I simboli del Natale

nativitc3a0-e-preghiera-nellorto-di-beato-angelicoMelchiorre Missirini nasce a Forlì nel 1773. Avviato adolescente alla carriera ecclesiastica, “unica carriera in che nel nostro paese poteva un uomo uscire dall’oscurità”, nel 1876 celebrò la prima messa nella cattedrale di Forlì. All’arrivo dei francesi accolse con entusiasmo le idee rivoluzionarie. Nel 1813, si trasferì a Roma, sottraendosi alle ritorsioni che al ritorno degli Austriaci colpirono i religiosi che avevano appoggiato il regime napoleonico. A Roma conobbe lo scultore Antonio Canova, di cui divenne amico e uomo di fiducia.  Fu Missirini che lesse l’elogio funebre all’artista e due anni più tardi ne scrisse la biografia. Grazie a Missirini,  la città di Forlì possiede i preziosi disegni di Canova, appartenuti all’abate. Missirini fu tra i fondatori della Pinacoteca di Forlì, contribuì con alcune donazioni, tra cui le piccole e pregiate tavolette del  Presepio e dell’Orazione nell’orto di Beato Angelico. Guido di Pietro Trosini, detto Beato Angelico, nacque a Vicchio Mugello tra il 1395/1400. Non si conosce nulla della sua formazione, le sue prime opere di pittura sono andate perdute; fu anche un miniatore; è uno dei più importanti pittori italiani del primo Rinascimento, celebre per la celestiale bellezza dei suoi lavori in cui si respira sempre un fondo di mistica religiosità. Divenne domenicano con il nome di frate Giovanni, pregando con la mente e con il pennello; nelle sue opere si ritrovano delicatezza e precisione dei tratti, finezza nella scelta e nell’accostamento dei colori, raggiungendo spesso una luminosa armonia. La splendente tavola del Presepio presenta in primo piano l’ignudo biancheggiante Gesù con l’aureola crociata in rosso, che indica la prefigurazione della croce. Ai lati del Bimbo, San Giuseppe in manto rosso e dall’altra parte la Madonna in mantello azzurro, dietro il bue e l’asinello, in cima alla capanna nove angeli vestiti di blu. Il presepe è una tradizione tutta italiana. Nel Natale del 1223 San Francesco realizzò a Greccio, con l’aiuto della popolazione locale un presepe vivente con l’intento di ricreare l’atmosfera del Natale di Betlemme, per vedere con i propri occhi dove nacque Gesù. Tutto fu approntato e, con l’autorizzazione di Papa Onorio III, in quella notte si realizzò il primo presepe vivente nel mondo. Ma vediamo un po’ di simbologia. La grotta in cui nasce il Bambino vuole significare che egli nasce per tutti, preferibilmente per i più umili, nega la centralità del potere, ma è anche emblema del Centro del Mondo ed è per eccellenza il luogo della nascita e della ri-nascita, il tetto della grotta rappresenta il cielo e il pavimento la terra. Nella grotta il Bambino è riscaldato da due animali domestici: l’asino e il bue, due tranquille bestie la cui presenza in una stalla è assolutamente normale. Eppure l’asino è simbolicamente ambivalente, è l’animale emblema di ignoranza e di morte; in India è la cavalcatura del Re dei Morti, in Egitto è l’animale di Seth, il Dio del Caos primordiale. L’asino rappresenta la sensualità ed i bassi istinti dell’uomo, il suo colore è il rosso, colore della bestialità e dell’ira. Cristo però entra in Gerusalemme nel giorno delle Palme, sul dorso di un’asina bianca: Egli vuole salvare gli uomini con pregi e difetti, vuole salvare tutti. Il bue ha un aspetto positivo che lo contrappone al toro, simbolo della forza temibile dei re e degli dei, è l’animale usato nel tiro del carro e dell’aratro, simbolo di bontà e di tranquillità. E gli angeli  blu che fanno là in cima alla capanna? Annunziano la Buona Novella, sono un chiaro riferimento dell’Uno nato nella caverna e del suo trasformarsi in molteplicità, ciò è ribadito dal numero nove che rappresenta il numero della generazione e della resurrezione. Il simbolo grafico del nove è il cerchio, come per il numero  uno, è dunque il simbolo della realizzazione. Il colore blu è significato di calma e tenerezza.E’con questa tavoletta di Beato Angelico e una strofa del poeta Salvatore Quasimodo che vi porgo il Buon Natale. “Anche con Cristo e sono venti secoli/il fratello si scaglia sul fratello/. Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino/che morirà poi in croce fra due ladri?”.

immagine: Presepio di Beato Angelico

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22/12/2014

Santa Lucia che festa!

