Il misterioso palazzo che stregò Sigmund

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La visita di Sigmund Freud a Ravenna apre la porta a due interrogativi: perché comprò la stampa con la veduta del cosiddetto Palazzo di Teodorico e non una stampa di più nobili monumenti come la Basilica di san Vitale o il Mausoleo di Galla Placidia? Il manufatto è ridotto ad alcune rovine, in realtà il rudere è identificato come la parte antistante della chiesa di San Salvatore ad Calchi (distrutta agli inizi del XVI secolo) oppure come una costruzione a scopo di difesa per il palazzo degli esarchi (governatori della città) del VII-VIII secolo. Il secondo interrogativo è sul sogno in cui associa Ravenna ai fiori bianchi. Freud paragona nel sogno Ravenna ai fiori bianchi ma negli appunti scrive della città che è un buco miserando, annota: “Teodorico, Dante, mandorle, fichi raccolti dall’albero presso la tomba di Teodorico, vecchie case, mosaici, una pineta cantata da Dante, pesche, vino e caffè si sono unite in una bella armonia”. Da queste brevi parole si evince che ciò che più l’ha colpito è il ricordo di Teodorico, forse è per questo che acquista la stampa, prendendo una cantonata perché la costruzione non ha più nulla del palazzo del re goto, ma è possibile che rimanga affascinato dalle rovine che sono le uniche presenti in città che evocano in qualche modo Roma, il Colosseo  o il Foro e Freud amava moltissimo Roma, la visitò ben sette volte. Donò un libro al duce con la dedica:“A Benito Mussolini coi rispettosi saluti di un vecchio che nel detentore del potere riconosce l’eroe della civiltà”, non si sa se il dittatore lo lesse ma due mesi più tardi uscì sul Popolo d’Italia un articolo dello stesso Mussolini, nel quale definiva la psicoanalisi un’impostura. Lo storico Roberto Zapperi  scrive che, nel 1930, la questura di Roma emise contro Freud un provvedimento di fermo, che sarebbe scattato nel caso in cui Freud avesse messo nuovamente piede in Italia dove mancava dal’23. Dunque anche se Sigmund amava Roma la città non lo voleva. E veniamo ai fiori bianchi, questi ultimi nel sogno simboleggiano l’organo sessuale femminile, il bianco fa poi riferimento al matrimonio, ma i fiori erano tanti. L’illustre scienziato, si dice che non amava le donne, favoriva l’amore libero, lui però asseriva che non lo sfruttava mai al di fuori del suo matrimonio; eppure era notorio che lui aveva  una relazione con Minna  sorella della moglie Martha, come dire che i sogni non mentono.

