Manzoni è stato ucciso dai carbonari Vincenzo Rossi e Pietro Lanfranchi. Il Manzoni commissionò ad Antonio Canova la statua: “Danzatrice col dito al mento” opera che arriva alla famiglia solo dopo la sua morte. La vedova la vende ad un principe russo e poi se ne perdono le tracce. Per capire cosa si è perso è bene immaginarsi la Danzatrice di Canova di Torino nella Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, la fanciulla di marmo ha il capo reclinato, sorretto dall’indice, i capelli raccolti, le vesti lievemente trasparenti e mosse, la giovane ha l’altra mano appoggiata al fianco e al braccio una coroncina di fiori marmorei. Il sepolcro del banchiere sarà donato da Canova alla vedova, il fine e delicato capolavoro si trova nella chiesa della Santissima Trinità a Forlì, dove si conservano anche la tomba del famoso pittore Melozzo da Forlì e il reliquiario tardo cinquecentesco d’argento che contiene la testa di San Mercuriale. Se Manzoni sia stato un delatore o un uomo capace e nobile non si saprà mai, ma il suo nome sarà per sempre legato all’arte, sia perché il suo sepolcro è un capolavoro,  sia perché la “Danzatrice col dito al mento” è anche detta “Danzatrice Manzoni”.

immagine: Lastra tombale di Domenico Manzoni, Canova
articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 26/01/2015

Le donne dell’ Impero

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La storia di Ravenna splende di figure femminili. Mi piace raccontarvi di due donne meno conosciute ma dalla storia affascinante che con le loro “mosse politiche” hanno causato le due invasioni barbariche più  famose: quella di Attila con gli Unni, e quella di Genserico coi Vandali. Sono donne della famiglia imperiale: Eudossia ed Onoria.  Onoria (417/455) nasce a Ravenna, è figlia di Galla Placidia e sorella di Valentiniano III imperatore romano d’occidente. Nella primavera del 450 inviò ad Attila una richiesta d’aiuto, insieme al proprio anello col sigillo imperiale. L’invio dell’anello celava ovviamente un‘offerta di matrimonio. Onoria era stata segregata in convento dopo la scoperta della sua relazione con un ciambellano di corte, il ragazzo era stato mandato a morte  e Onoria in monastero. Onoria  doveva essere certamente adirata col fratello ed avercela col mondo intero, nella sua mente già si vedeva regina  dei Barbari, come un tempo lo era stata la madre. Attila è presentato nella saga dei Nibelunghi come un eroe mentre è il flagello di Dio per i Romani, nacque nel Caucaso intorno all‘anno 406. Orfano di padre fin da bambino, secondo il costume unno imparò ad andare a cavallo prima ancora di camminare. Sembra che Attila abbia soggiornato da ragazzo a Ravenna, come ostaggio, sino ai vent’anni, qui imparò il latino e il disprezzo  per il clima decadente dell’impero, lui era forse crudele ma mai viscido ( Valentiniano III ad esempio uccise a tradimento il generale Ezio che gli aveva salvato il trono). Onoria era una bambina al tempo ma forse le sarà rimasto impresso la forza indomita dell’Unno che piaceva alle donne: alcuni raccontano che ebbe numerose  mogli e amanti e più di cento figli. Ma torniamo all’anello ricevuto da Attila da parte di Onoria, Attila accettò subitamente, offrendo molto oro in cambio della dote della sposa, che quantificava in territori molto vasti: la Germania, la Gallia, la Spagna e la Pannonia. Immaginatevi l’astio di Valentiniano III, che fu calmato un poco dalla madre Galla Placidia, avrebbe voluto strozzare Onoria, si limitò ad inviare un messaggio ad Attila, in cui disconosceva assolutamente la legittimità della presunta proposta matrimoniale. Attila, per nulla persuaso, inviò un’ambasciata a Ravenna per affermare che Onoria non aveva alcuna colpa, che la proposta era valida dal punto di vista legale e che sarebbe venuto per esigere ciò che era un suo diritto. Infatti con le sue orde discese in Italia dove fu fermato dal Papa Leone I. L’altra figura è Eudossia (422/493) moglie di Valentiniano III e perciò cognata di Onoria. Valentiniano III non è ricordato come un grande imperatore, sembra fosse po’ imbelle, forse era stato troppo all’ombra della madre Galla Placidia, fu ucciso a tradimento come era solito fare lui. Il mandante e pretendente al trono imperiale, Petronio Massimo, impedì ad Eudossia di portare il lutto per il marito obbligandola subitamente di sposarlo, non perché innamorato di Eudossia, ma per avere più chance per il trono. Eudossia se la legò ad un dito e chiese aiuto ad un altro barbaro: Genserico re dei Vandali. Genserico pare avesse avuto la promessa da parte di Valentiniano III di un’unione fra i loro figli, quindi non tollerava Petronio Massimo come imperatore. Genserico accettò  l’invito di Eudossia e arrivò a Roma  con il suo esercito. Sebbene la storia parli di un violento saccheggio da parte dei vandali (da cui la parola vandalismo), in realtà con Genserico non vi furono né eccidi, né incendi e rispettarono le chiese cristiane, ma saccheggiarono tutte le cose di valore. Dopo quattordici giorni di razzie, i Vandali ripartirono portando con loro Eudossia, con le figlie Eudocia e Placidia. Eudocia divenne sposa del figlio di Genserico, ma appena le fu possibile fuggì a Costantinopoli. Petronio Massimo tentò di  fuggire  ma fu preso, ucciso e buttato nel Tevere. Beh mi sembra sufficiente due dei saccheggi più famosi per barbarie, causati da donne “romagnole”, come dire non fateci arrabbiare altrimenti…