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A Forlì il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia si fa festa con il torrone. Fin dalla prima mattinata, nei pressi della chiesa dedicata alla Santa e i dintorni si riempiono di bancarelle con vari dolciumi e giocattoli ma il “re” è il torrone; tradizione vuole che debba essere donato alle belle ragazze, alle mogli e alle morose. Mentre in piazza si festeggia, nella Chiesa di Santa Lucia si effettua la benedizione degli occhi con la reliquia della Santa. Un tempo non si donava torrone ma castagne, che dovevano essere portate in gran quantità,  come segno di generosità alla morosa, per poi mangiarle insieme. Il 13 si facevano anche previsioni meteorologiche ed i contadini non lavoravano coi buoi ritenendolo un peccato. Avrete capito con tutti questi riti che Santa Lucia è una tradizione anche pagana. Lucina era l’appellativo di Giunone e di Diana, queste dee sono personificazioni della Dea Madre, e hanno come simbolo la luna. Nei giorni più corti dell’anno le dee devono propiziare il ritorno della luce, intesa anche come nascita, infatti erano anche protettrici delle puerpere. Pare che alle dee si donassero soprattutto le sopracciglia. Era doveroso infatti che a loro si riservasse la reliquia più vicina agli occhi. Nell’isola di Ortigia a Siracusa, vi era un tempio dedicato a Artemide, più tardi ne fu edificato un altro per Atena, altre dee della luna: il tempio divenne poi  la cattedrale di Siracusa dove è custodita la statua processionale di Santa Lucia con le sue reliquie. Il culto ha preso forza in tante città d’Italia, con tradizioni diverse, in alcune Santa Lucia è affine alla Befana. In Svezia e in Norvegia, il 13 segna l’inizio del Natale e le fanciulle festeggiano Lucia con corone di sette candele in capo, vesti bianche e raccogliendo i doni natalizi per i bisognosi. Lucia è festeggiata anche ai primi di maggio, secondo una leggenda, tanti anni fa Siracusa fu colpita da una carestia. Non sapendo più che fare, nel mese di maggio la Santa fu esposta alle preghiere pubbliche. Si narra che una  grande moltitudine di quaglie venne a cadere per le vie della città, sì che i Siracu­sani non avevano che da stendere la mano per prenderle. Interessante sapere che Ortigia significa isola delle quaglie. Ma vediamo chi è Santa Lucia secondo la Chiesa. La vergine e martire Lucia è una delle figure più care alla devozione cristiana. Come ricorda il Messale Romano è una delle sette donne menzionate nel Canone Romano. Vissuta a Siracusa, sarebbe morta martire sotto la persecuzione di Diocleziano (intorno all’anno 304). Di famiglia agiata lasciò i suoi averi in beneficenza e si fece cristiana e per questo fu decapitata. Gli atti del suo martirio raccontano di torture atroci. Nelle catacombe di Siracusa, le più estese al mondo dopo quelle di Roma, è stata ritrovata un’epigrafe marmorea del IV secolo che è la testimonianza più antica del culto di Lucia. Una devozione diffusasi molto rapidamente: già nel 384 Sant’Orso le dedicava una chiesa a Ravenna, papa Onorio I poco dopo un’altra a Roma. Oggi in tutto il mondo si trovano reliquie di Lucia e opere d’arte a lei ispirate. Suo principale attributo sono i suoi occhi che tiene su un piattino, secondo una leggenda Lucia, per non cedere alle suppliche del fidanzato, che le diceva che non poteva vivere senza i suoi occhi, se li sarebbe strappati. La venerazione della Santa dal sud al nord d’Italia è legato al tortuoso percorso delle sue reliquie in particolar modo nel Medioevo sotto la Repubblica di Venezia. Il corpo della Santa, prelevato in epoca antica dai bizantini a Siracusa, è stato successivamente trafugato dai Veneziani quando partiti per le Crociate, saccheggiarono invece Costantinopoli. Oggi il corpo è conservato e venerato nella chiesa di San Geremia a Venezia. Una curiosità, Elvis Presley nel 1965 ha inciso in italiano la famosa canzone di Santa Lucia: “Sul mare luccica l’astro d’argento. Placida è l’onda; prospero è il vento. Venite all’agile Barchetta mia! Santa Lucia, Santa Lucia”. Inoltre Francesco de Gregori ha dedicato una canzone alla Santa, venendo contestato da alcuni critici musicali, ma Lucio Dalla disse che era la sua canzone preferita e che la invidiava a De Gregori.

 