immagine cosiddetto Palazzo di Teodorico

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22/06/2015

Quando Freud fu a Ravenna

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Sigmund Freud (1856/1939) è stato un neurologo e psicoanalista austriaco, fondatore della psicoanalisi.  Freud è noto per aver elaborato una teoria secondo la quale i processi psichici inconsci sono determinanti sul pensiero, sul comportamento e sulle relazioni tra individui. Tentò di stabilire relazioni tra la visione dell’inconscio, rappresentazione simbolica di processi reali, con la fisicità  del cervello e del corpo umano,  concetti che hanno trovato parziale conferma nella moderna neurologia e psichiatria.L’impulso sessuale e le sue relazioni sono molto importanti per Freud, molti dissensi dalle sue teorie (Jung e altri) nascono dalla contestazione del ruolo, ritenuto eccessivo, riconosciuto da Freud alla sessualità che la riteneva la causa principale dei disturbi nevrotici. E’ stata inaugurata, qualche tempo fa, nell’area della fontana dei Giardini pubblici una targa che ricorda la visita nel 1896 di Freud a Ravenna. “L’inaugurazione di questa targa, afferma l’assessora  Piaia, ci dona memoria del passaggio di Freud a Ravenna. Freud, padre della psicoanalisi, ha cambiato la cura della mente, ha spostato la lettura della sofferenza dal piano biologico al piano culturale. Grazie a lui il disagio psichico ha potuto essere interpretato come disagio di civiltà”. Quando Freud scende a conoscere l’Italia, l’epoca del Grand Tour è finita da un pezzo. Nel Mezzogiorno si arriva in treno, le località di soggiorno degli ospiti stranieri sono numerose, gli alberghi migliori sono organizzati all’inglese, nelle ville di Fiesole e nei castelli del Lazio, la nobiltà del luogo e il fior fiore del turismo internazionale vivono come fossero a Mayfar. (Il quartiere più lussuoso di Londra)  L’Italia di Montaigne, e di Goethe è “irrimediabilmente perduta”, ma ancora dopo il viaggio del 1864 ricordando il mare d’Italia il filosofo francese Taine scrisse:“Non ci sono parole per esprimere l’infinita bellezza di quell’azzurro a perdita d’occhio. Che distanza dal fosco e lugubre Oceano”; ma annotava pure ricordando Piazza del Mercato a Napoli: “Tutti quanti si muovono, mangiano, bevono, puzzano”. Se Taine scriveva così il suo conterraneo lo scrittore Stendhal commentava: “Nessuno è più pigro degli italiani: il movimento che nuocerebbe alla loro sensibilità, li infastidisce”. Freud amava l’Italia, nella sua collezione di stampe, decine di vedute:  Roma, Firenze, Orvieto, Capri, Pallanza, Palermo, Arezzo, Verona, Siena, Bologna con le sue torri e Ravenna col cosiddetto Palazzo di Teodorico. Freud riteneva il sogno derivante dal desiderio, aveva avuto una serie di sogni che dimostravano ciò, lo scrive nel famoso trattato “L’interpretazione dei sogni”, dove cita pure Ravenna. Si tratta di tre sogni che erano alla base del suo appassionato desiderio di vedere Roma, questa brama di Roma dovrà stare a lungo inappagata in quando lo psichiatra ebbe problemi di salute. Dunque nel primo sogno vede il Tevere e Ponte Sant’Angelo dal finestrino del treno, poi il sogno sfuma e Freud ricorda di non aver mai visto Roma (in una postilla Freud scrive che per l’appagamento dei desideri da lungo tempo ritenuti irraggiungibili occorre solo un po’ di coraggio) e il panorama che ha visto in sogno ricorda un’incisione che aveva visto di sfuggita il giorno prima in casa di un paziente. In un altro sogno si trova su una collina da dove si vede Roma immersa nella nebbia, questo sogno esprime l’incertezza della “terra promessa”. Nel terzo sogno Freud  è infine  a Roma ma con sua grande delusione non si trova in una città  bensì sulle rive di un piccolo fiume dalle acque scure, dove si trovano da un lato rocce scure e dall’altro prati con grandi fiori bianchi, vede un conoscente e gli chiede la strada per Roma. In questo sogno lo psichiatra vi ritrova lui che si sforza di vedere in visione Roma ma evoca  un’altra città a lui nota: Ravenna, nelle paludi di Ravenna aveva raccolto le più belle ninfee adagiate in acque scure, nel sogno crescono sui prati perché era stato assai faticoso tirare le ninfee fuori dall’acqua … aveva evocato Ravenna  perché almeno per un po’ di tempo la città sottrasse a Roma il privilegio di capitale.

 

 

immagine: Sigmund Freud

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22/06/2015

La quiete rinascimentale del piccolo Pianetto

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Pianetto è un piccolo paese, a due chilometri da Galeata, una manciata di case, un ambiente antico e quieto raccolto attorno al complesso rinascimentale del convento, della chiesa e del museo, sullo sfondo i resti della rocca appartenuta agli Abati di S. Ellero, resti che si ergono come sentinelle protettive del silenzio e del vivere “lento”. Appena usciti dal Museo Mambrini, pochi passi conducono al  bel chiostro col pozzo al centro, per arrivare all’adiacente Chiesa dei Miracoli. Fu edificata nel 1497 per un miracolo avvenuto in una casa del paese, dove una tavoletta raffigurante la Madonna e Santi fu vista piangere e versare dal seno gocce simili al latte. La chiesa ha linee rinascimentali, ma entrando si resta un po’ sorpresi, la navata unica ha un tempietto che invade come un braccio proteso lo spazio, è il luogo in cui è venerata la tavoletta del miracolo. Questa cappella domina pure l’abside e poi i drappi, i vecchi candelabri, le cassettine un po’ arrugginite per le offerte, rendono questo spazio come sospeso nel tempo. Nelle pareti laterali della chiesa vi sono gli altari, cinque per parte, che conservano pregevoli opere come “La Visitazione” (1599) di Giovanni Stradano, dove  sono rappresentate la Madonna ed Elisabetta ambedue incinte, unico esempio del genere oltre alla Madonna del Parto di Piero della Francesca. In fondo alla navata, a sinistra, c’è un affresco, rappresenta il miracolo assai originale di una partoriente. La donna è stesa a letto, dolorante, accanto due donne anziane, forse levatrici, a fianco un asino con la cavezza si sta abbeverando, un uomo gli spinge il capo verso la fonte e un frate sta osservando. Una scritta, non integra, spiega che ad Arezzo una donna non riusciva a partorire, ma cinta con la cavezza di una bestia partorì subito. Presso Pianetto si insegnò pure teologia ai chierici dell’abbazia di S.Ellero, erano monaci irrequieti, come testimoniano alcuni rimproveri scritti, erano anche invisi alla popolazione.  Nel 1424, accadde un episodio singolare, giunse un capitano dei Visconti di Milano, con l’esercito. Il podestà di Galeata consegnò la rocca senza combattere, per ricevere in cambio un tornaconto personale. Il condottiero dei Visconti ebbe a schifo la viltà del podestà e lo imprigionò nella rocca, dove morì di fame, schernito dai soldati che gli lanciavano per cibo delle carte con delle bisce dipinte.

