PESCE D’APRILE LE ORIGINI

Pesce d'aprile

Da dove derivi l’origine del pesce d’aprile nessuno lo sa con certezza, si tramanda ormai da secoli,  ma questo pesce sfugge a qualsiasi pescatore. Le leggende sono tante, una narra che la creazione del mondo terminò il 1 aprile e  Dio tornò in cielo. Gli uomini non sapendo cosa fare si misero a cercare il cibo per sfamarsi ma i più stolti intralciavano le ricerche dei più efficienti, così gli sciocchi furono inviati lontano a prendere cose inesistenti. Venendo un po’ più avanti coi tempi c’è chi ci  trova un’allusione ad un antichissimo uso degli Ebrei, quello di mandare, per disprezzo, una persona in giro di qua e di là, come fecero per Cristo. Un’altra ipotesi riferisce che un tempo il 1 d’aprile era la data che segnava l’inizio dell’anno, data che fu poi spostata dalla Chiesa al 1 gennaio, la vecchia tradizione continuò a sopravvivere tra i pagani, che per questo venivano derisi e scherniti. Altri fanno riferimento alla festività di Hilaria  (gioia) il 25 marzo i Romani festeggiavano la dea Cibele, la particolarità di questo giorno di festa era il permesso di dare vita a qualsiasi forma di scherzo o gioco. Oppure hanno ipotizzato come origine del pesce d’aprile il mito di Proserpina che dopo essere stata rapita da Plutone, viene cercata dalla madre;  ed anche alla festa pagana di Venere Verticordia (che cambia i cuori), che aveva attinenza con l’usanza di prendersi gioco degli altri. In Francia il 1 Aprile 1634, il duca Francesco di Lorena, prigioniero del re Luigi XIII, riuscì a fuggire dal Castello di Nancy nuotando sotto il pelo dell’acqua di un fiume, le guardie furono derise commentando che erano state raggirate da un enorme “pesce”, da qui la scelta del simbolo del pesce del 1 aprile. Un’altra variante francese è legata al 1564 quando Carlo IX  adottò il calendario gregoriano (Giulio Cesare nel promulgare il calendario giuliano, stabilì che   l’anno iniziasse il 1 gennaio  anziché il 1 marzo, quando l’impero romano  crollò, ogni stato iniziò ad avere una datazione diversa che poi si unificò col calendario gregoriano introdotto nel 1582 da papa Gregorio XIII). Non tutti accettarono il cambiamento, questi ultimi che preferivano festeggiarlo il 1 aprile venivano presi in giro come “Poisson d’Avril”.  In Inghilterra  1 aprile è l’“April Fools” (sciocchi d’aprile). Insomma questo giorno d’aprile a che fare con gli schiocchi, gli scherzi e i pesci. Ma il pesce cosa c’entra? In quei giorni il sole lascia il segno dei pesci e va in ariete. In Romagna c’è stato un tempo  in cui usavano fare scherzi feroci il solito Michele Placucci riporta: “Si rinviene un uomo il più goffo, ed il meno accorto della villa, gli si pone addosso una cassa piena di sassi, e gli si commette di portarla alla parrocchia dicendogli che sono le chiavi dell’alleluia; dalla chiesa si fa girare qua e là, finché si accorge della burla”. Le ipotesi non finiscono qui ce ne sono altre, in Scozia, il “pesce d’aprile”viene chiamato  “Taily Day” ( giorno delle natiche), gli scozzesi attaccano alle spalle un cartello  con la scritta “Kick me”( Prendimi a calci). Il pesce è anche un simbolo fallico e posto alle spalle, capite bene il significato, guarda caso nella storia  egiziana il pesce del Nilo inghiottì  il pene di Osiris. Così arriviamo alla decifrazione del pesce d’aprile, non è nient’altro che il capro espiatorio, ora lo si ricorda bonariamente un tempo lo si uccideva. La ricerca di un capro espiatorio è il tentativo inconscio di scaricare l’energia negativa che non siamo in grado di sopportare è la soluzione per trovare un colpevole piuttosto che risolvere il problema che, in questo modo, viene solo rimandato. La Chiesa che la sa lunga sulle tradizioni il 1 aprile festeggia Sant‘Ugo di Grenoble vescovo integerrimo che si adoperò per la riforma dei costumi del clero e del popolo e, durante il suo episcopato fu esempio di carità. La remora è un pesce di mare che ha una una sorta di ventosa, con cui si attacca a scafi o a pesci più grandi, in antichità si pensava che questi pesci potessero fermare le navi, il loro nome significa: indugio, ritardo, freno. Meglio allora agire con remora agli scherzi che divertono solo chi li fa e gli spettatori, non chi li subisce.