immagine: Santa Lucia di Adolfo Wildt

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 15/12/2014

Areoporti di Romagna

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Il 30 agosto 1925, Italo Balbo, il grande aviatore che guidò due voli transatlantici e fu poi ministro dell’aeronautica, accompagnava a Forlì il segretario del partito fascista Roberto Farinacci, per compiere un gesto di grande lancio: la fondazione di Predappio Nuova, per celebrare il luogo di nascita del duce. Il 19 settembre 1936, il fascismo era all’apice, il duce non può rimanere senza uno scalo nella sua città: nasce il “Luigi Ridolfi”, dal nome del pilota di Forlì rimasto vittima di un incidente aereo nei dintorni di Milano. Luigi Ridolfi era abile anche nel volo acrobatico, aveva infatti eseguito vari spettacoli nella sua città. I forlivesi avevano il volo nel sangue già al tempo dei primi lanci delle mongolfiere. Enrico Forlanini  inventore e pioniere dell’aviazione italiana, nel 1909 fu il realizzatore del primo volo e del primo dirigibile italiano, era di Milano ma visse ed operò anche a Forlì. Il campo d’aviazione si realizzò nell’area attuale fra Forlì e Forlimpopoli. L’aeroporto si estendeva su una superficie di 120 ettari, era dotato di hangar, officine, caserme, centrale elettrica, uffici; vi stanziava il 30° Stormo dell’Aeronautica militare. Per volere di   Mussolini , fu poi edificato il Collegio aeronautico, intitolato a Bruno Mussolini, figlio del duce, morto in un incidente aereo. Il palazzo, destinato a ospitare il primo istituto aeronautico in Italia, è un notevole edificio in stile razionalista, si trova a  Forlì, in piazzale della Vittoria. Attualmente è adibito ad uso scolastico. Davanti vi è la bella statua che rappresenta Icaro. All’interno vi sono i  mosaici in pietra bianca e nera, che raccontano la conquista dei cieli e le vicende dell’aviazione italiana dalle sue origini fino agli anni ‘40. Nella vicina Predappio si assemblava il Caproni Ca.164, un monomotore biplano, prodotto con successo dall’azienda Aeronautica Caproni, negli anni trenta. Oggi le gallerie della Caproni sono interessate dal  programma Ciclope, un laboratorio di fluidodinamica, un progetto di alta ricerca e di internazionalizzazione nel tecnopolo aeronautico. Il Ridolfi nella seconda guerra mondiale, divenne  base della Lutwaffe tedesca, così lo scalo subì numerosi attacchi e danni dagli alleati. Dopo il conflitto, divenne base militare degli alleati. Nel dopoguerra vi fu la rinascita voluta fortemente dalla società “Aereo Club” che promosse ogni forma di attività aeronautica. Fra gli anni ‘50 e  gli anni ‘60, l’aeroporto si apre all’aviazione civile. Nel maggio 1968 fu istituito ufficialmente, con decreto ministeriale, l’Istituto tecnico aeronautico “Francesco Baracca”. Altre tappe fondamentali: le sedi distaccate dell’Università di Bologna con i corsi di laurea in Ingegneria Aerospaziale e in Ingegneria Meccanica, il centro Enav, scuola di formazione per i controllori di volo, unica in Italia, scuole di addestramento al volo e l’Istituto per lo studio e l’applicazione delle scienze aeronautiche e spaziali. Sembrava che tutto andasse per il meglio, ma l’aver osato competere con l’aeroporto “Marconi” è stato l’inizio della fine, ora lo spettro del fallimento. L’altro aeroporto romagnolo il “Federico Fellini”, che funge da scalo anche per San Marino, aveva creato una voragine di debiti ma tramite una cordata di soci si  è raggiunto l’aumento di capitale con tentativo di rilancio dell’aeroscalo. Fra i soci della cordata vi è il produttore Domenico Procacci, appassionato di paracadutismo assieme alla moglie, l’attrice Kasia Smutniak, ex compagna dello sfortunato Pietro Taricone. Procacci ha motivato il suo gesto all’affetto che prova per Rimini ed anche perché la madre era di questi luoghi. La viabilità in Romagna è assai precaria, qualcuno dice che le opere infrastrutturali sono strategiche per uscire dalla recessione, basti pensare a come sono in rovina i nostri collegamenti verso le altre regioni: la “Romea”,  la “E45” o l’Adriatica; le strade provinciali sono poi piene di buche, i treni spesso in ritardo, però… abbiamo due aeroporti e a chi pensa che due scali non possano reggere a soli 50 Km. di distanza, non ha fatto i conti con l’inventiva e la caparbietà dei romagnoli.

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 08/12/2014 

Il capro espiatorio della miseria? Un serpente

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Nel ricco folklore della Romagna, soprattutto nelle campagne di un tempo, fra  i Mazapegul, i  Calcarel, i draghi, i mostri e i serpenti c’è un animale fantastico chiamato béssa latôna ( la biscia lattona  o il serpente lattaro) essa doveva il suo nome all’abitudine di nutrirsi solo di latte. Un tempo si trovava nelle campagne, dove la si vedeva spesso succhiare il latte dalle mammelle delle mucche. Mentre di notte, narra la leggenda, si nascondeva sulle travi poi scendeva per nutrirsi di latte sottraendolo al neonato. Ai primi vagiti del bimbo, approfittando dello stato di dormiveglia nel quale la madre si apprestava a porgere il seno al bambino, la biscia maledetta  sostituiva con la propria bocca quella del neonato, mettendo in bocca all’infante l’estremità della sua coda per farlo tacere. Il nascituro così deperiva di giorno in giorno, fino a morire lasciando la madre affranta. Esiste un serpente chiamato Cervone, molto frequente in Italia, oggi è protetto in quanto sta scomparendo, vive  nei pressi  di boschi, radi e soleggiati, a vegetazione sparsa,  nei muretti a secco e negli edifici abbandonati. È il più lungo serpente italiano ed uno tra i più lunghi d’Europa. La sua lunghezza può variare dagli 80 ai 240 cm. È di colore bruno-giallastro con barre  scure. Si nutre di topi, uccelli, lucertole  e uova, è un terricolo ma è un buon nuotatore e un agile arrampicatore, aiutandosi con la coda prensile. Può vivere oltre vent’anni. La credenza popolare voleva che fosse attirato dal latte delle vacche e delle capre al pascolo, e che per procurarselo si attaccasse alle mammelle degli animali, o addirittura lo leccasse dalle labbra sporche dei lattanti è perciò chiamato anche serpente del latte o lattaro. Così ecco decifrata la leggenda, i contadini romagnoli conoscevano certamente le caratteristiche di questo serpente: sempre affamato e in grado di arrampicarsi sulle travi  il quale diveniva il capro espiatorio delle loro condizioni miserevoli. Con chi dovevano prendersela se le loro donne erano malnutrite e perciò col latte scarso e povero di nessuna sostanza per i loro figli, i quali già denutriti in fasce, morivano in tanti. Con chi dovevano prendersela i contadini? Col padrone? (Allora si chiamava così, non datore di lavoro o principale) Avrebbero perso anche quel poco che avevano, la béssa latôna invece non avrebbe protestato.