immagine: affresco col miracolo della partoriente e la cavezza

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 08/06/2015

Quel gioiello del Mambrini

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Nonostante i pochi fondi, la Romagna riesce a tenere in vita tanti piccoli musei: preziose perle che testimoniano la nostra storia e le nostre radici. Pochi chilometri dopo Galeata, a Pianetto, si trova il Museo Mambrini, aperto solo il sabato e la domenica. Ha sede nel restaurato convento dei Padri Minori. Mons.  Domenico Mambrini (Galeata 1879-1944), fu l’autore dei primi scavi, dopo la laurea in Filosofia e in Diritto canonico, fu arciprete a Galeata. Appassionato di storia e di archeologia, condusse studi approfonditi sui documenti dell’Archivio storico locale e dei centri limitrofi. A lui si deve l’istituzione del primo nucleo del museo e l’individuazione dell’esatta ubicazione della città romana di Mevaniola. Grazie alle sue intuizioni ci furono  anche gli scavi che portarono alla luce il cosiddetto “Palazzo di Teoderico”. Direttrice del Museo è Caterina Mambrini discendente del Monsignore. Il sito archeologico riferito a Teoderico, fu scavato per la  prima volta nel 1942 da un gruppo di studiosi germanici, in base al racconto della Vita di S. Ellero. Il Museo possiede una sezione archeologica e una storico-artistica. Nella prima parte troviamo manufatti in pietra, bronzi votivi di età arcaica, reperti villanoviani e umbri, quindi  materiali di età teodericiana, bizantina e longobarda. Sono collocate anche iscrizioni funerarie di epoca romana e materiali lapidei provenienti dall’Abbazia di S. Ellero, fra i quali spiccano i due bassorilievi affiancati, raffiguranti per tradizione popolare l’incontro tra S. Ellero e Teoderico. Le due lastre non sono coeve né per periodo, né per stile, ciò non toglie che si trovassero, in origine, entrambe collocate in un’edicola vicina all’abbazia del Santo. Uno dei pezzi più inquietanti è una statua colonna, che illustra un soggetto raro, si tratta di un episodio dell’infanzia di San Nicola in cui il santo-neonato sceglie di digiunare nei giorni santificati, rifiutando di attaccarsi al seno materno con grida e lacrime. Lo strano è che esiste un’altra statua colonna, identica per stile a quella di San Nicola, ma raffigurante  S. Ellero, si trova al Metropolitan Museum of Art di New York:  il Santo è rappresentato con in mano un rotolo, scritto in latino, che afferma i diritti dell’abbazia sul territorio. Opere che restano per secoli in un luogo montano sperduto per poi riaffiorare nel luogo più alla moda del momento, speriamo che accada così anche per un reperto dall’iconologia molto strana che è “scomparso” dal Museo. Rimane una foto, un’immagine scura che presenta un leopardo contrapposto a un orso. Il leopardo è attributo di Dioniso e di riti orientali, riti accreditati dalla presenza nel Museo di un piccolo idolo che ritrae Iside in trono, con in braccio il figlio Horus. L’orso è un simbolo nordico di grandezza, di regalità, per i Celti e poi per i Goti. Forse la lastra testimoniava lo scontro religioso oppure la convivenza fra i differenti riti. Nel museo è conservata anche una chiave onoraria, del I secolo d.C., molto bella, simboleggiava il potere della città. Pezzo di straordinaria importanza, ha solo un altro esempio fra i ritrovamenti di età romana in Italia. Ha impugnatura bronzea a testa di cane, forse un molosso, è a “scorrimento”, le chiavi più diffuse in epoca romana prima che si affermassero quelle a “rotazione”. Forse la chiave aveva un effetto reale, quello di chiudere la porta e uno simbolico di “cave canem”(attenti al cane) molto in voga fra i romani. Notevole è un possibile frammento di ciborio, raffigurante un pavone che si abbevera a un vaso contornato da intrecci tipicamente gotici o longobardi, forse dell’VIII secolo, con accanto il segno dell’infinito(l’otto rovesciato) un grappolo d’uva e una specie di triscele. L’iconografia del pavone rimanda immediatamente alla resurrezione di Cristo e all’immortalità dell’anima, si credeva che la carne di pavone non si deteriorasse, l’uva è il sangue di Cristo, mentre intrecci e triscele rimandano addirittura a reminescenze celtiche. Nella sezione storica artistica troviamo alcune ceramiche, dipinti e affreschi tra cui la Madonna dell’Umiltà, patrona di Galeata, del 1330 circa.

