CATTELAN IL FORLIVESE

Multiplo cattelan

E poi un sabato pomeriggio vai alla Galleria d’Arte M.A.F. ( Mondial Art Free, diretta da Marco Morgagni, coadiuvato da sua moglie Yoko) a Forlì, in Corso Mazzini 21, e vi trovi Rosanna Ricci, che ti incanta e ti racconta che a Forlì c’è il Palazzo del Diavolo, ohibò! E non è finita, in quel palazzo vi ha abitato per cinque anni, nientepopodimeno che Maurizio Cattelan! Quel Cattelan tanto famoso, tanto pagato, che oggi vive fra Milano e New York creando ironiche sculture, performance e “scherzi”, il tutto studiato per creare sconcerto nel pubblico, ha iniziato la sua carriera a Forlì.  Se non fosse diventato così famoso sarebbe rimasto lo “scemo del villaggio” o il “pazzo della contrada”, come accade ad altri artisti, anonimi sconosciuti, ritenuti ridicoli, pazzerelli, e in qualche caso costretti a passare qualche giorno al Servizio Psichiatrico. Maurizio Cattelan è la rivincita, la compensazione di tutti loro, è il Marcel Duchamp degli anni Duemila. Cattelan arriva in Romagna perché si innamora di una ragazza di Forlì; qui con la sua immancabile bicicletta, gironzola su e giù, lavora qui e là, facendo anche il becchino. La prima mostra è all’Oratorio di San Sebastiano, a Forlì, espone la sua camera da letto. Le idee dell’artista sono di natura goliardica, molti lo esaltano, altri lo denigrano. Eppure l’arte è anche gioco e divertimento, non so perché oggi la cultura oscilli tra una superba seriosità piena di sé e una satira cattiva, corrosiva, mi piacerebbe che l’arte fosse “eutrapelica”, parola desueta che significa gioia e buonumore, e che è l’arte difficile del far ridere e deridere con lievità. Vediamo un po’ gli “scherzi” di Maurizio. Negli anni in cui viveva a Forlì, tra il 1980/’90, furono rubate in città alcune targhe, quelle che identificano medici, avvocati e altro; queste targhe, con l’aggiunta della scritta: “Non si accettano testimoni di Geova”, vennero trovate al Guggenheim Museum di New York, facevano parte di un’opera di Cattelan. Sempre a Forlì, l’artista denunciò ai carabinieri la scomparsa di una sua opera, corredata da indizi e particolari, l’opera non fu mai trovata anche perché era intitolata: “Invisibile”. Alla Biennale di Venezia del ’93, mette in scena “Lavorare è un brutto mestiere”,   vendendo il suo spazio espositivo a un’agenzia di pubblicità . Ai Caraibi organizzò la “Sesta Biennale” che consisteva in due settimane di villeggiatura gratuita per gli artisti invitati, che non dovevano esporre nulla. Nel 1999 presentò come opera vivente il suo gallerista milanese, appendendolo a una parete con del nastro adesivo grigio, al termine della performance, il gallerista fu ricoverato al pronto soccorso privo di sensi. Destò molto scalpore una sua scultura, che ritraeva Hitler in ginocchio mentre pregava e un’altra opera che esponeva tre bambini-manichini impiccati a un albero di Porta Ticinese a Milano. L.O.V.E. (Libertà, Odio, Vendetta, Eternità), è una grande scultura, posta in Piazza degli Affari di fronte alla sede della Borsa di Milano, con tutte le dita mozzate, eccetto il dito medio, creando così un gesto osceno. Il giorno in cui l’Università di Trento gli ha conferito la Laurea Honoris Causa, Cattelan ha preparato un’installazione che consisteva in un asino imbalsamato dal titolo “Un asino tra i dottori”. La sua opera più nota: “La Nona Ora”,   scultura che raffigura Papa Giovanni Paolo II schiacciato a terra da un grosso meteorite e circondato da vetri infranti, è stata venduta per la cifra record di 886 mila dollari. L’ultima opera è di questi giorni, un water d’oro che i visitatori devono usare; “America”, questo il titolo, è ispirata alla disuguaglianza economica. Questo water lussuoso mi ricorda Luigi XIV, il re Sole, che aveva un artistico trono-gabinetto, seduto sul quale riceveva visite, defecando sempre alla stessa ora, così da permettere ai sudditi, che accorrevano numerosi, di godere della vista e del “profumo“ delle sue feci, che erano considerate come “oro colato”. Allora chi è Cattelan un furbacchione o un genio? Forse è solo un uomo che ridicolizza sempre dippiù i mali della nostra società, la quale invece di ravvedersi fa la stessa cosa dei sudditi del re Sole.  