immagine: il serpente Cervone

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 08/12/2014 

 

Il mistero del basilisco

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Ulisse Aldrovandi (Bologna, 1522-1605) è considerato il fondatore della Storia naturale moderna. La sua Storia Naturale, un’opera a stampa in 13 volumi, si proponeva come la più completa descrizione dei tre regni della natura (minerale, vegetale, animale) concepita sino a quel momento.  Nel 1617 la sua collezione che contava 18.000 pezzi  fu collocata nel Palazzo Pubblico di Bologna dove rimase fino al 1742, quando venne trasferita  nei locali dell’Istituto delle Scienze di Palazzo Poggi, dove si trova ancora oggi anche se la raccolta fu in gran parte smembrata.  Della  collezione erano parte integrante i 17 volumi contenenti migliaia di splendidi acquerelli raffiguranti animali, piante, minerali e mostri. Fra questi mostri vi era elencato anche il basilisco di cui Aldrovandi  non dubitava dell’esistenza. Il basilisco era raffigurato dallo scienziato come un gallo mostruoso, barbuto, cornuto, con  coda di serpente alla cui estremità c’era un fiocco. Basilisco, significa piccolo re, deriva dal  diminutivo di basileus, quest’ultimo era un titolo che indicava un sovrano di rango imperiale, un “re dei re”, nella Grecia antica indicava anche una sorta di alto- sacerdote. Il basilico, erba aromatica, etimologicamente significa “pianta del re”, qui le leggende si confondono non si sa se era un antidoto per il veleno del basilisco o se era la pianta cara al mostro. Plinio il Vecchio (23/79), noto scrittore romano descrive il basilisco come  un essere mostruoso, dal potere di uccidere col solo sguardo o addirittura col semplice alito. Presso i cristiani divenne simbolo del peccato. Altre fonti sostengono che ha il corpo di un gallo, coda di serpente o di lucertola, ali di drago, becco   d’aquila oppure che  avrebbe portamento eretto e sembianze umane. Il basilisco nascerebbe dall’uovo deposto da un gallo, avrebbe  come padre un gallo e come madre un rospo, e il suo sangue avrebbe virtù terapeutiche. A Basilea nel 1600 circa, pare che un gallo venisse  decapitato e messo al rogo perché aveva deposto un uovo! Anche l’uovo venne messo al rogo così, Basilea cremò un gallo ovaiolo, ma aveva nello stemma della città proprio il basilisco. La Romagna è zeppa di draghi, le leggende sono diverse, c’è chi vuole ricondurle al ricordo di animali reali che un tempo erano sulla terra, chi vi vede le bonifiche di territori impaludati e  altri vi trovano riferimenti  all’estirpazione di antichi culti pagani ed eresie. L’uccisore del drago è identificato o con un cavaliere valoroso o un monaco. A Forlì San Mercuriale insieme ad altri Santi  ammansì un drago e a Mordano, siamo in provincia di Bologna a poca distanza da Imola, il comune ha un basilisco nello stemma. Si narra che nel 1062 venne scoperto, nei pressi, un terribile serpente di smisurata grandezza che uccideva il bestiame, avvelenava l’acqua e tutti i contadini ne avevano timore. A questo punto gli imolesi decisero di affidare il compito di uccidere il temibile serpente a Cassiano Oroboni che aveva già comandato le truppe imolesi contro i fiorentini. Recatosi con i suoi soldati a Bubano, dove il serpente era solito farsi vedere, attesero finché il basilisco uscì dalla tana. I soldati  all’apparizione del mostro lo attaccarono con le loro balestre ma le squame del serpente come fossero d’acciaio rigettarono i colpi ed i soldati si ritirarono. Questo accrebbe molto la fama del serpente e si arrivò ad invocare l’aiuto divino per liberare la città dal flagello. E’ a questo punto che le testimonianze dei vari autori si diversificano. Alcuni narrano che sarà un contadino umile e timorato di Dio che con la benedizione della Madonna ucciderà il drago offrendogli del pane benedetto,  altri raccontano che fu San Basilio che con il Velo della Vergine trafisse il serpente.  Ben altra cosa sono i basilischi reali, appartenenti alla famiglia degli Iguanidi: recano sul capo una sorta di stretto elmo e sul dorso un’alta cresta, sembrano dei mini/drago. Per la loro abilità di correre sull’acqua sono chiamati anche… le  lucertola di Gesù Cristo. Dimenticavo, se trovate la cenere del basilisco mitologico sappiate che può tramutare l’argento in oro, almeno così racconta Ermete Trismegisto.