 

immagine: chiave romana con testa di molosso

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di romagna” il giorno 08/06/2015

Tra le panchine e le colline di Roncofreddo

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Visitare i piccoli paesi dislocati sulle nostre colline, è assai rilassante sia per la bellezza del paesaggio, sia   per le piccole e grandi scoperte che si trovano. Roncofreddo si trova sulle colline cesenati, l’etimologia del suo nome è incerta, potrebbe significare estirpare/insensibile. Il suo verde è incredibilmente selvatico, e deborda fra gole e ruscelli. La località si popolò attorno all’anno Mille, il maggior sviluppo coincise con la dominazione dei Malatesta nel corso del XIII sec. Il piccolo abitato è raccolto e ingentilito da scalinate, si presenta con un belvedere con panchine, con vista mozzafiato e un cippo che ricorda il suo cittadino più  noto:Giuseppe Babbi (1893/1969). Babbi fu un uomo politico di Azione Cattolica. Avversò il fascismo,fu arrestato e imprigionato. Nel dopoguerra contribuì alla nascita a Rimini della Cooperativa per la macellazione, la Cantina sociale, la Cooperativa sementi, a Cesena il Consorzio produttori latte, e a Forlimpopoli  e a Savignano sul Rubicone, la Cantina sociale. Fu consigliere provinciale a Forlì, poi nel 1948 fu eletto in Parlamento. A due chilometri da Roncofreddo si trova la Pieve di Santa Paola, sin dalle origini designava anche tutto il territorio circostante in cui era stanziata la comunità, è dedicata alla Santa qui nata verso il VI secolo d.C., citata in più documenti col nome di Paola, poi Stefania e infine Paola. S. Paola era una pastorella, morì a soli 15 anni, le sue reliquie sono conservate nella chiesa. La pieve restaurata in diverse occasioni è a un’unica navata, ha la facciata tipi­camente settecentesca. All’interno negli altari laterali ci sono pregevoli opere, il primo a destra è dedi­cato a S. Paola e quello di fronte a S. Caterina d’Alessandria, entrambi presentano affreschi attribuiti al pittore for­livese Livio Agresti. Secondo la leggenda uno dei miracoli della Santa era la mutazione dei sassolini che teneva in tasca, per ricordare le preghiere del rosario, in petali di rose. Una delle occasioni per visitare Roncofreddo può essere la Sagra del Pisello che si tiene la terza domenica di maggio. Fra varie bancarelle di ortaggi, frutta e altre mercanzie, troveremo, ispirata alla favola di Andersen, anche la principessa sul pisello, una bella fanciulla su un letto con tanti materassi… occorre indovinare il numero dei piselli sotto al giaciglio per ottenere il premio.