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 31/03/2014

I FIORI IN CUCINA? PROVATELI E NON VI PENTIRETE

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In primavera è bello passeggiare in campagna e in luoghi incolti, raccogliendo le erbe ma anche i fiori con cui si possono effettuare piatti buoni e belli. I fiori sono utilizzati in cucina sin dall’antichità e la tradizione mediterranea ne usa di tante tipologie diverse. Utilizzare i fiori in cucina può rendere molto particolare un piatto tradizionale, con i fiori possiamo abbellire e colorare le nostre creazioni culinarie. I fiori da mangiare io li uso  in particolar  modo nelle insalate,usando le pratoline l’effetto visivo sulle foglie verdi è delizioso come pure il gusto. Con questi fiori elaboro un altro piatto, dei crostini su cui spalmo del mascarpone a cui ho aggiunto pratoline tritate, un po’ di sale e pepe e naturalmente sopra un fiore integro. Non tutti i fiori sono commestibili, non toccate l’azalea e l’oleandro i quali hanno foglie e fiori velenosi. Nella lista dei buoni da mangiare ce ne sono tanti, ad esempio:  aneto, arancia, basilico, sambuco, begonia, viola, garofano, girasole, primula, menta, mirto, ginestra, malva, pesco, melograno, con quest’ultimo si abbina bene la carne, alla fine della cottura aggiungere i fiori e mantecare. Un’idea che stupisce piacevolmente gli ospiti è il ghiaccio coi fiori dentro, semplicissimo da fare. In Romagna la raccolta e l’uso delle erbe e dei fiori per cibarsene e per l’utilizzo erboristico è una tradizione. Mia nonna preparava le frittelle con i fiori d’acacia, questi fiori  candidi hanno un profumo intenso paragonabile solo all’invadenza della pianta. Per le frittelle occorrono i  fiori, le uova, il latte e la farina, un po’ di zucchero e un pizzico di lievito, quindi si frigge   versando il composto a cucchiaiate in olio bollente. A Casola Valsenio in maggio e giugno si svolge la Festa delle  Erbe in  Fiore. La Festa unisce visite guidate alla scoperta di fiori, erbe selvatiche e officinali nel famoso Giardino delle Erbe, che accoglie oltre 400 specie di erbe officinali ed aromatiche, a degustazioni di ricette a base di erbe e fiori, conferenze e laboratori. E’ possibile  trovare  cibi strani ma buoni  come: cream caramel con il basilico o gelato con rose accompagnato da salsa di viole brinate con lo zucchero . Non è difficile brinare un fiore, la tecnica è semplice: basta spennellare con una chiara d’uovo sbattuta un fiore e cospargerlo di zucchero semolato e farlo poi riposare per qualche ora.

immagine: insalata con uova sode e fiori

articolo già  pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 28 aprile 2014 

Pasqua, è nato prima l’uovo o … la colomba?

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La colomba è il dolce tipico di Pasqua assieme all’uovo di cioccolato, ma un tempo antico, quello dei nonni, in Romagna la mattina di Pasqua prima di andare a Messa c’era da mangiare una fetta di focaccia e l’uovo sodo benedetto dal parroco durante la visita per la benedizione pasquale della casa, che era stata precedentemente pulita a fondo. La colomba certamente è più golosa e l’uovo di cioccolato è molto simpatico per la sorpresa. Le origini della colomba risalirebbero a San Colombano, il Santo fu invitato ad un suntuoso pranzo dai Longobardi, una tavola piena di carne e cacciagione, Colombano alzò la mano benedicendo la tavolata e le pietanze si trasformarono in candide colombe di pane. La regina Teodolinda  colpita dal prodigio gli donò il territorio di Bobbio in cui sorse poi l’Abbazia di San Colombano. L’uovo è un simbolo molto antico, addirittura lo si riferisce alla nascita del mondo. Nelle feste pagane celebranti il ritorno della  primavera, le sacerdotesse di Cerere portavano in processione l‘uovo, emblema della vita nascente. Nell’iconografia cristiana, l’uovo è il segno della Resurrezione, il guscio calcareo rappresenta la tomba dalla quale esce un pulcino, come Cristo esce vivo dal sepolcro. Le uova associate alla primavera per secoli, con l’avvento del cristianesimo divennero simbolo della rinascita non solo della natura ma dell’uomo stesso. La focaccia di un tempo, che comunque la si prepara ancora oggi decorandola con uova colorate, potrebbe risalire all’epoca di Costantino il Grande quando i catecumeni ricevevano, durante la sacra notte di Pasqua, delle focacce a base di latte e di miele, al termine della cerimonia battesimale.Oppure può avere origine dalla mola salsa una focaccia sacra utilizzata nei riti religiosi dell’antica Roma. Veniva offerta alla divinità e distribuita in piccoli pezzi ai credenti, quale atto di purificazione, certuni ritengono questo uso un’anticipazione del rito dell’eucarestia. La focaccia o pagnotta è un dolce tipico della tradizione romagnola e la più conosciuta dalle nostre parti è quella di Sarsina. Il paese sulle colline di Cesena propone ogni anno la rinomata Sagra della Pagnotta Pasquale, la focaccia è preparata durante la Quaresima e servita in occasione della Pasqua insieme all’uovo benedetto, si tratta di una tradizione molto sentita in questa località… e non solo.   