immagine: Medaglione con Galla Placidia, Onoria e Valentiniano III

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 19/01/2015

Livio Agresti, colori, manierismo e storie di miracoli

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Livio Agresti, valido pittore di Forlì (1505/1579) è stato uno tra i maggiori esponenti del Manierismo, dai colori luminosi e dalle belle e maestose figure. Ha lasciato molti lavori nella sua città, quasi tutti custoditi ai Musei San Domenico, fra questi “Il Miracolo dell’ostia”, un affresco staccato,chiamato anche “Il Miracolo di Bolsena” ed eseguito tra il 1540e il 1580 per il Duomo di Forlì. L’affresco presenta l’interno di una costruzione, riconoscibile come una chiesa affollata. Chi è inginocchiato, chi in piedi, un diacono con un crocifisso astato, il sacerdote col manto color oro e una tiara decorata che lo fa sembrare un papa, assistono al miracolo dell’ostia che sanguina. Molto bella la poderosa figura, in primo piano, vista da tergo dalla tunica bianca, il manto dorato cangiante e dai bei panneggi. A Bolsena, nel 1263, durante l’Eucaristia, apparve al sacerdote, che dubitava della trasformazione dell’ostia e del vino, un prodigio. L’ostia era diventata carne da cui stillava sangue. A seguito di questo miracolo, nel 1264, Urbano IV decretò la festa del Corpus Domini e venne edificato il Duomo di Orvieto, dove è conservato il reliquiario che contiene l’ostia. L’opera di Livio Agresti potrebbe anche raffigurare il miracolo dell’Eucarestia di Bagno di Romagna, accaduto nel 1412. Un monaco mentre celebrava la messa fu assalito dal dubbio sulla reale presenza di Cristo nell’Elevazione. Il vino si trasformò in sangue e cominciò a bollire, tanto da fuoriuscire dal calice e macchiare il corporale. La reliquia del miracolo venne inserita in una teca argentata. Nel giorno del Corpus Domini, a Bagno, si commemora l’evento con una festa ed una processione. Un miracolo eucaristico è quando vi è trasformazione dell’ostia consacrata in carne e/o del vino in sangue, oppure prodigi di vario genere che sarebbero legati ai Santi o anche guarigioni avvenute durante la processione con il Santissimo Sacramento ed altro ancora. La Chiesa cattolica riconosce come realmente accaduti numerosi episodi di questo tipo, la scienza ha invece proposto una possibile spiegazione, che coinvolge un diffuso batterio. Il dogma della Transustanziazione fu decretato dal papa nel 1215, il primo miracolo avvenne a Lanciano nel 700, l’ostia e il vino si mutarono in carne e sangue durante una messa celebrata da un monaco che dubitava della presenza reale di Cristo.

