Psichedelia a Verucchio

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Verucchio è un borgo poco lontano da Rimini, dal fascino intatto, una bellezza paesaggistica della Valle del  Marecchia. Fu culla dei Malatesta e della civiltà Villanoviana. Ricchi reperti, di questa civiltà, forse etrusca, sono stati riportati alla luce dalle necropoli scavate attorno al paese, oggi esposti nel Museo Civico Archeologico. Nel mese di luglio, in questo borgo appollaiato su un masso, si svolge il Verucchio Festival, quest’anno giunto alla XXXII edizione, il cui intento è quello di proporre nuove alchimie musicali e sperimentazioni artistiche, con la direzione artistica di Ludovico Einaudi. Sabato 16 luglio, sul sagrato della Chiesa della Collegiata, si è esibita la band dei Kula Shaker, che si chiama così in onore del santone Kulashekhara, uno dei dodici Alvar (poeti e mistici hindu). Il gruppo musicale inglese, influenzato dal rock psichedelico degli anni 60/70 e dalla musica tradizionale indiana, vent’anni dopo l’uscita del loro ultimo disco “K”, si ripropone con una nuova carica e pieno di energia. Il leader del gruppo, cantante e chitarrista, è  Crispian Mills, un quarantenne che più che un Peter Pan sembra la sua fata e amica Campanellino. Crispian è esile, coi biondi capelli a caschetto, ha l’energia di un folletto e sul palco diventa “magico”, per il suo stile vocale ricorda vagamente Bob Dylan; oltre alla chitarra, suona anche l’armonica, l’ukulele (strumento a corde hawaiano) e il sarod (strumento a corde indiano). In una fredda, per il periodo, sera d’estate, due ore di intenso concerto corroborato da un’ottima regia delle luci. Sul palco fra fiumi d’incenso e saette di luci è apparsa la band, su un palcoscenico allestito come sospeso fra i monti da una parte e l’imponente Collegiata dall’altra, riscaldando la temperatura e creando un’aura emotiva veramente “altra”, senza bisogno di alcol o stupefacenti. Una mistura di rock psichedelico, di musica tradizionale indiana, la giusta dose di pop e con una spruzzata di pepe “orgasmico”… certa musica è infatti capace di dare vita ad un vero e proprio orgasmo della pelle, poiché rizza i peli sulle braccia, provoca brividi lungo la colonna vertebrale e sudorazione improvvisa. Questa eccitazione veniva creata dall’iniziale musica soft, quasi estenuante, per poi salire all’improvviso in un suono talmente fragoroso da rimbombarti nella cassa toracica, col risultato di sentirti pienamente viva e gioiosa. Il rock psichedelico si sviluppò negli Stati Uniti e nel Regno Unito fra gli anni 60/70, si ispirava alle esperienze di alterazione della coscienza derivanti dall’uso di sostanze psichedeliche come cannabis, funghi allucinogeni, mescalina, e soprattutto LSD. Diversi gruppi e artisti ne fanno parte, fra cui troviamo i Doors, in parte i Pink Floyd, ma anche i Beatles con “Lucy in the Sky with Diamonds”. Nelle esibizioni dal vivo venivano spesso utilizzate particolari illuminazioni di scena o altri elementi coreografici inusuali. Il rock psichedelico fu in ogni caso una musica volta alla sperimentazione e che cercava, con varie modalità specifiche, l’insolito e lo “stupefacente”. Il Movimento psichedelico non fu solo musicale, si ritrova nelle arti visive, nel fumetto, nella moda, nel cinema, fu portatore di idee ed ideali in vari ambiti, anche se furono idee spesso confuse e velleitarie. La generazione psichedelica fu, in altre parole, una generazione proiettata verso la ricerca attiva di un “qualcosa” che permettesse una consapevolezza piena, un Movimento rivoluzionario affiancato a quello dei Figli dei Fiori e alle grandi rivolte (prima studentesche e poi operaie) in Europa e negli Stati Uniti. Molti personaggi si entusiasmarono all’idea che si potesse giungere ad un controllo volontario degli stati di coscienza: l’uso degli allucinogeni veniva esaltato, sappiamo poi come andò a finire… una generazione bruciata. In questi ultimi anni si riscontra, nella società, un ritorno agli anni ’70, al netto del vivere pericolosamente ma riprendendo certe idee di amore universale, legate ad un vivere sano in armonia con la natura, Crispian ha ringraziato il folto pubblico, per poi rivolgersi verso la Chiesa, ringraziando San Francesco… il rock stia diventando angelico?

immagine: Crispian Mills

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 25/07/2016

     