immagine: la pagnotta di Sarsina

articolo già pubblicato sul quotidiano “La  Voce di Romagna” il giorno 14 aprile 2014

PRIMAVERA SIMBOLICA

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La calata in Italia di genti celtiche a partire dal V a. C. secolo venne dipinta per lungo tempo come la discesa di popoli poco civili verso terre più fertili ma potrebbe essere possibile che sia stato un provvedimento di ver sacrum (primavera sacra: migrazione e colonizzazione di terre nuove).  La   “primavera sacra”era un antico rito indo-europeo legato ai popoli nomadi preistorici. Divenuti  successivamente stanziali, quando il luogo diveniva troppo popoloso o c’erano problemi di approvvigionamento di cibo per carestia o altro,  si attuava il ver sacrum (che differentemente dai Greci che creavano colonie, era una vera e propria migrazione e fondazione). I bambini  nati in maggio venivano consacrati per tale rito. Divenuti adulti, li coprivano con un velo e li facevano uscire dal loro territorio. La presenza del velo li designa come assimilati ai morti, il cui viso veniva velato, per impedire loro di tornare indietro. Questi tristi cortei uscivano dal luogo natio, per fondare un nuovo insediamento, col vessillo di un animale/totem, così sembra che gli Irpini avessero come bandiera il lupo e i Piceni il picchio che ancora oggi è il loro simbolo. Probabilmente ciò vale anche per la Romagna, il nostro animale potrebbe essere stato il gallo che condividiamo con la Puglia oppure tenendo conto che la celebre X Legione reclutata in Romagna, fiore all’  occhiello dell’esercito romano e la preferita di Cesare, aveva come emblema sugli scudi il maiale selvatico… il nostro animale/totem  potrebbe essere stato la Mora Romagnola.  Queste migrazioni spiegherebbero la diffusione di genti, divenute poi latine, su tutto il territorio italiano dalle tradizioni,  usi e costumi così simili. Ma questo preambolo mi serviva per farvi capire quanto le stagioni fossero importanti per gli antichi, in particolare la primavera in quanto dava la possibilità di rinascita e non solo metaforica. Fino al 60 a.C, l’Equinozio di primavera cadeva nella costellazione dell’Ariete, dopodiché è passato in quella dei Pesci,  ciò a causa di un movimento millenario della Terra sulla sua orbita chiamato Precessione degli Equinozi, non credo che molti noi lo sappiano ma invece era ben noto ai nostri progenitori che erano senza nessun mezzo tecnologico dei bravi astronomi. Tutte le società antiche, in particolare quelle agricole, celebravano la primavera come una resurrezione, attraverso simbologie profonde rimaste nel nostro immaginario. A dire la verità negli usi e costumi non si capisce bene se la data iniziale sia il  21 marzo, i cinesi la collocano a metà febbraio, in Svezia al primo maggio e da noi in Romagna  se ne festeggia l’arrivo con “lom a merz” i primi di marzo ed in altri luoghi con “al fugaren” per San Giuseppe o addirittura a metà aprile coi falò a Rocca  San Casciano. Il motivo dell’accensione del fuoco è legato  all’antico nome della  primavera: “Alban Eiler”, che significa la “Luce della Terra”. E’ il momento dell’anno in cui le ore di luce sono equivalenti alle ore di buio. La primavera ancora oggi è aspettata con speranza, legata allo sbocciare dei fiori, alla giovinezza, alla rinascita. I miei ricordi sulla primavera sono legati alle  “pulizie di Pasqua”, vissuti nell’ansia di non avere la casa perfettamente pulita per accogliere degnamente la benedizione del prete. La primavera  è un momento di pulizia e di rinnovamento, non solo per le mura domestiche ma anche per il nostro interiore. Qualunque sia la nostra credenza, questo è un periodo in cui celebriamo il trionfo della luce sul buio e sulla morte, la Pasqua in cui si celebra la Resurrezione di Cristo non poteva che avvenire in primavera, la festa  cristiana è mobile, viene fissata di anno in anno nella domenica successiva alla prima luna piena (il plenilunio) successiva all’equinozio di primavera (il 21 marzo). Questo sistema venne fissato definitivamente nel IV secolo. “Sono felice come una Pasqua” questo modo di dire  celebra il ritorno della vita, e la sconfitta della morte da parte di Cristo. Festeggia l’arrivo della buona stagione, il ritorno della luce e del sole dopo il lungo inverno. Quindi, felicità ritrovata  interiore ed esteriore.