immagine: Miracolo dell’ostia di Livio Agresti

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 19/01/2015

La calma e la spiritualità e i santuari di Covignano

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“Rimani su” è l’anagramma di Ariminus , l’antico nome di Rimini. Senza nulla togliere alla bellezza della città, della spiaggia e del mare, nella “Rimini su”, volendo anche con una passeggiata, c’è un percorso segnalato, troviamo il colle di Covignano  (letteralmente collina delle vigne). Senza bisogno di fare tanti chilometri per andare in India, qui si respira calma e spiritualità, una Rimini tranquilla col Santuario dedicato alla Madonna delle Grazie, il Museo degli Sguardi  e la Chiesa di S.Maria in Scolca. Il Santuario delle Grazie sorge sul colle di Covignano , si narra che un pastorello entrò nel bosco e rimase colpito da un albero che sembrava avesse fattezze umane, decise di tagliarlo per farne una statua in onore della Vergine, ma non riusciva a realizzarla quando fu avvicinato da due angeli che completarono l’opera e poi l’invitarono a metterla su una barca nel mare. La barca arrivò a Venezia e si fermò davanti alla chiesa di San Marziale, dove ancora oggi c’è una cappella in cui si venera la Madonna di Rimini. La statua di Rimini se ne sta là a Venezia in San Marziale fra opere di Tiziano e di Tintoretto. I veneziani raccontano così la leggenda: nel 1286 fu ritrovata, trasportata dalle acque, un’immagine della Vergine con il Bambino, scolpita da un certo Rustico da Rimini, il cui volto fu intagliato da angeli. Il legno giunto nei pressi di San Marziale vi fu collocato  solennemente, dopo un evento miracoloso. La devozione popolare si diffuse e continuò nei secoli. A Covignano sin dal 1286 esisteva una  cappella in onore della Vergine. Nel 1391 fu eretta una chiesa con piccolo convento, affidata ai francescani. Nel 1578 accanto alla primitiva chiesa ne venne costruita una seconda assai più grande. La facciata della chiesa presenta un aggraziato portico. La prima chiesa è dedicata alla Madonna delle Grazie, la seconda al Crocifisso. Notevole è il soffitto di legno a cassettoni dipinti a forma di carena di nave. All’interno della chiesa opere di Scuola giottesca e un’Annunciazione quattrocentesca. Ai piedi del colle una  croce di marmo indica l’inizio della Via Crucis: 14 edicole contenenti grandi pannelli in ceramica del maestro riminese Elio Morri, un percorso che prelude  al misticismo se si ha il cuore…“Potete visitare tutta la Terra, ma non troverete in alcun luogo la vera religione. Essa non esiste che nel vostro cuore”. (Ramakrishna)

 