immagine: il basilisco

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 01/12/2014

 

 

Mah Jong Una passione

Mahjong

Fin dai primi del ‘900 si è diffuso a Ravenna il mah jong, lo strano gioco con tessere di osso e bambù con ideogrammi di origine cinese, anche se oramai sta per essere soppiantato dal burraco. Quest’ultimo forse risale agli anni ‘40, si tratta probabilmente di una derivazione della canasta. Il successo immediato del burraco, è partito dalla Puglia e si è diffuso a macchia d’olio in tutta Italia, arrivando anche in Romagna minacciando la supremazia del mah jong, (ormai la cultura cinese ce l’abbiamo in casa e il mah jong non ha più nulla di esotico). Eppure secondo la leggenda l’inventore del mah jong sarebbe stato niente che di meno il filosofo Confucio, ma questi visse nel 500 a.C. e le carte da gioco nascono parecchi secoli dopo. Un’altra leggenda,vede come ideatore del gioco, il vecchio pescatore Sz, il quale, per intrattenere i suoi marinai durante una lunga tempesta, intagliò nel bambù i 144 pezzi del mah jong seguendo i suggerimenti di un passero (da cui il nome mah jong, che vuol dire passero). Al di là delle favole, le carte (e tessere) da gioco nascono in Cina intorno al XII secolo, prendendo spunto dalla cartamoneta, da lì partono verso l’occidente attraverso gli arabi. Nei vari “trasferimenti” le monete diventano i “cerchi” o “palle”, le “strisce di monete” si tramutano in “canne”, o  in “spade” e “bastoni” ecc. , probabilmente per l’errata interpretazione degli ideogrammi. Il mah jong vero e proprio nasce verosimilmente intorno al 1860 nel sud della Cina come evoluzione di giochi precedenti. Alcuni sostengono che fino ai primi anni del ‘900 il gioco sia stato riservato alla corte imperiale. Dalla Cina meridionale il mah jong si diffonde rapidamente nel resto del paese. Tramite marinai e militari il gioco è esportato in Giappone, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. La prima testimonianza scritta in occidente sul mah jong è un articolo del 1893 dell’antropologo Stewart Culin. Il gioco ha un enorme successo, a quei tempi in America  c’era una gran fame di giochi nuovi, assieme al mah jong  si diffondono anche il cruciverba, il  monopoli, la canasta, ecc. In Italia il mah jong è arrivato tramite l’America negli anni ‘20 e si diffuse  quasi esclusivamente nell’alta borghesia. Il mah jong metterà radici solo nella Romagna, si narra che gruppi di immigrati cinesi avrebbero contribuito a diffondere il gioco a livello popolare. Questi fuggivano via nave dalla Cina per la Rivolta dei Boxer, portandosi dietro qualche scatola di   mah jong e numerose cravatte, per venderle lungo le vie delle città della Romagna. Le navi che trasportavano questi cinesi, attraccavano in numerosi porti d’Italia, ma solo a Ravenna il mah jong ha coinvolto ed appassionato la gente, solo qui non divenne un gioco ‘nobile’ per poche persone ma un gioco del popolo. D’altronde i ravennati hanno discendenza nobile, la loro città è stata prima   capitale romana, poi del regno d’Italia, infine esarcato. Nel ravennate la richiesta di scatole da gioco fu così ampia che proprio qui nacquero i primi produttori di mah jong. Mio padre si riforniva da Valvassori, nel mio immaginario lo vedevo come una specie di artigiano cinese in grado di creare tessere dai disegni fantastici nei colori rosso (la benevolenza), verde (la sincerità), bianco (l’amore filiale). Benevolenza, sincerità e amore filiale sono le tre virtù sostenute da Confucio. Adesso non voglio esaltare l’antichità del mah jong ma per la cultura cinese non dobbiamo solo pensare allo sbarco dei rifugiati cinesi del 1900. Nel 1552 nasce a Macerata Matteo Ricci gesuita, cartografo ed esploratore. Prima di dirvi  ciò che fece, vi scrivo dei forti legami, che le Marche hanno con la Romagna, unite prima nella Pentapoli bizantina poi ambedue sotto lo Stato pontificio, ma anche oggi, ad esempio l’amatissimo nostro Cardinal Tonini è stato prima di essere il “nostro”, vescovo di Macerata. Ma veniamo a Matteo Ricci, il quale nel 1582 salpa per la Cina, sbarcando a Macao. Qui approfondisce lo studio della lingua e della cultura cinese, contribuendo alla diffusione di questa in Occidente. Il suo esempio resta, ancora oggi, come modello di incontro/scambio tra la civiltà europea e quella cinese.

