Dal 23 giugno al 1 luglio, Forlimpopoli festeggia Pellegrino Artusi il cuoco più famoso al mondo! Ma perché se ne andò in esilio a Firenze?

Dal 23 giugno al 1 luglio, Forlimpopoli festeggia Pellegrino Artusi il cuoco più famoso al mondo! Ma perché se ne andò in esilio a Firenze?

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 26 Giu 2018, 11:49

 

 Forlimpopoli è situata lungo la Via Emilia tra Forlì e Cesena, il toponimo deriva da forum Popilii, riferendosi ad un mercato ed alla Gens Popilia. Fondata dai Romani nel II secolo a.C., nel Medioevo fu frequentata dai pellegrini diretti a Roma. Periodo di cui si conserva la Rocca Albornoziana, a pianta quadrata che domina la piazza principale. Costruita verso la metà del XIV secolo sulle rovine dell’antica cattedrale, la Rocca ospita il municipio. Mentre nei suoi sotterranei ha sede il Museo Archeologico “Tobia Aldini”, con manufatti e reperti paleolitici, romani e medioevali.

Sempre nella piazza principale da visitare è la Chiesa dei Servi.Costruita verso la metà del XV secolo, presenta un interno ricco di decorazioni e dipinti di pregio. Tra cui una pala dell’Annunciazione dipinta da Marco Palmezzano. La località è nota soprattutto per aver dato i natali al famoso letterato e gastronomo Pellegrino Artusi, (Forlimpopoli 1820-Firenze 1911), tanto da definirsi Città Artusiana. Artusi come Dante, in uno specchio che rovescia l’immagine, lo dobbiamo dividere con Firenze. Visse per trent’anni a Forlimpopoli e per sessanta a Firenze, città dove scrisse il famoso trattato di gastronomia La Scienza in Cucina e l’Arte di Mangiar Beneedita nel 1891.

Il libro di “cucina”, più famoso al mondo, che fu considerato importante anche per la diffusione della lingua italiana, un tempo facente parte del corredo nuziale delle spose, che ancora oggi non perde il suo smalto, conta più di 130 edizioni con milioni di copie vendute, in prossima uscita anche in Giappone. Pellegrino nacque da famiglia benestante. Studiò prima nel seminario di Bertinoro e poi all’Università di Bologna. Senza però arrivare a raggiungere la laurea (altra analogia con Dante),  aiutando il padre Agostino nella gestione dell’affermata drogheria di famiglia.

Ma il 25 gennaio 1851, nella placida cittadina romagnola avvenne il fattaccio. L’incursione della banda di Stefano Pelloni detto il Passatore (dal mestiere del padre, traghettatore ovvero passatore del Lamone), a seguito della quale Pellegrino e la famiglia rimasero traumatizzati. L’assalto avvenne al teatro locale, dove tutte le famiglie benestanti stavano assistendo a uno spettacolo. I briganti presero in ostaggio i presenti, obbligandoli a consegnare denaro e gioielli. Pelloni e i suoi evidentemente erano ben informati, perché si resero conto che la facoltosa famiglia degli Artusi non era in sala. Si recarono così alla loro casa, portando, sotto minaccia, un amico di famiglia, tale Ruggero Ricci.

Agostino, fidandosi dell’amico Ruggero, scese ed aprì la porta. La banda era assai numerosa, una quindicina di briganti, devastarono la casa e picchiarono gli Artusi. Due delle sorelle, riuscirono a mettersi in salvo nascondendosi, mentre un’altra sorella venne violentata. A seguito ciò la ragazza non si riprese più, tanto da cadere nel buio della pazzia. Gli Artusi lasciarono Forlimpopoli per sempre, vendettero casa e drogheria, trasferendosi a Firenze. Sposate le sorelle e morti i genitori, a cinquant’anni, Pellegrino poté vivere di rendita, grazie alle tenute che la famiglia possedeva in Romagna (a Borgo Pieve Sestina di Cesena e a Sant’Andrea di Forlimpopoli), conducendo una vita tranquilla.