immagine: Santa Maria delle Grazie, San Marziale, Venezia

Articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 12/01/2015

Cagnacci romagnoli

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 Nella Pinacoteca civica di Forlì con il titolo di “Fiasca con fiori” attribuita un tempo a Guido Cagnacci, vi è un’opera misteriosa, giudicata da Antonio Paolucci  il “Quadro più bello del mondo”  però non si sa chi sia l’autore. Adesso ha un nuovo titolo: “Fiori in una fiasca impagliata”, viene datata al 1625-1630 e attribuita al “Maestro della Fiasca di Forlì”. Di Cagnacci non può proprio essere, il romagnolo aveva uno stile sfumato ed aereo, mentre chi ha dipinto la “Fiasca” viaggiava sullo stile caravaggesco, ma se gli studiosi un tempo lo avevano collegato col Cagnacci qualche congruenza doveva esserci, forse era un suo quadro dipinto sotto la supervisione del suo maestro. Guido Cagnacci nasce a Santarcangelo nel 1601, da famiglia benestante. Si trasferisce con la famiglia a Rimini, ma ha l’animo inquieto, la città non gli basta. Va a Bologna e impara l’arte coi Carracci, da qui forse nasce l’attribuzione della celebre “Fiasca”, non può sfuggire la somiglianza con “Il Mangiafagioli” di Annibale Carracci. Da Bologna decide di andare a Roma,dove condivide l’appartamento col Guercino. A Roma apprende il naturalismo barocco, sfumato “alla francese” di Vouet. Torna a Rimini dove fa una promessa scritta di matrimonio con la Contessa Teodora Stivavi, appena vedova, di nascosto, perché i matrimoni tra ceti diversi a quell’epoca non erano ammessi; furono scoperti, nonostante la Contessa fosse andata all’appuntamento vestita da uomo, lui si rifugiò nella chiesa di S. Giovanni Battista mentre lei fu rinchiusa nel convento e processata dalla congregazione dei vescovi. Da questo evento inizia la diaspora di Cagnacci, fra viaggi, donne e soprattutto intestardito di far valere la sua promessa di matrimonio scritta, non si capisce se follemente innamorato, ma non credo, testardo come un mulo o attratto dal titolo nobiliare, comunque sia era ben bizzarro. Nel 1637 decora la cappella della Madonna del Fuoco a Forlì, ma le commissioni religiose cessano, il pittore da scandalo, è costretto così ad arrangiarsi con soggetti femminili poco vestiti. Viene chiamato alla corte di Vienna dove muore nel 1663. L’arte è sempre mistero e Cagnacci oltre all’enigma della “Fiasca” ce ne regala un altro: “Il Ritratto di giovane frate” che si trova ai Musei Civici di Rimini. Questo quadro ritrae un giovane frate dagli occhi ardenti  che durante gli anni ha subito delle modificazioni , non si sa se per damnatio memoriae o meno. Dietro le sue spalle si trovano pesanti libri di carattere religioso, mentre precedentemente trattavano temi scientifici, inoltre in alto a sinistra appariva il nome del religioso. Raffigurato di scorcio, guarda lo spettatore con accesa intelligenza, davanti a sé un teschio come memento mori, ha una stola con croci che lo fanno abate. Chi era? E perché prima fu ritratto con mezzi e strumenti scientifici, poi cancellati? Possiamo ipotizzare che il frate sia un gesuita, nel 1627 erano già presenti a Rimini, Cagnacci realizzò per la loro chiesa un dipinto che raffigurava i primi Santi gesuiti del Giappone. I gesuiti furono fondati da Sant‘Ignazio di Loyola nel 1540 e divennero molto presto uno dei grandi ordini della Chiesa cattolica. Convinti dell’importanza dell’istruzione, diedero vita a una rete di scuole in tutta Europa, da cui uscirono le menti più fervide. I gesuiti erano ottimi insegnanti: Giuseppe Biancani di  Bologna era un gesuita e un astronomo insegnò matematica a Parma; avversario del sistema eliocentrico, polemizzò con Galileo negando la montuosità della Luna. Suo allievo fu un altro eccellente astronomo ed anche gesuita di Ferrara: Giovanni Riccioli che dedicò il nome del suo maestro al cratere lunare Blancanus nel 1651.  Per tanta sapienza e per la loro grande capacità organizzativa divennero molto potenti e nel corso del Settecento l’ostilità verso di loro fu molto dura e causò  la soppressione dell’ordine nel 1773. Ecco che forse per un dispetto al frate probabile gesuita gli sono stati tolti i simboli della conoscenza scientifica lasciandogli solo quelli teologici. La Compagnia di Gesù fu ricostituita nel 1814 e riacquistò in breve tempo un ruolo centrale nel mondo cattolico.