immagine: Mah Jong

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 24/11/2014

Matteo Ricci, italiano in Cina è più famoso di Polo

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Matteo Ricci nasce a Macerata nel 1552, la città marchigiana dista poco più di un centinaio di chilometri dal confine romagnolo, un po’della nostra aria vi giunge, quindi ci sta che vi parli del   dotto padre gesuita, che lasciò l’Italia a ventisei anni per andare in Oriente e fu il primo a essere ammesso alla corte imperiale dei Ming. Oggi papa Francesco indica il Ricci, che presto sarà Santo, come esempio di lavoro  per l’abbattimento delle frontiere:“Dialogare significa essere convinti che l’altro ha qualcosa di buono da dire, fare spazio al suo punto di vista, alle sue opinioni, alle sue proposte senza ovviamente cadere nel relativismo”. Il Papa vede nel rafforzamento del dialogo uno dei compiti principali del giornalismo. Matteo Ricci come santo patrono dei giornalisti? Ricci      entrò in conflitto col Vaticano per aver difeso le pratiche degli antenati, tipiche del confucianesimo, ritenendole non in contrasto col cattolicesimo. Matteo tentò e vi riuscì di sanare le contraddizioni. Quando morì a Pechino nel 1610, si contavano in Cina trecento chiese cristiane. Matteo Ricci è stato un pioniere nel portare il cristianesimo in Cina e uno dei più famosi missionari di tutti i tempi, la sua fama in Cina è pari se non superiore di quella di Marco Polo. Teologo, matematico, cartografo e letterato, ottiene dall’Imperatore cinese l’autorizzazione a fondare una chiesa a spese dell’erario. Primo anello di congiunzione tra la cultura europea rinascimentale e quella cinese, è tra i pochi stranieri a figurare nell’Enciclopedia Nazionale della Cina. Muore nel 1610. Il suo corpo riceve il privilegio imperiale di sepoltura nella capitale. La chiesa fondata da Matteo Ricci sarà la più grande chiesa cattolica della Cina, sopravvivendo anche alla Rivoluzione Culturale maoista. I Cinesi lo conobbero come Li Matò e accolsero il suo trattato di filosofia morale, scritto in  mandarino, fra i loro testi classici. Una curiosità: “Gesuiti euclidei, vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori, della dinastia dei Ming”, frase inserita nella canzone “Centro di gravità permanentedi Franco Battiato sarebbe riferita proprio al Ricci. Matteo Ricci inizialmente fu un Bonzo, monaco buddista  di poca considerazione nella Cina dei Ming, ma poi vestì  quelli di Mandarino, maestro e letterato, alto funzionario statale che viveva nella Città Proibita.

immagine: Matteo Ricci

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 24/11/2014

San Pietro in Vincoli: un paese dalle origini magiare

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Il popolo magiaro prima dell’anno 1000 era un’insieme di tribù, che avevano abitato le terre poste tra i monti Urali e il fiume Don, occupando poi la Pannonia, che era stata la terra dei longobardi. Si chiamavano On-Ogur, (che significa Dieci Frecce), da cui derivò poi il nome Ungheria. Per molti anni vissero di brutali razzie e di incursioni sanguinose nella Germania del Sud e anche nel Nord Italia, fino a che furono sconfitti nel 995 dall’imperatore Ottone I. Successivamente, era l’anno mille, re Stefano a capo di una lega di tribù, decise di realizzare lo stato d’Ungheria, ponendo come collante della nazione la fede cristiana. Fu così che con l’aiuto dei vescovi e degli ordini religiosi italiani e slavi, suddivise il territorio in diocesi e costruì chiese e monasteri. Re Stefano I, chiamato anche Santo Stefano d’Ungheria, aveva abbracciato il cristianesimo, si era fatto battezzare a Colonia da Adalberto di Praga (vescovo, evangelizzatore e martire) alla presenza di Ottone III. Era stato consacrato re ricevendo sul capo una corona inviata da papa Silvestro II, corona tradizionalmente identificata con quella celeberrima, oggi conservata nel parlamento ungherese, che ha un valore intrinseco altissimo. La Sacra Corona ha avuto una vita densa di avvenimenti, che l’hanno portata ad essere rubata, nascosta, perduta, ritrovata e riportata, l’ultima volta è stata restituita dagli Stati Uniti nel 1978 su ordine del Presidente Jimmy Carter. Stefano contrastò le usanze pagane, il culto degli idoli e il nomadismo del suo popolo favorendo la diffusione del cristianesimo per questo motivo divenne Santo, ma Stefano non si fece scrupolo di ricorrere a battesimi forzati né di far squartare lo zio il quale si riteneva il legittimo erede al trono. Stefano si preoccupò  anche dei sudditi che si recavano in pellegrinaggio a Roma o in Terra Santa, per questo fondò degli ospizi per pellegrini in quattro luoghi: Roma, Costantinopoli, Gerusalemme e San Pietro in Vincoli. Gli ospizi erano ben dotati e Stefano si raccomandò che i pellegrini fossero ben accolti. Non ci sono prove della visita a Roma del re ma una cronaca redatta da uno studioso italiano di qualche centinaia di anni dopo, narra che re Stefano all’età di 33 anni fu a Roma per visitare le tombe dei martiri, probabile sia transitato anche sulla via della chiesa di San Lorenzo in Vado Rondino.