immagine: ver sacrum su un sarcofago etrusco

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 24/03/2014    

Sant’Ellero nelle grotte

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Sfuggenti, scontrosi, scorbutici: i padri del deserto sono stati spesso dipinti così, senza dimenticare, ovviamente, l’elenco delle stranezze e delle bizzarrie, la barba irsuta, le povere vesti di stracci o di pelle di pecora, il comportamento “asociale” di questi uomini che vivevano in una grotta, si nutrivano di erbe e di radici e sceglievano talvolta la sommità di una colonna per trascorrere in penitenza i loro giorni. I padri del deserto evitano la compagnia degli uomini, si negano all’incontro. I più noti sono: Antonio alle prese con ogni tipo di draghi e di mostri, Girolamo in preghiera accanto a un leone, Onofrio che per nascondere la sua nudità ha solo la sua lunga capigliatura, Macario in meditazione con un teschio tra le mani, Pafnuzio che cerca di strappare Taide ai suoi amanti e soprattutto Simeone lo stilita che visse per 37 anni su di una piccola piattaforma posta in cima ad una colonna. In Romagna non abbiamo il deserto ma abbiamo le grotte, le montagne e i boschi qui troviamo i nostri padri che col tempo sono divenuti Santi. Sant’Ellero (476/558) lasciò la Tuscia (territorio che comprendeva tutta la zona dell’Etruria) si inoltrò sull‘Appennino e scelse per propria dimora un monte sopra Galeata (l’antica Galliata il toponimo fa riferimento ai Galli). In quel luogo costruì una cappella e sotto di essa, una spelonca dove alloggiare. Passò poi dalla vita eremitica a quello cenobitica, avendo raccolto attorno a sé dei   monaci a cui impose delle regole: preghiera, digiuno, lavoro dei campi, carità. Curiosamente questa abbazia aveva un’indipendenza  sia spirituale che territoriale con 49 castelli di difesa e coi monaci armati, vestiti di tuniche bianche, quasi antesignani dei Templari. Legate ad Ellero numerose leggende che narrano di guarigioni e di liberazioni da spiriti indemoniati, una narra di un iniziale scontro tra il Santo e Teoderico  re dei Goti e ariano. Teoderico  pretendeva l’aiuto dei monaci per la costruzione del suo palazzo il cui luogo era poco distante, Ellero ignorò di proposito la richiesta del re. Questi per tutta risposta gli inviò dei soldati armati fino ai denti. I soldati si smarrirono in una folta nebbia, vagarono per i boschi a lungo, finché tornarono dal loro re. Il luogo dove i soldati desistettero e tornarono indietro viene chiamato ancora oggi:“Rivolto”. Infuriato Teoderico si recò all’abbazia, qui giunto il cavallo si inchinò davanti al Santo. Da quel momento Teoderico e Ellero diventarono grandi amici e l’Abbazia beneficiò di numerosi privilegi. Al Museo civico di Pianetto, nei pressi di Galeata, si conserva il rilievo raffigurante il leggendario incontro. L’Abbazia di Sant’Ellero è in stile romanico e conserva un bel portale ornato da capitelli con sirene, oggi simbolo del peccato al tempo un ricordo di antichi riti, e da monaci oranti. L’interno ha subito delle trasformazioni, anche se conserva la tipica struttura medievale con il presbiterio soprelevato e la sottostante cripta. Il luogo più sacro della chiesa è la cripta, dove è posto il sarcofago di Sant’   Ellero, un’opera bizantina di raffinata scultura. Si suppone che la cripta sia il primitivo sacello del  Santo, il luogo da cui poi si sviluppò la costruzione dell‘intera abbazia. Qui vi è il foro, ricavato nella  volta, in cui i fedeli accostano il capo per essere sanati dal mal di testa. Probabilmente Ellero  fece posizionare sul terreno un’enorme pietra sulla quale sedersi mentre sopra il soffitto fece scavare un buco circolare, a cosa serviva? Si sa che Ellero portava a compimento lunghissimi periodi di digiuno, preghiera e meditazione seduto all’interno della cripta al buio, anche per molti giorni, forse nel foro infilava la testa come un tornare nell’utero materno. Il Santo è anche protettore della città di Lugo, dove rimase per un certo tempo a predicare. Il famoso Palio della  Caveja di Lugo termina il 15 maggio, giorno di S. Ellero,  con i fuochi artificiali  allestiti nella Rocca estense. A Galeata, storia e leggenda si intrecciano, qui Ellero e Teoderico si incontrano, qui il re goto aveva un suo palazzo da caccia, qui sorgeva la città romana di Mevaniola.