immagine: “La Fiasca” Musei San Domenico, Forlì

Articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 12/01/2015

la storia e i misteri di Santa Maria Annunziata Nuova

f_Abbazia Santa Maria di Nuova Scolca

Il complesso dell’Abbazia di Santa Maria Annunziata Nuova di Scolca (oggi parrocchia di San Fortunato) fu edificato nel 1418 grazie ad una donazione effettuata da Carlo Malatesta (signore di Rimini dal 1385 al 1429). La chiesa ed il convento furono inizialmente  affidati agli agostiniani, poi il complesso passò ai monaci benedettini di Monte Oliveto Maggiore. Il grande monastero appartenne a lungo agli olivetani (i monaci dal saio bianco), sorgeva sul colle di Covignano. Nel 1512 nel monastero attiguo alla chiesa fu ospitato il pontefice Giulio II. Nel 1547 fu ospite il pittore Giorgio Vasari, che mentre gli eruditi olivetani gli correggevano il suo famoso manoscritto: “Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti”, il pittore con gli aiuti di bottega affrescava l’abside con una splendida, luminosa ed esotica Adorazione dei Magi, con il  sontuoso Re Magio nero. Gli olivetani ressero l’abbazia e tutti i suoi possedimenti fino al 1797 quando furono allontanati a causa delle soppressioni napoleoniche. La Seconda Guerra Mondiale causò gravi danni a tutto il complesso, in parte non più ricostruito. La parola Scolca significa vedetta, sarà per questo, sarà che il territorio di Rimini è tutto bucherellato come il formaggio groviera, ma si narra una leggenda che ha come protagonisti i “frati bianchi”e le loro gallerie misteriose. La leggenda risale al Medioevo parla di frati che scendevano di notte fino in città attraverso gallerie e sbucavano in piazza nientemeno che… per rapire le fanciulle! I frati ghermivano le giovani per farle vestire i panni della Vergine, le drogavano in modo che non rammentassero nulla poi le restituivano alla famiglia. Una notte ritornando con una fanciulla scoprirono che aveva i capelli rossi. L’Abate allarmato disse a loro: “Basta con questa  tradizione che dura già da troppi anni. Iddio ha voluto che sceglieste la giovine sbagliata per avvisarvi del suo  dispiacere. Questo è un funesto presagio…i capelli rossi sono il simbolo delle forze del male. Un simile affronto proprio dentro le nostra mura  portatela via! Per la rappresentazione useremo una statua e da ora in poi  tutto si svolgerà alla luce del sole, ma soprattutto sotto gli occhi di Dio”. Pare che esista realmente una serie di gallerie sotterranee che partono dalla zona del Santuario Mariano a Covignano e arrivano fino a Piazza Cavour a Rimini.

immagine: S:Maria Annunziata Nuova, Rimini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 29/12/2015

 

Compagnia del cappelletto, buongustai? No, soldati

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Ho letto su un quotidiano che il piatto tipico del Natale in Emilia-Romagna sono i tortellini. Forse in Emilia sì, ma in Romagna, lo sanno bene anche i capponi, il giorno di Natale si mangiano i cappelletti in brodo. La prima grande differenza è che il tortellino ha la forma rotonda e schiacciata. Si narra che un cuoco abbia preso ispirazione dall’ombelico della dea Venere o da quello di una marchesina bolognese. I cappelletti invece hanno la forma di un cappello con la “testa grossa”, inoltre il ripieno, chiamato battuto o compenso non è a base di carne, come il tortellino, ma di formaggio; anche se sul ripieno c’è una specie di lotta fra azdore. Il primo documento ufficiale in cui compaiono i cappelletti, ovvero il Censimento Napoleonico del 1811, non viene inclusa la carne tra gli ingredienti del ripieno. I sostenitori del ripieno con la carne fanno riferimento a Pellegrino Artusi che, nella ricetta dei “Cappelletti all’uso di Romagna”,inserisce nel compenso la carne, ma l’Artusi pubblicò la sua opera oltre vent’anni dopo essersi trasferito in Toscana e forse qualcosa aveva dimenticato. Nel ‘500 sia Cristoforo da Messisbugo che Bartolomeo Scappi, famosi cuochi che scrissero trattati sul cibo, citano entrambi il cappelletto, vuoi per descriverne la forma che per prescriverne il “battuto” o “compenso”. Questa pasta tipica della Romagna è diffusa anche nel Reggiano, nelle Marche fra Pesaro e il Montefeltro, ci si contende un poco la provenienza. Da dove ha origine allora il cappelletto, a cosa si sarà ispirato il primo cuoco? Vi propongo un’ipotesi. Nel territorio di Pisa nel 1362 ebbe inizio l’avventura della Compagnia del Cappelletto. I mercenari assoldati da Firenze, causarono un grande scandalo. Niccolò da Urbino, Ugolino de’ Sabatini di Bologna, e Marcolfo de’ Rossi da Rimini, uomini di grande animo e seguito, pretesero dopo aver “battuto” i senesi doppio “compenso”, i fiorentini rifiutarono. A questo punto  Niccolò, Ugolino e Marcolfo misero il loro cappelletto, copricapo senza visiera ben bombato, sulla lancia, dicendo che chi voleva compenso doppio eseguisse il medesimo gesto. In poco tempo mille uomini misero il cappelletto sulla lancia. Si radunarono e crearono l’esercito che titolarono la  Compagnia del Cappelletto, la prima compagnia italiana. Irreale? Ricordatevi che il singolare della nostra pasta è cappelletti.

immagine: cappelletti in brodo

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22/12/2014