immagine: La sacra Corona

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 17/11/2014

Rosmunda di Ravenna

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Rosmunda fu regina dei Longobardi e regina d’Italia dal 568 al 572, donna fiera e combattiva, ha ispirato nei secoli opere di letteratura, tragedie, canzoni e film, non tutti sanno che la sua storia finì a Ravenna. Nel 568 mentre i Longobardi invadevano l’Italia, a quei tempi provincia dell’Impero d’Oriente, l’esarca Longino, da Ravenna mandò a dire che si sarebbe mosso solo al momento opportuno. E intanto i Longobardi occuparono mezza Italia dividendola in ducati, erano guidati da Alboino che era più di un re, per il suo popolo era un dio. In battaglia, Alboino uccise con le sue mani  Cunimondo il re dei Gepidi (tribù germanica) e con il suo cranio si fece fare una coppa per bere. I Gepidi furono fatti schiavi ma Rosmunda figlia di Cunimondo divenne regina. Alboino l’aveva amata per anni, l’aveva chiesta in sposa ricevendone un rifiuto, allora la rapì, ma Alboino la dovette restituire al padre che chiese l’intervento addirittura dell’imperatore Giustiniano. Ma ora ucciso Cunimondo ed annientati i Gepidi, Alboino finalmente la sposava e la faceva regina dei Longobardi. Non credo che Rosmunda ne fosse felice in più successe il fattaccio. Durante un banchetto che si stava svolgendo a Verona, Alboino ubriaco d’un tratto ordinò che gli fosse portata la tazza ricavata dal cranio di Cunimondo, e la offrì a Rosmunda:“Bevi, Rosmunda, nel cranio di tuo padre!”. Forse è un po’ romanzata la storia, ma Rosmunda meditò vendetta. Preparò un piano rivolgendosi a Elmichi, armigero del re e suo fratello di latte. Probabilmente Elmichi era l’amante di Rosmunda la quale gli propose di uccidere Alboino e regnare al suo posto. Mancava solo il sicario, individuarono Peredeo, un ufficiale di corte, uomo di gran coraggio, di forza smisurata ma Peredeo si rifiutò di farlo. Rosmunda e Elmichi  sanno   ormai che la loro scelta è obbligata, ora Peredeo sapeva e avrebbe potuto tradirli. Fu la regina che si incaricò di convincere Peredeo ad accettare. Rosmunda, si sostituì nel letto all’ancella che conviveva con Peredeo. In questo modo Peredeo, credendo che la donna nel suo letto fosse la sua amata, fece l’amore con la regina. Quando si accorse che la donna con cui aveva fatto sesso era Rosmunda, quest’ultima gli disse:“E certo, Peredeo, quello che hai compiuto è atto sì grave che, ormai, o tu devi uccidere Alboino, o lui deve uccidere te con la sua spada”. Così Peredeo divenne regicida. Forse fu la stessa Rosmunda a dare  l’annuncio della morte ai duchi giunti affranti per omaggiare il corpo del loro re. Nei giorni seguenti, si sarebbe decisa l’elezione del nuovo sovrano che doveva avere l’approvazione dei  duchi. Rosmunda sposò Elmichi  per facilitarne la designazione ma fallì, Elmichi non piacque, pensate a quanto doveva essere inetto, nei popoli germanici la trasmissione del potere era per via femminile. Già si levavano le voci che Elmichi era il sicario assieme alla regina, non sbagliavano. La congiura era fallita. Per salvare la vita, non restava loro che fuggire verso Ravenna dove l’esarca Longino li avrebbe aiutati. I duchi persa la guida di Alboino si fronteggiavano fra di loro, incapaci di darsi un  nuovo capo. Rosmunda era ancora formalmente regina, dato che il trono era rimasto vuoto, Longino la chiese in sposa, fulminato d’amore per Rosmunda? Molto probabilmente Longino mirava  a farsi riconoscere legittimo capo dei barbari per poi integrarli nell’impero. Rosmunda accettò, ma che fare con quell’incapace di Elmichi? Rosmunda non ricorse ad altri fece da sé usando il veleno che propinò al marito, ma il veleno era ad azione lenta, Elmichi seppe d’essere perduto, obbligò la moglie a bere ciò che era rimasto nella coppa, e morì con lei. Lo storico Paolo Diacono la descrive come “disponibile per ogni delitto” ma è pur sempre un uomo e monaco per di più, che dire allora di Elmichi che vuol diventare re senza averne le capacità usando l’odio e la vendetta di una donna a cui avevano sterminato il popolo e ucciso il padre usando il suo cranio come coppa per libagione, e Peredeo il forzuto coraggioso come un coniglio? Senza contare Longino che forse consigliò il veleno a Rosmunda, liberandosi degli ospiti senza sporcarsi le mai. Io sto con Rosmunda

immagine: Rosmunda di  Paola Tassinari
articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 17/11/2014