Non si sposò mai, appassionandosi alla sperimentazione di ricette, cercando sempre di riutilizzare gli “avanzi”. Perché il cibo non si doveva sprecare mai, assieme a un cuoco romagnolo: Francesco, a una cuoca toscana, la Marietta, e ai suoi due amati gatti. Morì, a 90 anni. Riposa nel cimitero di San Miniato al Monte. Lasciò parte dell’eredità al natio Comune di Forlimpopoli per opere sociali. Forlimpopoli non lo ha mai dimenticato, in città vi sono una statua, un busto, una strada, un istituto alberghiero e la biblioteca intitolate all’Artusi. Oltre al Museo Casa Artusi che raccoglie documenti e cimeli della storia della cucina casalinga italiana.

Inoltre dal 1997 il comune di Forlimpopoli, organizza la “Festa Artusiana”, manifestazione dedicata alla gastronomia. Tra gli eventi principali vi sono: l’assegnazione del “Premio Pellegrino Artusi” e il “Premio Marietta”. Con la “Festa Artusiana”, Forlimpopoli si trasforma nella capitale del “mangiar bene” con un ricco programma di spettacoli, mostre ed eventi culturali. Dal 23 giugno al 1 luglio, non mancate. La “Festa Artusiana” vi aspetta!

Paola Tassinari

Redazione Romagna Futura

Redazione Romagna Futura

‘In a Blink of a Night’: 100 chitarre elettriche al Palazzo di San Giacomo a Russi, faranno rivivere venerdì la Versailles di Romagna

‘In a Blink of a Night’: 100 chitarre elettriche al Palazzo di San Giacomo a Russi, faranno rivivere venerdì la Versailles di Romagna

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cronaca RomagnaCultura Romagna, del 19 Giu 2018, 12:25

La Famiglia Rasponi non aveva mai abitato in campagna. Chissà come mai al conte Guido Carlo Rasponi, venne in mente di costruirsi un palazzo enorme, in mezzo alla campagna. Talmente grande da essere chiamato la “Versailles di Romagna”. Forse fu per celebrare, il fratello maggiore, il cardinale Cesare Rasponi, illustre alto prelato; che quando Papa Urbano VIII morì e i Barberini, filofrancesi, caddero in disgrazia, si recò in Francia per ricucire gli strappi politici.

A Parigi, fece amicizia con la regina e il cardinale Giulio Mazzarino. A tal punto che a Cesare Rasponi fu chiesto di rimanere in Francia e gli fu offerta una pensione generosa. Scrisse al ritorno a Roma nel 1650, un Diario ricco di annotazioni di quel viaggio. Il cardinale Cesare fu autore di varie opere letterarie e fu un religioso misericordioso. Al punto di lasciare gran parte dei suoi beni a un’opera di bene fondata dal sacerdote concittadino Francesco Negri. (Quest’ultimo è stato un esploratore e naturalista italiano, che viaggiò sino a Capo Nord). All’epoca si narrava che, se non fosse incorso in una morte prematura, probabilmente sarebbe divenuto papa.

Alla Biblioteca Classense di Ravenna, un dipinto ad olio di Andrea Barbiani, raffigura il cardinale Cesare Rasponi seduto su un seggiolone con alto schienale, con indosso la mozzetta rossa su un candido camice merlettato. Col volto girato di lato, lo sguardo intenso, un poco strabico, con baffi e pizzo alla d’Artagnan e lunghi capelli scuri. Appare come una persona dal carattere pacato ma deciso. Nel 1664 il conte Guido Carlo Rasponi, fratello minore del cardinale Cesare Rasponi, acquistò la tenuta di Raffanara, sita nella campagna ravennate, a circa 2 km dall’abitato di Russi.

Nella tenuta vi erano due edifici, una chiesa dedicata a San Giacomo, e le rovine di un castrum. I Rasponi edificarono la loro residenza estiva sulle rovine dell’antico castello. Il Palazzo è ubicato sotto il fiume Lamone, in un grande spiazzo, in mezzo alla campagna e conserva un bel viale di accesso alberato. Conosciuto anche come “Palazzaccio” o “Palazzo delle 365 finestre”, è veramente imponente, presenta una facciata lunga quasi ottantacinque metri, alta quindici e conclusa da torri di venticinque metri.