La fontana degli scout

Qui Quo QuaLo spazio posto di fronte al Museo d’Arte di Ravenna, è un ameno giardino intitolato a Benigno Zaccagnini, vi sorgeva un tempo il Monastero di Porto, che fu demolito nel 1885, per consentire la costruzione della caserma ‘Garibaldi’, quest’ultima, dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, fu smantellata completamente verso la fine degli anni Cinquanta, per consentire l’attuale riassetto della zona. Il giardino è molto bello, con lunghe fila di fiori accostati in armonie di colori, in mezzo al prato raso, certo ci sono dei vasi di mosaico, messi lì un po’ senza pensarci, ma prima o poi si spera che vengano sistemati con cura, magari in due fila che accompagnino l’entrata al Museo. Nel parco vi è una bella fontana, realizzata nel 1974, dall’architetto Mario Natali, ravennate e scout, morì giovanissimo all’età di 33 anni. La fontana è composta da due vasche quadrate che opportunamente sfalsate creano un particolare effetto di cascatella, si inserisce armoniosa nel giardino e reca un’iscrizione dedicata al mondo degli scout. Matteo Renzi è forse lo scout più conosciuto d’Italia, ma ve ne sono altri di famosi, Pier Ferdinando Casini, Pupi Avati, Renzo Piano, Enrico Brizzi, Ignazio Visco, Carlo Verdone, Elio di Elio e le storie Tese, solo per citarne alcuni. L’esperienza educativa degli scout è una formazione a valori che non sono relativi, ben lungi dal relativismo, sono verità formatesi lungo i secoli della storia umana. Uno dei miei più grandi rimpianti è il non essere stata una Giovane Marmotta, lettrice e fan di Walt Disney, di Paperino, di Qui, Quo e Qua, i paperi boyscout, Qui (colore rosso) è il più coraggioso, Qua (colore verde) il più impulsivo, mentre Quo (colore azzurro) è il più intelligente e il primo a innamorarsi di Paperella, la nipote dell’eterna fidanzata di Paperino. I tre paperi hanno una struttura massonica, hanno a capo un Gran Mogol (normalmente chiamato G.M., come il Gran Maestro della massoneria). Inoltre i boys scout sono stati fondati da Baden Powell, pare anch’egli massone. Anche Walt Disney era un massone, quel tipo di massoneria di un tempo che esortava ad essere curiosi e aperti verso chi è diverso e da ciò che è diverso da sé, verso il buono e il bello. Vi scrivo le leggi dello scout: 1) Pongono il loro onore nel meritare fiducia; 2) Sono leali; 3) Si rendono utili e aiutano gli altri; 4) Sono amici di tutti e fratelli di ogni altra Guida e Scout; 5) Sono cortesi; 6) Amano e rispettano la natura; 7) Sanno obbedire; 8) Sorridono e cantano anche nelle difficoltà; 9) Sono laboriosi ed economi; 10) Sono puri di pensieri parole e azioni. Pochi sanno che, l’Asci, il movimento cattolico scout italiano, ha origini anche romagnole, fu infatti il conte Mario di Carpegna (1856-1924) che ebbe questa idea. L’Asci nasce nel 1916 e si diffonde rapidamente diventando ben presto una realtà consolidata in tutte le regioni italiane, con l’avvento del fascismo è costretta a sciogliersi, nell’immediato dopoguerra l’Asci riprende vita, gli iscritti aumentano e nel 1974 c’è la fusione delle unità maschili e femminili, nasce l’Agesci. Oggi sono ancora una realtà e un faro per l’educazione dei giovani e dei giovanissimi. Mario di Carpegna, lo si può ritenere uno dei “profeti” dello scautismo cattolico italiano, che gode di buona fama proprio a motivo della precisione metodologica con cui porta avanti il suo programma. Il conte di Carpegna è stato certamente un educatore di grande spessore, fondò con entusiasmo l’impresa degli scout a sessant’anni. A Carpegna (Pesaro, non è Romagna, ma quasi), nel parco delle Querce, c’è il monumento al conte Mario di Carpegna, opera dell’artista Umberto Corsucci di Montefiore Conca. Carpegna è un vero gioiello della ‘piccola Italia’, fra l’altro c’è il palazzo abitato dai principi eponimi (la loro casata è una delle più antiche d’Italia); la biblioteca è piena di incredibili documenti, da Carlo Magno a Napoleone… e il conte fondatore dell’Asci a sessant’anni era certamente un saggio dal cuore bambino. Termino con un sogno, mi piacerebbe che la Fontana degli Scout, fosse arricchita da sculture, come la celebre Fontana Stravinsky che si trova vicino al Centro Pompidou di Parigi.