immagine: Teoderico si inginocchia a Sant’Ellero

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 29/09/2014

Il valore delle mani

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Avrò sentito decine di volte mio padre ripetere queste parole:“Basta una stretta di mano, fra galantuomini ci si comprende, l’affare è concluso”. Per lui la stretta di mano e la parola data erano sacri, a costo di rimetterci non sarebbe tornato indietro. Inutile dire che oggi le cose sono cambiate, ma un tempo non molto lontano, era in uso nelle campagne, recarsi alle fiere o ai mercati del bestiame, iniziando una lunga trattazione fra venditore e compratore per terminare col contratto suggellato da una stretta di mano su cui il sensale poneva la sua, l’affare era concluso. Il sensale era una persona fidata al di sopra delle parti, era il mediatore del negozio. La stretta di mano è quasi universale, ogni giorno la facciamo, sovente come semplice gesto di saluto. Nell‘antichità era un modo per salutare che significava: “vengo in pace”, con questo senso è ancora usato oggi nella Santa Messa quando i fedeli si danno la mano per “scambiarsi la pace”. La mano è uno dei simboli più diffusi un tempo considerata un ponte tra cielo e terra, tra l’umano e il divino. E’ grazie alle mani che l’uomo può manifestare se stesso nell’atto creativo e “plasmare” a somiglianza di Dio. I Santi taumaturghi toccano con la mano, i sacerdoti  impongono la mano benedicendo, le mani giunte pregano, le mani lavorano. Ciò che può fare la mano è appunto la differenza tra il dire e il fare. “I grandi popoli dell‘antichità sono decaduti quando hanno separato il lavoro della mente da quello della mano, affidando i lavori manuali agli schiavi. Questo errore è stato fatale sia agli antichi Greci che ai Romani”.(Mario Pincherle) Ma torniamo alla nostra bella Romagna dove il forte carisma della stretta di mano resiste, magari un po’ di nicchia, ma si difende. In Romagna alla fine dell’Ottocento il sensale partecipava alle transazioni di bestiame, di terreni, era pure fautore ed organizzatore di matrimoni, era chiamato bracco, come un cane perché? Per i Celti questo animale era molto importante, soprattutto nei suoi ruoli di cane da combattimento, da caccia o da guardia. Per i Galli paragonare un guerriero a un cane era un onore e significava stimarlo per la sua funzione di protettore della comunità. Lugh divinità celtica molto importante possedeva un bracco magico la cui ferocia in battaglia era inarrestabile, era pure  in grado di cambiare l’acqua di fonte in vino se vi si bagnava. Tutti i popoli antichi riconoscevano ai Celti una grande abilità nell‘allevamento dei cani. La caccia, come la guerra, era un atto sacro che si poteva compiere solo dopo un‘iniziazione e una preparazione rituale per ottenere la protezione divina. I bracchi erano assistenti dell’uomo aiutandolo nella caccia vera e propria perciò durante le diverse cerimonie condividevano parte delle offerte dedicate agli dei. Il bracco era anche guardiano del regno dei morti e dei suoi misteri per questo legato alla Dea. L’animale era pure associato alle acque curative e al potere di guarigione, tanto che si riteneva che la sua saliva quando leccava una ferita fosse in grado di curarla (come appare nelle raffigurazioni cristiane di San Rocco). Nel 1200 in Scozia il contratto di matrimonio veniva suggellato con una stretta di mano ed era un’unione consensuale tra due adulti senza firme, né testimoni. Pare che le origini siano celtiche, la donna celta era una donna libera, che aveva possedimenti  e che nella coppia poteva addirittura essere dominante nelle decisioni. I matrimoni potevano durare per sempre, un mese o un anno, inoltre non esisteva il culto della verginità e della purezza per la sposa.  La donna godeva di una grande libertà sessuale e poteva avere figli da uomini diversi, le eredità erano matrilineari, perché  la madre era l’unica certa. Ma sono uscita di strada, volevo farvi notare qualche analogia, se appena cento anni fa, in Romagna esisteva il bracco che faceva da tramite di lealtà e fedeltà in compravendite e transazioni nonché in matrimoni, singolare è che nella società celtica esisteva un legame molto forte col cane, in particolare il bracco, simbolo di fedeltà e correttezza e che i matrimoni  prevedessero una stretta di mano.