Conserva all’interno una serie di affreschi a tema mitologico e allegorico che costituiscono il più vasto ciclo pittorico del Sei-Settecento presente in Romagna. Nella sala dedicata al cardinale Cesare Rasponi, affreschi di Cesare Pronti e di Filippo Pasquali, col ciclo delle divinità rappresentanti i giorni della settimana (Saturno, Mercurio, Giove, Venere, Marte, Luna). Le sale sono affrescate con allegorie dei segni zodiacali. La saletta centrale con l’allegoria delle quattro parti del mondo all’epoca conosciute: al centro del soffitto è dipinto il sole, ai quattro angoli Europa, Asia, Africa e America, con i loro simboli identificativi. Nella saletta della Torre Nord è raffigurata la simbologia dell’Amore; la sala dell’alcova presenta gli affreschi di Zeus e Venere.

Nel 1757 venne aggiunta la cappella esterna, dedicata a San Giacomo, poi ristrutturata da Cosimo Morelli. Durante il Risorgimento il palazzo diventò nascondiglio dei rivoluzionari e sede di riunioni clandestine. La famiglia Rasponi cessò di utilizzare la residenza dopo il 1880, mantenere un’architettura così mastodontica doveva avere costi molto alti. All’inizio del XX secolo furono distrutti il giardino all’italiana e molti elementi architettonici del palazzo. La proprietà passò alla Diocesi di Faenza e fu smantellata, da ignoti, di tutti gli arredi e le suppellettili.

Dal 1975 è proprietario il Comune di Russi; dopo un periodo di degrado, ha ricevuto importanti interventi di restauro grazie a finanziamenti europei, statali, regionali, comunali e di privati. Si narra che il pittore Mattia Moreni, negli anni ‘70, durante i suoi soggiorni estivi a Russi, dipingesse dentro a queste grandi camere. Muovendosi lungo i corridoi e le innumerevoli stanze con una bicicletta. Con gli importanti lavori di messa in sicurezza e restauro, dal 2006, è diventato un luogo perfetto per appuntamenti speciali di Ravenna Festival.

Venerdì 22 giugno, ore 21:30, si terrà lo spettacolo “In a Blink of a Night”cento chitarre elettriche in concerto, lampeggeranno e strideranno, un’occasione da non perdere. Show organizzato da Rockin’1000, l’evento nato a Cesena che ogni anno vede radunarsi mille musicisti e cantanti che lo hanno reso famoso in tutto il mondo, in collaborazione con Ravenna Festival. Euro 15, posto in piedi.

Paola Tassinari

Russi, espressione romagnola di una storia millenaria. E quell’origine del nome….

Russi, espressione romagnola di una storia millenaria. E quell’origine del nome….

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 30 Mag 2018, 14:19

Russi è una piccola e placida città della Romagna, situata fra Lugo e Ravenna, con la piazza centrale, le chiese, i resti della rocca e due gioielli architettonici, la Villa Romana e il Palazzo di San Giacomo. Nota a molti per la tradizionale “Fira di Sett Dulur”, una delle più antiche feste di tutta la Romagna, che si tiene la terza domenica di Settembre. La Villa Romana, scoperta grazie a un caso fortuito, è uno dei ritrovamenti romani più importanti e meglio conservati del nord Italia; nel 1969, si ritrovarono, sotto la pavimentazione, due tombe con corredo funebre, databili tra fine VII e inizio VI secolo a.C. Appartengono a due salme, un guerriero e un altro personaggio e testimoniano una presenza antichissima.

Nel Trecento i “Da Polenta”, importante famiglia ravennate, vi edificò un fortilizio. Rivestì, nel Basso Medioevo, un ruolo molto importante, nelle lotte per la supremazia nel territorio romagnolo. Lotte che impegnarono, tra gli altri, i Manfredi, la Repubblica di Venezia e lo Stato della Chiesa. Nel XVI secolo, la città ebbe grandi sofferenze, prima passò il Borgia con le sue milizie. Poi nel 1512, il passaggio delle truppe franco-ferraresi guidate dalla “Folgore d’Italia”. Così era chiamato il famoso Gastone de Foix, un personaggio che fu molto osannato, forse perché, aitante e spavaldo, fisicamente assomigliava ad Alessandro Magno. Morì giovanissimo nella Battaglia di Ravenna, ultimo scontro cavalleresco. Ciò ha lasciato ai posteri un alone mitologico, in realtà, Gastone, fu crudele e saccheggiò molte città.