immagine: roncofreddo, la principessa sul pisello

articolo già uscito sul quotidiano  “La Voce di Romagna” il giorno 01/06/2015

Le storie di Malipiero

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Era nato un anno imprecisato di fine Ottocento, forse proprio il 1899. Non sapeva né leggere, né scrivere,  ma era un gran lavoratore, già a dieci anni portava sacchi e vangava, almeno era quello che raccontava a noi ragazzini. Io che ero molto più scettica da bambina che oggi, non credevo nulla di ciò che raccontava ma mi piaceva un sacco ascoltarlo, era come ascoltare delle favole. Molto povero, partì volenteroso e con molte speranze, per l’Africa, esattamente nella Libia. Erano gli anni Trenta e l’Italia tentava l’avventura coloniale in Libia. Malipiero, rideva raccontando di un suo amico “testone rosso”, che aveva famiglia e aveva talmente fame che “si sfogliavano le ossa”, che non partì perché non volle prendere la tessera del fascio, nonostante avesse visto i vantaggi che portava, Malipiero scuoteva il capo, se tieni famiglia devi abbassare la cresta, per loro, mica per te e questo non è un disonore. Malipiero partì con la valigia di cartone legata alla meglio. Gli piacque molto l’Africa, le donne erano molto belle e sorridenti, lui lavorava alla costruzione di una strada che non finiva mai. Si stava bene, cibo abbondante, ma c’era un grosso problema, il caldo causava una gran dissenteria, non te ne liberavi proprio per niente. A casa, nella campagna ravennate  la famiglia lo diede per disperso, egli in tre anni che stette via, non scrisse mai a casa, anche se i famigliari si erano raccomandati, a braccia in croce, di rivolgersi a qualcuno che sapesse scrivere e gli avevano dato un cartoncino su cui il prete aveva scritto i dati di Malipiero e il suo indirizzo. Lo stupore quando se lo videro davanti alla porta fu tanto, egli non aveva dato sue notizie, perché aveva perso il cartoncino col suo indirizzo di casa. Nel dopoguerra iniziò il duro lavoro di bracciante, aiutato da una cooperativa rossa, per riconoscenza iniziò a portare sempre una maglia rossa, e ad affiggere una copia fresca di giornata dell’Unità, la sua bibbia, alla sua porta di casa. Antesignano dei salutisti di oggi, si cibava dei prodotti del suo orto. Il suo più grande successo, era una vigna nata spontaneamente dai suoi escrementi; infatti, svuotava metodicamente il pitale nell’orto accanto al muro di casa, con grande sprezzo del vicinato. Rimasto vedovo decise di risposarsi. Si rivolse a un sensale, questi organizzò un pullman, con altri uomini nelle stesse condizioni di Malipiero, che partì per l’Abruzzo. Malipiero tornò con una sposa. Ridenti, chiassosi ed allegri, gli sposi viaggiavano su un’apecar, lui alla guida, lei seduta in poltrona sul cassone del veicolo, una volta affrontando la curva del paese, il furgone si inclinò e la sposa volò nella scarpata, fortunatamente illesa. Il racconto più strano di Malipiero, verteva su una notte in cui tranquillamente dormiva, era appena adolescente, allora abitava in un capanno a Porto Corsini, quando all’improvviso, sirene, urla, chi scappava di qua, chi di là, scontrandosi l’un l’altro, spari, boati, non si capiva nulla, chi diceva che c’erano gli austriaci con le corazzate, chi i cannoni. “Ma tu avevi paura?”. Alla nostra domanda solita, Malipiero rispondeva:“No, perché i più dicevano che la Guardia Marina non aveva capito nulla, che aveva scambiato un grosso tronco d’albero per una corazzata, solo dopo ho saputo che era un attacco austriaco della Grande Guerra, ma ormai era passato tutto”. E noi: “Buu”, non credevamo a una sola parola. Alle 15.30 del 23 maggio 1915 fu consegnata al governo austriaco la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia. Alle ore 3.20 del 24 maggio, mentre Porto Corsini era sprofondato nel sonno, alcune navi da guerra della flotta austro ungarica entrarono nel porto canale cogliendo di sorpresa i militari della base. La flotta era salpata da Pola a mezzanotte, era composta da quattro torpediniere, un incrociatore e un cacciatorpediniere. Quest’ultimo avrebbe dovuto affondare i mezzi navali militari nel porto per bloccare il transito nel canale che da Porto Corsini va a Ravenna. Colpì invece alcuni pescherecci, il faro, la stazione di salvataggio e varie abitazioni private, ci furono diversi feriti, anche tra i civili, e il primo morto di guerra.
immagine: vecchia veduta di Porto Corsini