immagine: una stretta di mano

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22/09/2014

I TANTI SIGNIFICATI DEI BRACCIALETTI ROSSI DALLA TV A ROMA

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Braccialetti rossi è una serie televisiva, ispirata alla storia vera di uno scrittore spagnolo che malato di cancro è riuscito a guarire. La trama segue le storie di 6 ragazzi ricoverati in ospedale per varie cause, che fanno amicizia tra loro. Uno di loro regala agli altri i braccialetti identificativi che ha ricevuto durante gli interventi chirurgici e che diventano simbolo del loro gruppo. Il colore rosso è ambiguo per eccellenza può essere simbolo di vita oppure di morte. Il braccialetto ha lo stesso significato magico di quello dell’anello cioè il cerchio chiuso, quindi è simbolo di tutto ciò che è celeste e del tempo ciclico: il cielo, l‘anima, l’illimitato, l’infinito, l’universale, Dio. Pensate che il simbolo alchemico dell’oro è un cerchio, questo toglie ogni dubbio all’equivoco sull’oro visto come arricchimento personale e non spirituale. Un tempo marzo era il primo mese dell‘anno nel calendario di Romolo, il fondatore di Roma intendeva onorare il suo leggendario padre. Marzo era dedicato a Marte, inizialmente visto come dio dell‘agricoltura, poi quasi esclusivamente della guerra. In Romania sopravvive un’antica tradizione che ha origini nelle credenze e nelle pratiche agrarie che si svolgono in marzo, da cui pare derivi il “martisor“(diminutivo rumeno del nome di marzo). Il martisor è un cordoncino di fili bianchi e rossi, a cui si appendono ciondoli porta fortuna. Il colore rosso, come il fuoco e il sangue, era attribuito alla vita, quindi alla donna. Invece il colore bianco era riferito a Marte e perciò all’uomo. Questi colori, esprimono il ciclo vitale/mortale della natura. Il martisor usualmente si porta ai matrimoni, ai nascituri ma anche ai funerali. Sarsina è una piccola cittadina sulle colline di Cesena è di origine antichissima, conserva molte testimonianze tangibili della sua importanza strategica, oltre che ancestrali tradizioni. A San Vicinio, taumaturgo e scaccia demoni, è dedicata la festa che ricorre ogni anno il 28 agosto, in occasione della quale vengono distribuiti i tradizionali “curdlen”, costituiti da fili colorati intrecciati, benedetti e portati al collo da ammalati e devoti, come protezione celeste a somiglianza del famoso collare di San Vicinio. I “cordellini” sono molto ricercati dai forestieri, in cerca di talismani o di souvenir, che solitamente li scelgono rossi e li portano al polso.

immagine: martisor

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il  
giorno17/03/2014 

Il Papa contro la pornocrazia

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Pornocrazia è un neologismo che indica una forma di governo caratterizzata dalla forte influenza delle cortigiane sugli uomini di potere. Per estensione, il termine è riferito a un governo corrotto e dedito al favoritismo. La pornocrazia è  anche un periodo nella storia del papato che comincia con papa Sergio III nel 904 e termina con la morte di papa Giovanni XII nel 964. In quei tempi assai tristi per la Chiesa, i papi furono sotto l’influenza di donne corrotte, in particolare di Teodora e di sua figlia Marozia. Marozia  fu la concubina di papa Sergio III,  la madre di papa Giovanni XI e la nonna di papa Giovanni XII. Fu accusata di aver fatto assassinare papa Giovanni X ( di cui la madre Teodora era stata l’amante), allo scopo di favorire l’elezione di papa Leone VI, un altro suo amante e di aver manovrato l’elezione di papa  Stefano VII, un pontefice “di transizione” in attesa di poter insediare il figlio. Marozia  fu la dominatrice in assoluto delle elezioni dei papi, regnò su tutto il periodo “pornografico”.  Ma vediamo un po’ cosa c’entra Marozia con la  Romagna.  Papa Giovanni X, il papa che cercò di contrastare la terribile donna (sempre se i fatti si svolsero come dicono le fonti, infatti potrebbe darsi che gli storici  essendo maschi abbiano vituperato Marozia per le sue doti atte al potere) e da lei fatto eliminare, era nato  a Tossignano, sulle colline di Imola, inoltre fu vescovo di Ravenna per quattro anni, poi divenne papa anche se ai tempi un vescovo non poteva esserlo. Attorno al 900 nella nostra penisola erano frequenti le incursioni vichinghe e quelle dei saraceni, ancora oggi sono visibili le torri di avvistamento lungo il litorale adriatico che essendo prevalentemente sabbioso, era considerato  un facile approdo. Il nostro Giovanni X, con un’abile azione diplomatica, riuscì a riunire le forze dei vari principati italiani, unificandoli  sotto un’unica armata. La Lega cristiana respinse l’esercito musulmano e lo sconfisse sulle rive del Garigliano ottenendo una vittoria netta tale da togliere tutte le mire degli arabi sulla nostra penisola. Tolto il pericolo esterno Giovanni X riuscì anche a ottenere la pace interna per quasi dieci anni, finché Alberico I di Spoleto, marito di Marozia, riuscì a impadronirsi di Roma e a imporre la sua autorità, Giovanni X lo costrinse alla fuga e Alberico  fu ucciso dal popolo, forse sobillato dal papa. Marozia, vedova di Alberico, sposatasi nel frattempo con il duca Guido di Toscana, fratello di Ugo di Provenza, il quale aveva un proprio esercito, si dichiarò sua acerrima  nemica. Giovanni X tentò le armi della politica, offrendo a Ugo, cognato di Marozia, la corona imperiale, ma la situazione degenerò, Marozia  e il marito assaltarono il Laterano. Giovanni X chiese l’aiuto degli ungari, ma fu sconfitto ed arrestato, poi avvelenato o forse soffocato fra due cuscini. Marozia si trovava al massimo della gioia, aveva il potere… ma il marito muore. La donna non si perde d’animo, spregiudicata e astuta, non fa a tempo a seppellire Guido che già manda al cognato Ugo di Provenza, re d’Italia, una lettera in cui lo chiede in marito… e lui accetta subito. Il figlio di Marozia diviene papa col nome di Giovanni XI anche se è un ragazzo senza capacità ma tanto è la madre la papessa. Eppure anche per Marozia arriva la resa dei conti: Alberico, il suo secondogenito, divenuto duca di Spoleto vuole il potere tutto per lui, cala su Roma, caccia il patrigno, chiude il fratello Giovanni XI in Laterano, imponendogli di occuparsi solo delle anime dei romani e nulla più. Alberico rinchiude la madre in un convento di clausura, dove lei morirà lontana dal potere, eleggerà al soglio pontificio il proprio figlio, quindi nipote di Marozia, col nome di Giovanni XII, che sarà il peggiore di tutti, eletto a 16 anni, si narra che avesse inventato peccati sino ad allora sconosciuti. La vita di Marozia farà nascere la leggenda della papessa Giovanna, che si finge un maschio per farsi eleggere papa, poi scoperta perché durante una funzione ha le doglie e partorisce il figlio avuto da un amante. Marozia non si finge uomo, non si incorona papa, ma si comporta come un uomo di potere e gli uomini del tempo non furono al suo pari.