A Russi, il Foix, devastò il paese, trucidando la popolazione. Pochi anni dopo, nel 1527, la città fu sottoposta a nuovi saccheggi da parte dei Lanzichenecchi, in marcia verso Roma. Nel Settecento, si ebbe la trasformazione che conduce alla Russi dei giorni nostri. Nel XIX secolo Russi, fu un importante centro di azione risorgimentale, annoverando fra i suoi cittadini, grandi personaggi come Luigi Carlo Farini e Alfredo Baccarini. Curioso e significativo è il fatto che il toponimo sia rimasto praticamente invariato nei secoli.

Russi evoca la Russia e i suoi abitanti ma che c’azzecca il freddo Nord con la nostra città romagnola? “ET-RUSSKI, cosa lega russi ed etruschi?” è un libro, in cui Alberto Baschiera e Irina Hurkova, hanno tentato di rispondere a questa domanda, aprendo la ricerca a nuovi insospettati percorsi che potrebbero riscrivere totalmente la storia di questo popolo. Le origini del popolo etrusco sono ancora oggi controverse, misteriose, non chiare anche perché vengono chiamati con nomi diversi. Gli storici russi, gli esperti anglosassoni, la scuola romano-germanica sono solo alcune delle innumerevoli strade intraprese nei decenni per risolvere questo enigma. L’autore dopo essersi avvicinato alla cultura etrusca, ricerca alcuni aspetti riguardanti la lingua per coglierne elementi specifici e nuovi che pongono nuova luce su questo affascinante popolo.

È possibile che gli Etruschi fossero originari della Russia? Nella loro lingua, gli Etruschi, si chiamavano “Rasenna o Rasna. Rasenna, con significato di “diversi”, particolarità già riconosciuta dagli antichi. Il termine Rasnia o Rasenna, di cui non si conosce la pronuncia può avvicinarsi al termine “Rassiani” col quale si indicano oggi gli abitanti della Russia. In lingua russa esiste un termine “rasnia” con significato di “diversi”. Non risulta che ci fosse, prima di Cristo, una terra chiamata Russia. I Vichinghi, IX secolo, che con le loro lunghe navi, colonizzarono le coste e i fiumi in tutto il mondo allora conosciuto, come la Grecia, la Persia, Costantinopoli, Gerusalemme, l’Italia, Londra, l’Inghilterra e la Russia a cui hanno dato il nome.

Nel Baltico i Vichinghi erano chiamati rops, termine norreno che significa rematori, che passò alle lingue slave come Rus. Il termine Rhos è usato anche nelle fonti greche e bizantine, deriva dal norreno antico var, che ha significato di fratellanza. E’ possibile che ci sia un collegamento fra Russi e la Russia tramite gli Etruschi e successivamente coi Vichinghi? “L’archeologia non pone problemi da risolvere, ma misteri da vivere” (Kierkegaard).

Paola Tassinari

Redazione Romagna Futura

Redazione Romagna Futura

Viaggio nella tradizione culinaria della Romagna

Viaggio nella tradizione culinaria della Romagna

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cronaca RomagnaCultura Romagna, del 4 Giu 2018, 17:31

 

In Italia la tradizione culinaria è diversa, da regione a regione, è sicuramente una ricchezza in più. Diversi anche i gusti e i consumi di carne. Maiali, pecore e bovini non sono apprezzati ovunque allo stesso modo. In Romagna si apprezza la carne del maiale, però questo vale solamente appunto in Romagna. Diversamente dall’Emilia, dove si ha il trionfo della pecora e del castrato. La Romagna, la “terra dei romani”, come allora erano chiamati i bizantini, che si ritenevano i veri romani in quanto l’Impero Romano d’Occidente, era caduto.

La pecora era l’animale simbolo della tradizione romana. Il maiale, che i romani pure apprezzavano, era un simbolo alimentare delle genti germaniche. L’Emilia, occupata precocemente dai germani, in questo caso i longobardi, mentre la Romagna mantiene la tradizione bizantina/romana.

L’opposizione tra queste due culture si vede anche nel modo in cui vengono riempiti i cappelletti e i tortellini. Quest’ultimi con ripieno di formaggio e carne, si ispirano alla cultura del maiale. Mentre i cappelletti con ripieno di solo formaggio, fanno riferimento alla pecora come fornitrice di latte e formaggio. Nell’Alto Medioevo, lo scontro fra romani e barbari, si ha anche col tipo di alimentazione: la cultura del pane, del vino e dell’olio, simboli della civiltà agricola romana, si oppone alla cultura della carne, della birra e del burro, emblemi della civiltà barbarica e in particolare delle popolazioni germaniche, più legate all’uso della foresta che alla pratica dell’agricoltura.