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 18/07/2016

Romagnolo ironico e tragico

Nevio-SpadoniDante Alighieri (1265/1321),fu il primo che pose il problema di una lingua nazionale “volgare”, cioè non “latina”, il testo in cui parla di questo argomento è De Vulgari Eloquentia (Sulla retorica in volgare), scritto in esilio, in latino, rivolto ai letterati di professione. Doveva essere in quattro libri, ma terminò al secondo libro, probabilmente a causa della composizione della Commedia. Dante si chiede qual è il volgare più colto e illustre d’Italia? Dopo aver distinto 14 gruppi di dialetti, ci dice che sicuro non è il romano, che è il più turpe, essendo i romani, per i costumi, sopra a tutte le genti corrottissimi (guarda caso lo si dice anche oggi). Senza dar troppe spiegazioni, Dante liquida subito anche i milanesi, i bergamaschi e gli istriani, nonché tutte le parlate montanine e rusticane, e anche i sardi che non sono italici, in quanto privi di un loro proprio volgare e imitatori di grammatica. Sul dialetto siciliano, Dante scrive che è importantissimo perché qui è nata la rima poetica (la canzone, il sonetto, la tenzone). Tuttavia, dice Dante, se questo volgare fu illustre al tempo di Federico II di Svevia e di Manfredi, a partire da Carlo d’Angiò s’è imbarbarito; senza poi considerare, prosegue Dante, che qui si parla di volgare scritto, quello degli intellettuali di corte, che quello degli isolani è sempre stato barbaro. I pugliesi, quando parlano, sono barbari, seppure nello scritto abbiano tradizioni illustri. Fra i toscani vi sono stati eccellenti letterati in volgare, tra cui Dante stesso; tuttavia la loro parlata non è certo illustre, anzi è turpiloquium, e infroniti (dissennati) sono coloro che, solo perché parlanti, lo ritengono il dialetto migliore. La parlata dei genovesi, dominata dalla zeta, è anche peggio. Giudizio negativo è per tutti i dialetti veneti, mentre, fa l’elogio del bolognese: una leggiadra loquela, lo definisce, poiché si è formato come sintesi dei volgari delle città confinanti: Ferrara, Modena, Imola ecc. Tuttavia il bolognese non è aulico né illustre, tant’è che nessuno lo usa per poetare. E sul volgare romagnolo cosa scrive Dante? Il romagnolo conterebbe aspetti troppo femminili e altri talmente rudi da far pensare che le donne siano in realtà degli uomini. Dante è sempre pungente e sempre c’azzecca, come non pensare all’azdòra romagnola, robusta, abituata alla fatica e decisa nel carattere? Oggi il dialetto romagnolo non è scomparso del tutto, grazie a Libero Ercolani autore del Vocabolario Romagnolo/Italiano, all’Istituto Friedrich Schürr,che salvaguardia e valorizza il nostro dialetto e all’opera tenace di alcuni poeti romagnoli che continuano a farci vivere la nostra terra con i loro versi. Le cose migliori scritte in romagnolo per il teatro sono state scritte da poeti, quali Raffaello Baldini o Nevio Spadoni, quest’ultimo dà vita a un mondo intriso da una vena di melanconica follia, ci sono cose, la follia è una di queste, che dette in dialetto risultano di più facile comprensione, più intime ma allo steso tempo dicibili. Alle rappresentazioni di Nevio Spadoni, il pubblico ride, io non ci riesco, quasi piango, i suoi personaggi sono ricchi di umanità e malmenati da una vita dura e cruda. Purtroppo, questa vena poetica, a volte non si ritrova in tutte le commedie in dialetto, a volte gli autori mettono in fila quattro o cinque personaggi tipici e un mucchio di battute standard, creando un riso vuoto che non lascia nulla, neanche una piccola emozione. Ma ci sono anche compagnie teatrali dedite con passione a portare in scena una Romagna che non c’è più, una Terra di ben salde radici, di un pensare rude, ma leale e onesto e che pure sa ridere di se stesso, qualità che oggi mancano. Fra le tante compagnie dialettali cito quella di Bagnacavallo che quest’anno compie settant’anni, affonda le proprie radici nel lontano 1940, anno in cui Guido Fiorentini, grande appassionato di teatro, diede vita alla filodrammatica bagnacavallese. Nel 1946 sempre Fiorentini assieme ad altri fondò la Rumagnola Cdt (Compagnia dilettantistica teatrale). Arrivarono presto i primi successi con i testi di Missiroli e Maioli, autori della ricerca, dell’ironia e dell’emozione.

immagine: Nevio  Spadoni

articolo già pubblicato  sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 11/07/2016

 

 