articolo già uscito sul quotidiano  “La Voce di Romagna” il giorno 01/06/2015

La sagra delle ciliegie, una prelibatezza

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Magari in una giornata di fine maggio, quando a Longiano si svolge la Sagra delle ciliegie, recatevi in questo  attraente paese, poco lontano da Cesena. Nel centro storico è un po’ una “Santa allegrezza” (canto popolare pugliese che esprime una genuina e pura gioia), per me le ciliegie sono molto di più, sono i frutti più belli, e gli orecchini più preziosi, una credenza siciliana sostiene che la coppia di ciliegie messa sull’orecchio attiri i baci. Per i greci, la ciliegia era il simbolo di Venere, e portava fortuna agli innamorati. Più antipatiche le leggende nordiche, secondo cui la ciliegia sarebbe simbolo del peccato originale, gli inglesi poi ritengono che sognare un ciliegio sia presagio di sfortuna, ma sappiamo che col sesso/amore gli inglesi sono un po’ freddini. In Oriente, la ciliegia ed in particolare l’albero di ciliegio sono associati alla     delicatezza femminile, mentre si dice, che il colore rosato dei fiori dei ciliegi sia dovuto al sangue dei samurai, sepolti ai piedi di questi alberi che tra l’altro erano anche il luogo prescelto per i guerrieri che volevano praticare il karakiri. Ricordatevi di esprimere 3 desideri ogni prima volta dell’anno che mangiate ciliegie, forse si avvereranno, ma non raccogliete mai i rami in fiore del ciliegio, annullano tutti gli effettivi benefici. Immersi nella magia di questo frutto così amato dagli artisti, rappresentato in molte opere d’arte e citato in racconti e poesie siamo pronti per calarci nell’atmosfera della Fondazione Balestra. La Fondazione si é costituita nel 1989 con la collezione di arte moderna del poeta e scrittore longianese Tito Balestra, ha sede nel Castello Malatestiano. La raccolta comprende oltre 2000 opere pittoriche, grafiche e scultoree. Nelle sale del castello sono esposte numerose opere di Mafai, Rosai, De Pisis, Morandi, Guttuso, Vespignani, Bartolini, Zancanaro, Ziveri, Campigli, Fantuzzi, Sironi, Vangelli e di altri maestri del Novecento. Una sala é dedicata alle opere di artisti stranieri come Chagall, Kokoschka, Matisse, Heckel,Goya. La Fondazione detiene moltissime opere di Mino Maccari (1898/1989), artista che usa la cartavetrata sia nella pittura che nella scrittura. Fu direttore della rivista “Il Selvaggio”, fascista intransigente, rivoluzionario  e antiborghese … un suo aforisma: “Ogni imbecille tollerato è un’arma regalata al nemico”.

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno25/05/2015

Ultimi giorni di Bel Paese

Fortunato Depero  “Guerra, Guerra!”

Sino al 14 giugno il Museo d’Arte di Ravenna ospita la mostra “Il Bel Paese. L’Italia dal Risorgimento alla Grande Guerra, dai macchiaioli ai futuristi”, a cura di Claudio Spadoni. La visita è introdotta dalla frase di Dante “bel Paese là dove il sì suona” (Inferno, XXXIII).  Il Poeta la scrive come invettiva contro l’Italia bella sì, ma violenta. Si inizia col dipinto: “Veduta fantastica dei principali monumenti d’Italia” (1858) di Petrus Henricus Theodor, il pittore colloca fra mare e monti, la Lanterna di Genova, San Marco di Venezia, il Duomo di Milano, le Torri di Bologna, e poi sempre più giù per arrivare al Vesuvio. Ci sono poi le tele che ritraggono i momenti della guerra, l’assalto a Porta Pia, Garibaldi all’assalto di Roma, una bella vivandiera e momenti di riposo in caserma, i colori sono brillanti, le scene luminose, la guerra non pare tanto brutta. Molte vedute riguardano i monti, due molto evocative, realizzate con pastelli su carta, sono di Gaetano Previati, pittore ferrarese, simbolista e divisionista, rappresentano il Resegone e il San Martino, monti lombardi citati nei Promessi Sposi dal Manzoni. Si può poi ammirare un’immagine  del sobborgo di Porta Adriana a Ravenna del 1875, di Telemaco Signorini, pittore macchiaiolo, e notare così quanto fosse povera e desolata la città, le donne con la testa e le spalle coperte da scialli neri, una al centro della strada a piedi nudi con una fascina sulla testa. L’opera “Balcone del Palazzo Ducale” del 1881 è una gioia per gli occhi, è del veneziano Giacomo Favretto, uno dei più importanti maestri dell’Ottocento italiano; pittore che ebbe enorme successo nonostante la breve vita. Troviamo anche un dipinto che raffigura la mondanità, è del pittore ferrarese Aroldo Bonzagni, artista che rappresenta il reale con molta ironia: su uno sfondo rosso avanzano donne superbe e damerini impomatati, Bonzagni rende tangibile la loro arroganza. Una tela del pittore francese Jean-Victor Schnetz raffigura il lancio delle violette, al carnevale romano, fra ragazzi e fanciulle. Forse un antico ricordo della festa romana che si teneva alla fine di febbraio in onore di Attis, dal cui sangue per amore nacquero le viole. In Francia, ancora oggi si trovano i fiori di viole zuccherati, che i ragazzi donano alle loro innamorate per San Valentino. “I grassi e i magri” luminosa tela di Enrico Lionne esponente del Divisionismo romano. In un prato all’aperto ricchi signori ben panciuti mangiano accanto a tavole imbandite, mentre due suonatori magri stecchiti cercano di raggranellare qualcosa allietandoli. Sorrido fra me, oggi in occidente  la magrezza è un pregio inestimabile, paradossalmente sono i poveri a essere grassi in quanto mangiano molta pasta che costa poco, ma ingrassa. Poi una serie di ritratti di donne belle come Madonne, popolane sì, ma fiere, tra cui il ritratto di Vittoria Caldoni, figlia di un vignaiolo di Albano che a quindici anni venne scoperta per la sua bellezza. Divenne nota in tutta Europa, posando per i più noti pittori, incarnando l’ideale della bellezza popolare italica. Queste ragazze le ritroviamo coi loro lavori umili e faticosi: “La sbianca” del monzese  Eugenio Spreafico, le fanciulle dopo aver lavato i teli li stendono sull’erba per farli sbiancare. Oppure “Le gramignaie al fiume”, del macchiaiolo fiorentino Nicolò Cannicci, del 1891. Le gramignaie erano giovani donne che per combattere la miseria, raccoglievano nei mesi di febbraio-marzo la gramigna, poi pulivano le piante al fiume stando a piedi nudi nell’acqua gelida e infine le vendevano come medicinale per le bestie. Finite le scene poetiche del verismo macchiaiolo, troviamo i futuristi. Un collage di Fortunato Depero dal titolo “Guerra, Guerra!” del 1915, mostra al centro della composizione astratta una foto di un giovane rabbioso col pugno alzato. I futuristi volevano che l’Italia entrasse in guerra, e guerra fu, volevano spaccare tutto, non salvare niente perché tutto era marcio. Rabbrividisco con modalità diverse sta accadendo anche oggi. La mostra termina con la pacata immagine del metafisico Giorgio De Chirico e una mirabile sinfonia di rossi di Felice Casorati.