San Pietro in Vincoli

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San Pietro in Vincoli si trova nell’entroterra ravennate, dista 15 chilometri circa sia da Ravenna che da Forlì. Ritrovamenti archeologici attestano la frequentazione del territorio già in epoca romana. Il nome del paese deriva da un ospizio per i pellegrini  che si recavano in terra santa, costruito da re Stefano I d’Ungheria nei primi anni dell’ XI secolo, divenuto in seguito abbazia dei benedettini, poi dei monaci camaldolesi, oggi ciò che rimane è stato identificato nelle strutture adibite a caserma dei carabinieri. Perché re Stefano ha intitolato l’ospizio San Pietro Vincoli? Si racconta che il vescovo Leone avrebbe posto le presunte catene di San Pietro trovate a Gerusalemme accanto a quelle della prigionia romana del Santo, non credendo all’autenticità delle prime. Le due catene giunte a contatto si fusero miracolosamente e nulla poté più disgiungerle. In memoria di questo fatto fu edificata a Roma, nell’anno 442, la chiesa di San Pietro in Vincoli, forse Stefano auspicava che il suo popolo ancora pagano si saldasse ai cristiani come le catene di San Pietro. Ma forse c’è un altro motivo: l’odierna chiesa parrocchiale del paese è intitolata a San Lorenzo in Vado Rondino intendendo con Vado Rondino la vicinanza di un antico guado (Vado) del fiume le cui acque col tempo si incanalarono nell’antico tracciato dell’acquedotto di Traiano col nome di Ronco, il fiume che costeggia la via Ravegnana, la strada che collega Ravenna con Forlì. Il toponimo Rondino potrebbe ricordare il re Rachis, infatti deriva dal nome proprio di origine germanica: Raimondo. Il nome Rachimondus  è presente in un documento longobardo dell’anno 806, con successive graduali trasformazioni il nome si è tramutato in “Rimondino” e poi in “Riondino”, “Rondino” e “Riondano”.  La chiesa è menzionata la prima volta nel 966 ma si ritiene che risalga alla fine del VII/VIII secolo. In quegli anni i longobardi col loro re Rachis, siamo nel 750, invasero l’Esarcato, ponendo sotto assedio Perugia, intervenne il Papa, Rachis si ritirò causando disappunto fra le sue truppe. Rachis fu destituito, si rifugiò a Roma. A questo punto subentra la leggenda, Rachis incontrò alcuni guardiani di maiali che riferirono al re un prodigio cui avevano assistito: una luce era apparsa sulla cima di un abete, si era triplicata per poi tornare una. Il re stava per farli frustare quando pure lui vide lo stesso il miracolo, decise così di prendere i voti con tutta la sua famiglia, e di costruire sul luogo un’abbazia. Occorre dire che ai tempi un re deposto non aveva scelta o il convento o la vita. Il periodo di edificazione della nostra chiesa pare coincidere con la presenza di Rachis sul territorio, è stato ritrovata a San Pietro in Vincoli una formella con due volatili ai lati di un albero, oggi al Museo Nazionale di Ravenna, con chiari influssi di arte longobarda. Se il re longobardo fondò la chiesa di San Pietro in Vincoli … più tardi re Stefano volle forse un ospizio in quei luoghi a memoria di un altro re barbaro/monaco/evangelizzatore? Oggi nel paese troviamo delle notevoli dimore del XVIII secolo: Villa Gamba-Vignuzzi casa di riposo per i missionari saveriani. Villa Jole dal parco con alberi secolari, quando andavo a scuola al ritorno mi fermavo a raccogliere le noccioline che cadevano nel fosso antistante la villa, e mi incantavo a guardare una sua piccionaia, pareva il castello delle fate. Il clou a San Pietro in Vincoli è la Festa dell’uva, in realtà Festa dei repubblicani in quanto il paese è una storica roccaforte dell’edera. Questa cittadina è terra di poeti e di amanti del nostro dialetto, qui abitavano Gioacchino Strocchi medico e poeta, fu nel 1944 in Germania compagno di prigionia di Tonino Guerra e Bruto Carioli  Maestro dei “Canterini Romagnoli” e ricercatore di antichi canti, oggi c’è Nevio Spadoni poeta e drammaturgo dalla vena poderosa. Nel campo dell’arte il noto critico Claudio Spadoni, ma il paese tiene alta la bandiera anche con lo sport: Marcello Miani campione del mondo di canottaggio. Tanti uomini una donna: Natalina Vacchi  nata nel 1914 impiccata nel 1944, il suo corpo fu lasciato pendere per alcuni giorni come monito agli altri partigiani.

immagine: san Lorenzo in Vado Rondino

articolo già pubblicato sul quotidiano”La voce di Romagna” il giorno 10/11/2014