 immagine: Multiplo Cattelan

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 26/09/2016

 

 

 

 

ERBE PALUSTRI E MULTIUSO

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Ricordo, forse quarant’anni fa, in fondo non sono tanti anni, ma il mondo di allora sembra tanto lontano, quasi che non fosse mai esistito, eppure ricordo le mondine che abitavano al mio paese, che al mattino presto partivano tutte infagottate e cariche dei loro attrezzi, in bicicletta, in fila, cantando con lazzi e gorgheggi di ritornelli, andavano alla “Torraccia”, una torre tutt’ora esistente, nella zona di Classe, qui vi era un’antica valle di acqua dolce, dove c’erano le risaie. Le donne avevano circa 30 chilometri da percorrere in bici, andata e ritorno, e un lavoro molto duro da fare, ma ritornavano alla sera, cantando, sentivo la loro “musica da lontano” e uscivo di casa per vederle e loro mi salutavano sorridendo e mi parevano tanto allegre, un’allegria che oggi non c’è più. Avevano fazzolettoni legati al collo, con sopra dei grandi cappelli in paviera (erba palustre), poi delle grandi sporte, una per manubrio, sempre in paviera e due fiaschi, uno per l’acqua e uno per il vino, (essì perché un goccio di vino non poteva mancare), avvolti per intero dal vimini,   così le bottiglie, se cadevano, non si sarebbero rotte e il vino e l’acqua restavano freschi. L’Ecomuseo delle Erbe Palustri è un istituto culturale, senza fini di lucro, che si trova a Villanova di Bagnacavallo, ho avuto modo di visitarlo, durante la Sagra delle Erbe Palustri, che si tiene ogni anno il secondo fine settimana di settembre. Il Museo è molto ricco, le raccolte acquisite superano i 2.500 reperti, è allestito in modo esaustivo e con la dose giusta di tecnologia, ma con un “qualcosa in più”, vi ho ritrovato l’allegria delle “mie” mondine. Il percorso inizia dal giardino con i pittoreschi capanni, continua con la sala didattica con la proiezione di un filmato introduttivo. “Padusa” era chiamato il territorio della Bassa Romagna, un tempo caratterizzato da stagni, zone acquitrinose, piallasse. Attorno al 1300, lungo l’argine sinistro del fiume Lamone, nacque “Villanova delle Capanne”, forse una quindicina di casupole abitate per lo più da fuorilegge. La zona era ricca di erbe palustri che gli abitanti utilizzarono prima per costruire le capanne, poi    per avviare un fiorente artigianato, costruendo graticci, stuoie, sporte, scarpe, sedie, gabbie per uccelli e altri impagliati, ma anche con le realizzazioni di soffitti a volta, attività che si è svolta a Villanova fino al secondo dopoguerra. Al piano superiore del Museo si possono ammirare centinaia di reperti e manufatti, mentre il piano ammezzato ospita 3 sezioni, tra cui una dedicata ai “giochi di una volta”, realizzati con materiali di recupero. La fine del percorso riporta il visitatore davanti al bookshop iniziale, dove si possono acquistare pubblicazioni e prodotti tipici del territorio. Una sorpresa divertente è stata la cena nell’area di ristoro, coi sapori nostri tradizionali, in occasione della Sagra, era stata allestita la “Locanda dell’allegra mutanda” con un’esposizione di braghe romagnole del Novecento, appese al soffitto. Numerose le mostre   per l’evento, tra cui segnalo: la presenza di Medardo Resta con la sua arte della scrittura gotica, “Sogni fra i rottami” con le sculture di Renato Mancini; “Dall’erba palustre alla spatola” del pittore Mauro Petrini e “La voce dell’anima” di Eleonora Ronconi; queste ultime sculture in fil di ferro e lamiera colorata di Eleonora mi hanno ricordato, per purezza, grazia, gioiosità la “Santa Allegrezza”, un canto natalizio molfettese di autore ignoto, che inneggia all’allegria nel cuore per la nascita di Gesù. Eleonora, alla mia domanda del perché non andasse a cena mi ha risposto: “Quando sono con le mie opere non ho né fame né sete, mi sento sazia, non ho bisogno di altro”. Legato all’Ecomuseo è anche il progetto “Lamone Bene Comune”, che si propone di  coinvolgere tutti i siti bagnati da questo fiume. Molti  sono i risultati ottenuti, tra cui la stesura del Manifesto delle Terre del Lamone e della Mappa delle Tipicità, la pubblicazione annuale della guida Lòng e’ fion (lungo il fiume), la Pedalêda cun la magnêda longa, i Lòm a Mêrz e tanto altro. Non mi resta che fare i complimenti alla Direttrice del Museo: Maria Rosa Bagnari.