 

immagine: “Guerra, Guerra!” di Fortunato Depero

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno25/05/2015

Quando passa la banda…

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Mina cantava… “Una tristezza così/ non la sentivo da mai/ma poi la banda arrivò/ e allora tutto passò?”. La Banda è sinonimo di allegria, di spensieratezza. Nell’assistere a un concerto di una banda ci si trova di buonumore anche se si sta accompagnando un funerale. Era solito un tempo che ai funerali ci fosse la banda, a volte suonava l’Internazionale, ebbene in quel momento a me sembrava che il morto uscisse dal carro funebre e salisse come una tromba d’aria al cielo, tale era l’impeto della musica. Una banda è un complesso musicale formato solo da strumenti musicali a fiato e a percussione con l’assenza degli archi. Giuseppe Verdi, Amilcare Ponchielli e Pietro Mascagni, sono autori che hanno ricoperto il ruolo di maestro di banda e hanno composto per banda. Oggi nei conservatori di musica è da molto tempo possibile conseguire il diploma in Strumentazione per Banda. Esiste, la Banda da parata, da concerto, di ottoni, e poi la Fanfara, composta esclusivamente da ottoni. La musica è una materia sia scientifica che tecnica che artistica. Musica significa, “arte delle muse”quindi pensate un poco alla rilevanza e all’importanza che gli antichi greci diedero a tale arte, arte delle arti, in cui l’uomo tramuta l’aria, il respiro che dà la vita, in musica, qualcosa che ci trasporta ben oltre i sensi. Il valore simbolico degli strumenti a fiato, si mantiene attraverso le epoche e in tutte le tradizioni. Nel mito, Apollo suona la lira, vince solo con l’inganno il confronto con Marsia che suona l’oboe. In India gli incantatori di serpenti usano una sorta di flauto. Nei culti esoterici del mondo classico greco-romano (Orfici e Dionisiaci) venivano utilizzati soltanto strumenti a fiato. I Romani li usavano per manifestazioni religiose, militari e civili. Nel Medioevo si formano i primi gruppi musicali simili alla banda, tra i quali il complesso che accompagnava il Carroccio; la sacralità della musica di Chiesa viene affidata all’organo, che è assimilabile ad uno strumento a fiato. Successivamente, Mozart confermò la sacralità degli strumenti a fiato, pensate alla sua opera forse più famosa: “Il Flauto Magico”in cui i passaggi peculiari sono sempre suonati dai fiati. E’ innegabile che la musica, ogni genere, ci trasporta in altri mondi più vicini al cielo. Gli strumenti a fiato rappresentano l’istinto e l’emotività; mentre quelli a corda descrivono la razionalità e il pensiero. Gli strumenti a percussione hanno un ruolo secondario nella tradizione musicale occidentale, soltanto in tempi recenti si sono iniziati ad usare ampiamente. Presso molti popoli, i tamburi accompagnavano la preghiera, risvegliando gli spiriti che governano il mondo. Il ritmo delle percussioni non ha soltanto un senso estetico, ma anche simbolico: esso descrive il ritmo vitale del mondo, non solo, nel momento stesso in cui descrive lo spirito che governa la realtà, modifica quest’ultima, assumendo la funzione di strumento magico. L’origine della banda, così come è intesa oggi, risale al XIV secolo, prestava servizio presso le Corti. In Italia, invece, fino al 1860 non esistevano bande con l’organico predefinito e solamente lo stato Pontificio possedeva qualche banda che lavorava a tempo pieno, mentre altrove le bande civili suonavano per lo più in occasioni speciali, quali nozze e ricevimenti di sovrani. In Romagna, ogni città e anche diversi paesi hanno la loro Banda. A Ravenna, la Banda Musicale Cittadina, diretta dal professor Mauro Vergimigli, è una formazione composta da tanti musicisti di età compresa fra i16 e gli 80 con il compito di mantenere vive le tradizioni popolari, divulgando ogni genere di musica dal folclore alla canzone, dal marciabile al sinfonico, dall’operettistica all’operistica, dalla patriottica alla religiosa. La partecipazione della Banda Cittadina alla vita pubblica, ha trovato un formale e stabile riconoscimento da parte del Comune di Ravenna. La Banda affianca così numerosi eventi pubblici, l’ultimo, pochi giorni fa al “Raduno dei marinai d’Italia”,riconoscimento  del livello artistico raggiunto e  del ruolo che essa svolge nella diffusione della conoscenza e della cultura musicale.