Alla tradizione antica romana della misura, si sovrappone la cultura celtica e germanica del grande mangiatore come personaggio positivo. La misura nel cibo e nella vita degli antichi romani della repubblica, certo non coincide allo stile di quella imperiale romana, dove gli invitati approfittavano del cibo e del vino fino all’inverosimile, quello che non riuscivano a bere, mangiare e vomitare lo facevano gettare via dagli schiavi, ordinavano altro cibo con il solo scopo di vederselo servire, ma senza averlo neppure assaggiato lo facevano gettare a terra e calpestare dal viavai degli schiavi.

La presenza di tanti cibi che esaltavano i piaceri della vita, ma anche del vino dai cui eccessi spesso derivava una tristezza etilica, portava con sé anche una riflessione sulla morte, che costituiva spesso un tema rappresentato nei mosaici dei triclini (il triclinio era il locale in cui si pranzava, prese il nome dai tre cuscini, ovvero tre letti imbottiti su cui i padroni di casa e i loro ospiti si sdraiavano per tutta la durata del pranzo) nella forma di scheletri che portano anfore contornate da scritte che proclamano sentenze come “Godi, finché sei in vita, il domani è incerto”, “La vita è un teatro”, “Il piacere è il bene supremo”. Ma torniamo al convivio dei barbari del Medioevo , che era caratterizzato da una grande abbondanza di carni, poteva durare ore e addirittura giorni, allietato da danzatrici, musici, giocolieri.

Anche la posizione a tavola cambiò: dallo stare coricati sui letti, allo stare seduti sulle sedie. I due poli piano piano si avvicinarono, dando luogo a due prodotti principali giunti sino a noi, il pane e la carne. Se per la cultura romana il pane era il cibo ideale dell’uomo, per la cultura barbarica questo ruolo spettava alla carne. La tradizione del pane è giunta sino a noi, pensiamo ad esempio al coperto del ristorante che non è altro che il cestino del pane. Mentre per il consumo di carne, stanno aumentando i vegetariani, con ragioni morali più che nutrizionali. E se pensiamo a cosa accade al povero castrato prima di giungere sul nostro piatto, magari alla brace con contorno di pomodorini, i vegetariani non hanno tutti i torti.

Gli agnelli del gregge venivano prima castrati, poi fatti ingrassare dai pastori o anche dai contadini, ai quali venivano ceduti quale compenso per l’uso dei pascoli, per essere utilizzati come riserva di carne dalla famiglia. La castrazione si eseguiva per evitare che, avvicinandosi all’anno di età, la carne assumesse odori troppo forti. Inoltre, consentiva anche il pascolo di questi capi insieme al resto del gregge, senza il rischio di ingravidare le pecore presenti.

Paola Tassinari

Redazione Romagna Futura

Redazione Romagna Futura

Baccarini e la sua Bitta: “La Bohéme” romagnola

Baccarini e la sua Bitta: “La Bohéme” romagnola

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 12 Giu 2018, 16:56

Il dramma lirico de “La Bohéme”, di Giacomo Puccini, racconta la vita e le storie d’amore di giovani e poveri artisti. Siamo a Parigi, nel 1830, in una misera soffitta, quattro giovani conducono una vita dove spesso si digiuna, ma ricca d’amore e d’arte. Nell’opera si dipanano delle storie d’amore fra cui quella di Rodolfo e Mimi, che si conclude con la morte di quest’ultima.

Henri Murger scrisse, tra il 1847 e il 1849, “Scène del la vie de bohème”. Un’opera che si snoda attorno alla vita di un gruppo di giovani artisti lontani dalle convenzioni e disinteressati dall’opinione che altri potevano avere di loro, l’ideale bohèmien, un modo di vivere alla giornata. Il mondo degli artisti che vivono in modo anticonformista e libero, che ha Parigi come fulcro, da metà Ottocento a inizio Novecento e che ha dato quel particolare sapore romantico alla città francese. In quegli anni pare che tutto accada a Parigi, eppure in Italia settentrionale c’erano gli “scapigliati” ribelli e anticonvenzionali e in Romagna si dipana una storia d’amore che ha lo stesso allure parigino.