immagine: Locanda dell’allegra mutanda

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 19/09/2016

 

 

 

 

LE PREVISIONI DI BENDANDI

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La crosta terrestre è formata da grandi placche che convergono, divergono oppure si spostano parallelamente tra loro, sono in costante movimento, enormi sforzi che si accumulano nelle masse rocciose su entrambi i lati della frattura. Quando gli sforzi raggiungono un livello critico, si scaricano sotto forma di un improvviso movimento a scatti. L’energia che viene rilasciata si propaga sotto forma di onde, causando i terremoti. Si possono prevedere i terremoti? No non si può, è possibile solo prevenire con costruzioni antisismiche. Fin dall’800 sono stati studiati diversi modi per poter prevenire un terremoto, senza ottenere nulla. Ci sono però studi, non riconosciuti, che cercano di individuare il sisma con altri metodi. Uno di questi metodi riguarda il Radon, un gas radioattivo emesso naturalmente dal terreno, sono stati osservati in molte zone soggette a terremoti pochi mesi o giorni prima, irregolarità della concentrazione di Radon, quindi lo si è preso come un presagio potenziale per un terremoto. Gianpaolo Giuliani, un ex tecnico dell’Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario, affermò di essere riuscito a prevedere il terremoto in Abruzzo con i suoi studi sul Radon, fu sconfessato da altri scienziati. Un grosso punto interrogativo è il faentino Raffaele Bendandi. Bendandi nacque a Faenza, in una povera famiglia, fin da giovanissimo lavorò dapprima come orologiaio e poi come intagliatore di legno. Si dedicò anima e cuore, allo studio dei terremoti: nel 1920 entrò a far parte della Società Sismologica Italiana, formulando una propria teoria, detta “sismogenica”. Bendandi affermava che i terremoti erano “prevedibili esattamente”: “L’origine dei terremoti, secondo le mie teorie, è prettamente cosmica. Il terremoto avviene, secondo i dati da me raccolti e controllati, quando, nel giro mensile di una rivoluzione lunare, l’azione del nostro satellite va a sommarsi a quella di altri pianeti”. Riteneva che la crosta terrestre, così come le maree, fosse soggetta agli effetti di attrazione gravitazionale della Luna. Non poteva la crosta terrestre comportarsi nello stesso modo del mare? Egli non apparteneva al mondo accademico, e numerosi furono gli scontri con la scienza ufficiale. Nel 1926 la Società Sismologica Italiana, diffidò Bendandi dal pubblicare altre previsioni sui terremoti in Italia, pena l’esilio. La nomina a Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia, attribuitagli da Mussolini, gli fu revocata. Bendandi, però, ormai conosciuto oltre oceano, continuò a pubblicare le sue previsioni sui giornali americani. La sua ricerca, intanto, lo portò a scoprire un ciclo undecennale del Sole e l’esistenza di un altro pianeta che chiamò Faenza, mai oggettivamente trovato. In merito alle macchie solari, valutò i disturbi che queste potevano avere sulla mente umana, in grado di spiegare atteggiamenti improvvisi di violenza o pazzia. Nel 1929 Bologna fu colpita da uno sciame sismico che si protrasse per mesi. Bendandi tentò di avvisare il prefetto della città, ma rimase inascoltato. Nel 1963 Bendandi previde un terremoto a Faenza, senza essere ascoltato; Stefano Servadei, deputato e politico forlivese, sollevò la questione in parlamento per riabilitare la figura di Bendandi, ritenendolo un ricercatore e scienziato a tutti gli effetti, anche se privo di un titolo di studio. È del maggio 1976 l’ultima e inascoltata sua previsione, il terremoto del Friuli. Bendandi ne fece davvero tante di previsioni, non tutte verificatesi, però. Previsioni vaghe, collocate in uno spazio troppo ampio, avrebbero creato solo inutili allarmismi, ciò non vuol dire che qualcosa di vero non esistesse. Lo studioso appassionato non è detto che valga meno di uno studioso titolato, Bendandi fu nominato da Giovanni Gronchi Cavaliere Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana. Morì nel 1979 nella sua casa-osservatorio di Faenza. Solo anni dopo, grazie all’associazione “La Bendandiana”, di cui è presidente la Dottoressa Paola Lagorio, si iniziò a riordinare e a ricercare sull’abbondante materiale lasciato da Bendandi. La sua città lo ricorda con l’intitolazione di una scuola.