immagine: Marozia

 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 15 settembre 2014

Il ballo angelico di Maiolo che distrusse il paese

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Fino al 1700, Maiolo, paese dell’entroterra di Rimini, fu popoloso e fiorente, con una poderosa rocca che sovrastava tutta la valle del Marecchia, era una delle roccaforti più difficili da espugnare dell’intera zona riminese e del Montefeltro. Il 28 maggio del 1700 si abbatté sul paese un diluvio che durò quaranta ore ininterrotte, una frana spazzò via il paese. Forse per dare una “motivazione” a qualcosa di terribile e inaspettato nacque la leggenda  del “ballo angelico”; era chiamato così perché  i partecipanti se ne stavano nudi e crudi, senza vergogna e pudore, con la stessa ingenuità degli angeli. Questa pratica si svolgeva nelle stanze del castello e vi partecipavano giovani e vecchi, maschi e femmine, consumando la notte fra canti e risa. Una notte durante una di queste feste danzanti, apparve ai presenti un angelo che ammonì i partecipanti di smetterla altrimenti sarebbe accaduta una catastrofe. Alcuni abitanti non cessarono l’attività e così si scatenò l’ira divina, un fulmine spaccò il monte distruggendo la rocca e il borgo coi suoi abitanti. Forse la leggenda nasconde un pizzico di verità, magari a Maiolo  si sarà praticato un nudismo ante litteram che poi con la frana è diventato capro espiatorio. Il nuovo paese di Maiolo  ha mutuato il nome dall’antico borgo distrutto. Oggi Maiolo conserva, le sue vecchie case contadine, le piazzette  e la bellezza del suo panorama che spazia dall’Alpe della Luna al mare Adriatico. La città è famosa soprattutto per il suo caratteristico pane, prodotto con farine locali e con metodi tradizionali, al quale viene dedicata a fine giugno una fiera: la Festa del Pane, per l’occasione è visitabile il Museo del pane, percorso itinerante fra i numerosi forni che si conservano. Il Museo del Pane è stato definito dall’Unione Europea zona  “BioItaly” ( ‘progetto del Servizio Conservazione della Natura del Ministero dell’Ambiente che con il supporto delle Regioni, delle istituzioni scientifiche, delle associazioni ambientaliste e dell’ENEA è partito alla ricerca delle ultime isole di natura dove salvare i naufraghi di un pianeta che un tempo conciliava presenza umana e diversità della natura’) per la sua valenza floristica, i suoi campi di grano e, soprattutto per i suoi numerosi forni, più di 50, considerati una preziosa testimonianza di civiltà, una tradizione che fortunatamente si è salvaguardata .