immagine: Banda Città di Ravenna

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Ravenna” il giorno 18/05/2015

La storia romagnola di Giochino Rossini

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Gioachino Rossini (1792/1868) sarà anche nato a Pesaro ma le sue radici sono ben piantate in Romagna, lui stesso parlava con affetto della sua casa di Lugo in cui aveva vissuto pochi anni… gli anni della fanciullezza; tra l’altro Pesaro fa parte di quel territorio: il Montefeltro che accomuna tanti centri che hanno affinità  con la cultura e la storia della Romagna. A Lugo, abitò in via Manfredi 25, dove una lapide ricorda la sua presenza dal 1802 al 1804. Sempre a Lugo, Rossini fu presso la scuola dei Canonici Malerbi, dove imparò i primi rudimenti di suono e di canto. Era di semplici origini, il padre era suonatore  di corno nella banda cittadina e nelle orchestre locali, mentre la madre, era una cantante… nelle vene del Maestro scorreva sia la musica che il canto. La musica di Rossini ravvivò gli animi dell’epoca, egli rese brillante ed imprevedibile l’orchestra, accentuò la dinamica attraverso l’uso del crescendo e del concertato, impose ai cantanti, il “Belcanto” cioè i virtuosismi, eppure fu considerato un conservatore. Forse fu per questa critica che Rossini, a soli 37 anni, smise di scrivere musica. Fra le opere che ebbero maggior successo e che ancora vengono rappresentate ci sono :“Il Barbiere di Siviglia”, “La gazza ladra”, “Semiramide”  e il “Guglielmo Tell”. Tema  basilare dell’opera buffa rossiniana è l’incompetenza dell’uomo di fronte ai fatti e agli imbrogli in cui si trova coinvolto contro la sua volontà. Io lo trovo molto romagnolo: roboante, permaloso e ironico. Un aneddoto narra che il barone Rotschild regalò a Rossini dei meravigliosi grappoli d’uva, frutto dei propri vigneti. Il Maestro lo ringraziò così :“La vostra uva è eccellente, ma il vino in pillole mi piace poco!”. In seguito il musicista ricevette un barilotto di buon vino. Un altro episodio racconta di Rossini che stanco di sentire le richieste di una cantante, forse per liberarsene, la raccomandò a un tenore, che rimase sorpreso per lo scarso valore della donna. Chiese spiegazioni al Maestro che rispose: “Se era buona si raccomandava da sé, no?”. Io ritrovo in questi  due aneddoti molto del carattere romagnolo. Avrete capito che sono una fan di Rossini, la sua musica mi dà gioia e movimento, mi galvanizza, non annoia mai, il mio pezzo preferito è “La gazza  ladra”, sarà perché l’avevo già apprezzata, quando amavo solo il rock, nel film Arancia Meccanica di Stanley Kubrick.

immagine: Gioachino Rossini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Ravenna” il giorno 18/05/2015