 

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Vove di Romagna” il giorno 12/09/2016

LE SPOGLIE DI SAN GIULIANO

 

Borgo San GiulianoDal centro storico di Rimini si giunge al ponte di Tiberio, lo si passa e si entra nel Borgo San Giuliano. E’ un piacere passeggiare fra le sue stradine e piazzette, immaginandosi le povere case di una volta, la vita dei pescatori e dei marinai; oggi tutto è perfettamente ristrutturato: muri color pastello spesso decorati da grandi murales e vasi di fiori sui balconi. Si dice che il Borgo fosse il luogo preferito di Federico Fellini e Giulietta Masina, di cui vi è un bel murales, di certo qui si percepisce l’orgoglio di essere “del borgo”. La Chiesa di San Giuliano Martire, si trova qui, è un importante edificio che contiene tesori. La Chiesa è stata edificata nel XI secolo, e restaurata nel Cinquecento, periodo al quale risale la facciata rinascimentale che la caratterizza per linee eleganti e pulite. All’interno troviamo il sarcofago romano che conteneva le spoglie di San Giuliano, un polittico del XV secolo realizzato da Bittino da Faenza con le storie del Santo e una tela col suo martirio, capolavoro di Paolo Veronese. Nel 1910 fu eseguita una ricognizione al sarcofago,fu datato al periodo imperiale romano, si notò che appariva consunto e abraso in molte parti: i fedeli avevano infatti l’abitudine di grattarne la superficie per ottenere una polvere che credevano miracolosa. La tradizione vuole che il sarcofago sia approdato sulla spiaggia di Rimini, dalla Dalmazia.Bittino da Faenza(1357/1427) fu un pittore italiano minore, attivo soprattutto in Emilia Romagna, il suo stile è gotico, ma risulta assai piacevole nella sua minuziosità. Nella chiesa di San Giuliano lascia un polittico con le scene della vita di Giuliano, martirizzato appena diciottenne. Vi compare la figura della madre, che gli è d’incoraggiamento, sia durante l’interrogatorio, sia nell’esecuzione del martirio. Il giovane Giuliano dopo essere stato condannato dal Tribunale, venne messo dentro un sacco chiuso contenente sabbia e serpenti e gettato in mare, dove morì annegato, si suppone forse nel 249. Il suo corpo fu restituito dal mare sulla costa dell’isola di Marmara (Turchia), e qui deposto in un sarcofago; ma poi attorno al 961, il sarcofago precipitò in mare e galleggiando nell’Adriatico, guidato da angeli, approdò a Rimini, in località Sacramora (sacra dimora). Qui dove sostò l’arca di Giuliano sgorgò poi una fonte di acqua pura. Si cercò di trasportarlo in cattedrale ma gli sforzi risultarono vani, per cui furono indette molte preghiere, infine con l’aiuto di due bovini, e con tutto il popolo riminese si riuscì a trasportarlo nel vicino monastero dei Santi Pietro e Paolo, oggi Chiesa di San Giuliano. Il giovane martire è molto venerato dalla città di Rimini, di cui è patrono dal 1225. Paolo Veronese (1528/1588) nato e formatosi a Verona, per lo più operò a Venezia. Il suo stile è decorativo, con influssi manieristici del Parmigianino e di Giulio Romano, la sua pittura risulta libera e sinuosa col colore sempre intenso e ricco. Il suo soggetto preferito sono state le Cene, tele monumentali che dovevano rappresentare cene religiose in realtà banchetti sontuosi. Con il Convito in casa Levi (Gallerie dell’Accademia, Venezia), lo sfarzo scenografico e l’esaltazione del lusso gli valsero un processo del Santo Uffizio in quanto la tela era stata commissionata dai frati domenicani come “Ultima cena”. Il suo capolavoro è la Sala del Collegio a Palazzo Ducale di Venezia. Dal XVI secolo ci furono molti pittori veneti che operarono lungo tutta l’area adriatica dalla Romagna alle Marche. La pala di Veronese del San Giuliano accentua una forte pietà terrena, in contrapposizione a una grande gloria divina. La parte superiore del quadro presenta la figura della Madonna attorniata dai Santi di cui uno ha uno spettacolare manto rosso; in basso è raffigurata la scena del martirio, Giuliano è biancheggiante nella sua nudità, indifeso e tenero coi capelli biondi e ricci, immagine luminosa fra lo scuro degli armigeri e di altri personaggi, vicino a lui la figura addolorata della madre. La divisione fra la parte celeste e quella terrena è data da uno splendido scorcio di nubi fra il cielo blu e in lontananza il verde di colline e pianure.

 

immagine: Borgo San Giuliano

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 05/09/2016