Una trama di quelle lacrimevoli e struggente, a cui si vorrebbe tanto cambiare il finale. Lui Domenico Baccarini (1882/ 1907), detto Rico, nasce a Faenza, il padre ciabattino, la madre che per sbarcare il lunario, vende pizza fritta. Rico è bello, lo sguardo fiammeggiante e ombroso, non doveva avere un carattere facile. Rico è dotato, molto dotato, il disegno, la pittura, la scultura e anche la ceramica, sono magistralmente creati, con linee intense, avvoltolate come serpi, con luci e ombre, linee che si muovono tra il Liberty e il Simbolismo. Se nei disegni in bianco e nero traspare la disperazione e il dolore, le ceramiche policrome sono inneggianti alla bellezza della natura e di bambini colti in atteggiamenti giocosi.

E poi ritratti, tanti ritratti, del suo amore, la Bitta. C’era un ballo, una notte del 1903, a Faenza. In mezzo alla folla, una ragazza bionda e alta, con gli occhi azzurri incrociò lo sguardo di Rico. Era lei Elisabetta Santolini (1884/ 1909), detta Bitta, l’amore scoppiò incendiandoli. La Bitta faceva la filandaia, povera in canna come Rico. Rimase incinta andò a vivere con il suo compagno, a casa dei suoi genitori a Faenza, dando scandalo. Nel frattempo Domenico si aggiudicò la medaglia d’oro per la scultura, a Ravenna “all’Esposizione Emiliano Romagnola di Belle Arti”. Fu in quell’occasione che il busto della Bitta venne acquistato dal Comitato dell’Esposizione, oggi si trova al Museo d’Arte di Ravenna.

La passione tra Domenico e la Bitta finì male, lui gravemente ammalato di tubercolosi, da lì a poco morirà, lei lo abbandona. Una sera del 1906, la Bitta partecipò ad un veglione di Carnevale, ad Imola, qui incontrò Amleto Montevecchi e fu colpo di fulmine. Ancora un pittore, povero e bello, ma non certo bravo come Baccarini. Mentre Domenico, a soli ventiquattro anni stava morendo per tubercolosi, la Bitta partoriva figli a Montevecchi, uno dei quali morì per malnutrizione. La Bitta fu trovata agonizzante su di una panchina a Cervia, un giorno del 1909, era andata al mare per riprendersi in salute. Non ebbe neanche una degna sepoltura, i suoi resti finirono nell’ossario comune.

Un amico di Baccarini disse di lei: “Una femmina con molto sesso ma poco giudizio”. Aveva ragione, la Bitta bellissima poteva sposarsi o essere l’amante di un riccone e vivere negli agi, preferì invece amare molto. Nessuno dei due suoi grandi amori la rese una donna onesta. Né Domenico, né Amleto la sposarono, anche se quest’ultimo a parole la rimpianse per tutta la vita. Qualcuno ha detto… “sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato” e qualcun altro ha scritto… “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende /Amor, ch’a nullo amato amar perdona”.

La breve vita di Baccarini non è stata effimera, fu il riferimento per i coetanei compagni di studio faentini poi accomunati sotto il titolo di “Cenacolo baccariniano”: Ercole Drei, Domenico Rambelli, Francesco Nonni, Giovanni Guerrini e Giuseppe Ugonia, tra gli altri. Le sue opere parlano per lui e la Bitta è diventata immortale. Diverse immagini della Bitta, sono conservate nei musei di Ravenna e Faenza.

Paola Tassinari

Redazione Romagna Futura

Redazione Romagna Futura

Centenario di Francesco Baracca, l’Asso degli Assi

Centenario di Francesco Baracca, l’Asso degli Assi

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 15 Giu 2018, 14:46

 

Lugo, per qualcuno è il centro della Romagna. Il toponimo probabilmente deriva da Lugh, il dio celtico del sole, della luce e del cielo. Vista dall’alto la pianta di Lugo ha il profilo di un aeroplano; la città sorse sull’incrocio di due assi viari, ha perciò la forma di una croce. Forse era dunque destino che a Lugo nascesse Francesco Baracca, il pioniere dell’aria, che per le sue azioni di guerra, fu insignito da una medaglia di bronzo, tre d’argento e infine una d’oro.