immagine: Maiolo

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 15 settembre 2014

 

Da una frana la rinascita

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Una frana avvenuta agli inizi degli anni Venti, fu l’occasione per spostare Predappio e poi ricostruirla, tra il 1925 e il 1940, attorno alla casa natale di Mussolini con lo scopo di mitizzarne le origini. Il nuovo paese si srotola lungo una sorta di percorso trionfale che culmina in Piazza Sant’Antonio raggiungendo qui un’armonia quasi rinascimentale, un abbraccio che comprende l’omonima chiesa dalle belle linee rotonde e pulite, l’impertinente Casa del fascio in stile “modernissimo” con lo svettante “campanile” e al centro in alto, su una piccola altura, troneggia Palazzo Varano luogo scelto da Mussolini come sede comunale perché qui un tempo insegnava sua madre. Nel parco dell’edificio, ottimamente conservato, era custodita durante il Ventennio un’aquila reale, emblema che i fascisti avevano mutuato dall’antica Roma, ma anche simbolo del Duce in quanto l’aquila è il re di tutti gli uccelli, c’è ancora la grande gabbia in cui veniva custodita. Da Palazzo Varano lo sguardo arriva diretto alla Rocca delle Caminate, residenza estiva di Mussolini, anzi la scenografica scala vista dall’alto ha la forma di una freccia che indica proprio la Rocca. Tutto fu ricostruito, non solo la piazza: il Cimitero di San Cassiano in Pennino, che era meta di sostenitori desiderosi di rendere omaggio a Rosa, l’amata madre del Duce. E ancora l’ex Albergo Appennino, realizzato per dare accoglienza alle numerose persone in “pellegrinaggio” a Predappio, l’Ufficio Postelegrafonico dotato di moderni mezzi tecnici, il Mercato dei viveri progettato a forma di esedra per “incorniciare” la casa natale del Duce, di modesta fattura, oggi vi si svolgono mostre d’arte a tema; le Case Economiche, assegnate ai dipendenti pubblici, il Teatro Comunale e lo stabilimento aereonautico Caproni col monogramma di Mussolini, la Caserma dei carabinieri e ancora altro. Predappio è un museo urbano a cielo aperto il cui “gioiello” è invece nascosto. “La Madonna del fascio / Fu composta in Portogallo; / Il suo autore or qui tralascio, / che la diede, senza fallo / nel lontano Ventisette, / in omaggio a Mussolini; / Questi, allora, la cedette, / per proteggere i bambini, / all’Asilo intitolato / a sua madre; e le suore, / in quel luogo consacrato, / custodiron con amore / quella bella Madonnina; / senonché dei partigiani / ne volevan la rovina / per il Fascio tra le mani…” è l’incipit di una poesia di Ada Negri (1870 /1945) la poetessa e scrittrice lombarda, prima e unica donna ad essere ammessa all’Accademia d’Italia. La Madonna del fascio di Predappio, è un pannello ceramico in azulejo (mosaico formato da piastrelle di circa 12 cm.), realizzato nel 1927 dagli artisti portoghesi Battistini e Silva che donarono il pannello al Duce, in attesa della conclusione dei lavori di ristrutturazione della Rocca della Caminate, al quale il mosaico era destinato, fu depositato all’oratorio e qui rimase. Il manufatto è molto bello in stile rinascimentale coi colori vivi e luminosi delle ceramiche, vi è raffigurata al centro la Madonna in trono col Bambino in braccio, circondata da angeli che suonano estasiati i violini, mentre negli archi alle sue spalle, sullo sfondo, sono visibili gagliardetti fascisti e stemmi sabaudi; ma il colpo di scena è in primo piano in basso: altri due angeli le portano in dono, stretto fra le braccia, un ingombrante fascio littorio, che Gesù benedice; ai lati due grandi vasi che contengono rami di quercia, simbolo di giustizia, di ulivo figura di pace  e spighe di grano emblema di fertilità della terra. Il fascio littorio è formato da un gruppo di bastoni legati assieme attorno a un’ascia, simbolo principale del fascismo da cui deriva pure il nome, nell’antica Roma erano portati dai littori i quali usavano le verghe per fustigare i delinquenti sul posto e l’ascia per le pene capitali. Caduto Mussolini i partigiani volevano distruggere la Madonna del fascio a colpi di piccone, ma le suore Orsoline lo coprirono dipingendovi sopra dei fiori, i partigiani quando arrivarono si fermarono stupiti e non vedendo più l’odiato simbolo non osarono colpire l’icona religiosa. Un successivo restauro avrebbe poi ripristinato l’originale.

immagine: Madonna del fascio

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 08/09/2014