 

 

 

 

LA NOVAFELTRIA DI GRAZIANI

GrazianiLiveNovafeltria, è un grande borgo che fino al 1941 fu chiamato Mercatino Marecchia, è a circa mezzora di auto da Rimini, l’abitato si stende lungo al fiume Marecchia, dove ancora stanno alcuni mulini storici, tra cui il Molino per la produzione della polvere pirica, recentemente restaurato, la produzione della polvere da sparo era legata all’estrazione dello zolfo nella vicina miniera di Perticara. Nella piazza si affaccia il bel palazzo Comunale, con al centro una suggestiva fontana. Nel 2009 il Comune di Novafeltria è passato dalla regione Marche alla Romagna, e come terra di confine ha quel qualcosa che unisce e divide, perché la linea di divisione è anche linea di contatto e forse non è un caso che Ivan Graziani, quest’anno sono 19 anni dalla sua scomparsa, benché fosse abruzzese, di Teramo, avesse scelto Novafeltria, come suo luogo di appartenenza, località della moglie Anna. Ivan era un’artista a tuttotondo, non solo cantautore, poeta, scrittore, Graziani era anche pittore e scultore, nonché appassionato nel disegno, ma soprattutto era un talentuoso chitarrista. Più gli anni passano e più si sente la sua mancanza, era un poeta e musicista atipico e unico, con incisioni come “Pigro” (1978) e “Agnese dolce Agnese” (1979), e poi Limiti e Navi, anagramma di Ivan, quest’ultima canzone è la mia preferita e ogni volta che l’ascolto mi si rizzano i peli sulle braccia, perché si coglie il confine/limite fra la realtà e ciò che non è, ciò che c’è ma non si vede… Che posso fare, tu che puoi fare/ se navighiamo in senso inverso in mezzo al mare/ tu sei libeccio ed io maestrale/ son sempre venti sì, ma non è uguale/ e nessun porto mai ci vedrà tornare. E io cosa posso mai fare per ricordarlo degnamente, se non partire da ciò che forse più lo caratterizzava e cioè la chitarra, il suono e la simbologia di questo strumento che da classico diventa elettrico trasformandosi nello strumento del diavolo? Del rock e dell’ heavy metal? La chitarra ha una storia molto lontana, il mito greco-romano, narra che, da un guscio di tartaruga e alcuni tendini, Hermes (Mercurio) ricavò quello che i greci avrebbero presto chiamato “kithara”. Esistono alcuni prototipi di chitarra, rinvenuti in tombe egizie dal VII al VI secolo a.C., probabilmente precursori dello strumento definitivo che avrebbe avuto origine in Spagna. Furono proprio gli spagnoli a darle l’attuale forma, fondando la prima scuola basata sul virtuosismo (il Flamenco, il Duende).
 Stradivari, già noto per i suoi celebri violini, costruì anche chitarre; Paganini, fu un virtuoso non solo di violini ma anche di chitarre; Haydn, Schubert e Rossini composero delle partiture, Verdi la inserì nella formazione orchestrale e poi dopo una serie di esperimenti nacque intorno al 1940 la prima chitarra dotata di pick-up, che consentiva di trasformare il suono in segnale elettrico e infine fu il rock. Il mito la associa a Mercurio cogliendo l’indole di questo dio ladro, comunicatore, viaggiatore e psicopompo, ma Mercurio, è anche un pianeta, quello più vicino al Sole, e Mercurio è pure un metallo liquido. Mercurio alchemico come il suono della chitarra che provoca il Duende. Cosa è il Duende? Difficile dirlo, forse solo Lorca c’è riuscito, il Duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare, il Duende sale interiormente dalla pianta dei piedi, è sangue, è lo spirito della terra, è il suono della chitarra che diventa anche ribellione quando diventa elettrica e rock. Il primo gennaio 1997 un cancro si porta via Ivan, “un vero chitarrista muore, deve morire sul palco”, amava ripetere, e ci è mancato poco, perché l’ha suonata sino all’ultimo momento, Dio l’ha voluto con sé, quel chitarrista che cantava: “Signore è stata una svista/abbi un occhio di riguardo/per il tuo chitarrista”. Ivan Graziani è sepolto a Novafeltria, nel cimitero locale, con lui vengono seppelliti, una delle sue chitarre (una Gibson che lui chiamava “mamma chitarra”) e il suo gilet di pelle cui aveva applicato un gancio affinché potesse sorreggere la chitarra. Ivan, un cantautore originale e ironico che raccontava la realtà di una provincia di confine/limite tra il di qua e il di là.

immagine, Ivan Graziani

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Vove di Romagna” il giorno 04/07/2016