Quest’anno, cade il centenario della sua morte. Numerosi sono stati gli eventi organizzati a Lugo, che culmineranno con quello previsto per il 19 giugno, giorno dell’anniversario della morte dell’Asso degli Assi (fu a capo della squadriglia degli assi costituita da grandi aviatori, scelti da Baracca in persona), con l’esibizione nel cielo di Lugo delle Frecce Tricolori. Sempre a Lugo, il 2 giugno, in concomitanza col giorno delle celebrazioni della Repubblica italiana, vi è stato il trasferimento del sarcofago dell’eroe, sino a Piazza Baracca, per l’alzabandiera e i festeggiamenti; in seguito esposto, rimarrà fino al 25 giugno, all’interno dell’Oratorio di Sant’Onofrio.

Baracca, morì nel trevigiano, a Nervesa. Il suo aereo, su cui era dipinto un “cavallino rampante”, fu ritrovato sulle pendici del Montello. In quei giorni era in corso una delle più violente battaglie della Prima guerra mondiale: quella decisiva. Si decise di martellare le trincee nemiche con l’aviazione. Baracca non fece ritorno: morì a trent`anni, il 19 giugno 1918, combattendo per l’unità d’Italia. Il suo corpo fu trovato solo cinque giorni dopo, accanto al velivolo arso dal fuoco. La salma illesa dall’incendio presentava un’unica ferita sulla tempia destra, un foro prodotto da un colpo di pistola; si è ipotizzato che Baracca abbia mantenuto fede a ciò che aveva ripetuto spesso… piuttosto che cadere vivo nelle mani del nemico, mi ucciderò.

Sulla vita di Baracca si conosce ben poco, la madre la contessa Paolina Biancoli, faceva parte dell’altaborghesia, il padre Enrico era un conservatore. Baracca fu uno studente diligente ma non fra i primi, non aveva interesse né per la cultura né per la politica. Eccelse nell’aviazione, ma era schivo e non gli piaceva apparire, nonostante questo divenne molto popolare, addirittura lo fu anche fra gli aviatori nemici.

Il Ventennio osannò Francesco Baracca, paragonandolo all’Ettore omerico, entrambi domatori di cavalli (Baracca fece parte della Cavalleria) entrambi morti per la Patria. Le esequie di Baracca si svolsero il 26 giugno a Quinto di Treviso: l’elogio funebre fu pronunciato da Gabriele D’Annunzio… L’ala s’è rotta e arsa, il corpo s’è rotto e arso. Ma chi oggi è più alato di lui?

Il 28 il feretro giunse a Lugo, fu il re in persona che volle che la salma fosse trasportata direttamente dalla zona di guerra alla sua città natale. Il 30, ebbero luogo i funerali, davanti ad una folla imponente. Subito dopo la morte di Francesco Baracca, si decise per l’erezione di un monumento, la cui progettazione fu affidata allo scultore faentino Domenico Rambelli. Il monumento, fu inaugurato il 21 giugno del 1936 alla presenza del Duca d’Aosta e dei massimi gerarchi del regime. Presenta una maestosa ala che si innalza come gli antichi obelischi egizi, sui fianchi dell’ala sono scolpiti i simboli dei reparti cui Baracca appartenne, la Cavalleria e l’Aeronautica: il cavallino rampante col motto “Ad Maiora” e l’Ippogrifo.

Accanto all’ala, una statua in bronzo rappresenta Francesco Baracca in tuta da aviatore, non in posa eroica, anzi sembra che stia lì con nonchalance, tratto tipico dei lavori di Rambelli, è alta m. 5,70 e issata su un basamento che reca le date e le località delle vittorie dell’aviatore. Sicuramente una pregevole ed originale opera d’arte. Due piccole curiosità. Nel 1923, la madre di Baracca diede ad Enzo Ferrari l’autorizzazione ad utilizzare l’emblema del cavallino rampante, che ancora oggi corre sulle Ferrari. Se avete visto altre sculture di Rambelli, come ad esempio il “Fante che dorme”, a Brisighella, e vi siete chiesti che cosa vi ricordava… Rambelli può considerarsi l’antesignano delle donne ciccione di Ferdinando Botero.

Paola Tassinari

Redazione Romagna Futura

Redazione Romagna Futura