Giani: tracce forlivesi

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Felice Giani è uno dei più grandi artisti del Neoclassicismo, la sua arte si trova un po’ in tutto il mondo, ad esempio il National Design Museum di New York conserva più di 1000 suoi disegni, provenienti dalla collezione di Giovanni Piancastelli di Castel Bolognese. Lavorò un po’ per tutta Italia, pure in Francia, in particolare a Faenza, ma anche in tutta la Romagna. Palazzo Guarini-Torelli sorge in Corso Garibaldi a Forlì.  E’un’elegante costruzione cinquecentesca, forse disegnata da Michelangelo Buonarroti. Nelle sale del piano nobile, vi sono arredi barocchi del Settecento e decorazioni neoclassiche, tra cui alcune tempere del Giani. Sempre in Corso Garibaldi vi è Palazzo Gaddi, uno dei palazzi nobiliari più importanti della città. Nel Settecento i Gaddi lo trasformarono in una sontuosa dimora barocca. La facciata, imponente ma spoglia, contrasta con la ricchezza di stucchi, affreschi e decorazioni dell’interno. I soffitti di alcune sale sono stati dipinti  dal Giani; l’artista non lavorava ad affresco ma a tempera su muro; una tecnica meno costosa, più veloce e con colori più brillanti. Palazzo Gaddi ospita due musei: il Museo del Risorgimento e il Museo della Musica e del Teatro. Sempre a Forlì, il Palazzo Comunale che occupa tutto un lato di Piazza Saffi, venne edificato nell’XI secolo, fu sede degli uffici del dazio e di un corpo di guardia, poi nel 1360 vi si insediò il cardinale Albornoz che lo ricostruì completamente. Alla fine del Quattrocento, fu residenza di Girolamo Riario e Caterina Sforza, e ospitò papi e reali. Dal 1757 al 1765 vi lavorò Antonio Galli Bibiena, architetto, scenografo e pittore della celebre famiglia dei Bibiena attiva in campo artistico per oltre 150 anni prima a livello locale e poi su scala europea; gli attuali uffici del Sindaco conservano tempere di Felice Giani. L’artista lavorò anche per il ricco forlivese Domenico Manzoni; e nel Palazzo del Capitano, a Terra del Sole,   decorò parte dei soffitti. Palazzo Sirotti Gaudenzi è a Cesena, nella contrada Chiaramonti. La sobria facciata neoclassica ha i bassorilievi di sei divinità (tra cui il fiume Savio, simbolo di Cesena). Gli interni sono decorati anche con tempere del Giani, tra cui “Edipo davanti alla grotta delle Eumenidi”, queste ultime sono le Erinni, le dee della vendetta che perseguitavano il colpevole, venivano chiamate Eumenidi diventando benevole, quando il reo si pentiva e si mondava della sua colpa. Nel salone principale era presente (oggi staccata per motivi di conservazione), la grande tela di Felice Giani “Partenza di Marco Attilio Regolo”, la figura  del console romano carismatica ed eroica, leggendaria la sua partenza per Cartagine dove subì varie torture tra cui il rotolamento da una collina dentro la botte irta di chiodi. Nel salone rosa si notano decorazioni in stile pompeiano, mentre nella galleria decorata da grottesche, vi era (oggi staccata)una     perla preziosa: la tela del Giani raffigurante “Putti in paesaggio classico. A Ravenna tra le numerose residenze della famiglia Rasponi, i signori che dominarono di fatto la città per centinaia di anni, nell’attuale Piazza Kennedy sorgono ben tre loro palazzi. Uno chiamato “dalle Teste” perché teste di moro bendato e di leone decorano le finestre, insieme a zampe di leone unghiate e incrociate: i “rasponi”. Un altro è palazzo Rasponi Murat, infine un altro Palazzo Rasponi, le cui sale ospitano le tele di Felice Giani. Il Teatro Comunale di Imola è intitolato alla cantante lirica Ebe Stignani, è stato ricavato da una chiesa trecentesca e  le decorazioni pittoriche sono di Felice Giani. Per sovvenzionare la costruzione vennero venduti i palchi ai notabili cittadini, infatti inizialmente fu chiamato:“Teatro dei Signori associati”. Castel Bolognese vanta un olio su tela del Giani:“San Petronio” nell’omonima chiesa. Felice Giani a Rimini: “Paolo Malatesta e Francesca da Polenta sorpresi da Gianciotto”, conservato al Fondo Piancastelli di Forlì, “Dante e Virgilio con le ombre di Paolo e Francesca”, si trova  all’Archiginnasio di Bologna, senza contare che il suo più stretto collaboratore fu Antonio Trentanove il quale era di Rimini.

 

immagine: ritratto di Felice  Giani

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 03/08/2015

Le origini antiche e festose del Ferragosto

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Tutti parlano del Ferragosto come festa intoccabile, dedita al divertimento e alla scampagnata, qualcuno va più a fondo ricordando la locuzione latina “feriae Augusti” (riposo di Augusto), quindi se già andava in ferie Augusto, vuoi che non ci andiamo noi? Ma il 15 agosto si celebra in realtà l’Assunzione della Beata Vergine Maria. In Spagna le si dedica non soltanto il 15, ma tutta la settimana successiva fra banchetti, danze, spettacoli. Questa ricorrenza si è innestata su un substrato precristiano, in Oriente in questo periodo era festeggiata una Grande Madre, la dea siriana Atargatis, metà donna e metà pesce, considerata la patrona della fertilità e dei lavori nei campi. E comunque il mese di agosto è zeppo di festeggiamenti ad antiche divinità legate ai raccolti, non era facile un tempo avere il cibo e sicuramente non era pronto e incartato come quello di oggi. La funzione di protettrice delle attività agricole fu poi trasferita alla Vergine nei primi secoli, durante il processo di evangelizzazione. A Gerusalemme si cominciò a celebrarla ben presto. L’imperatore bizantino nel VI sec. ordinò che la celebrazione venisse estesa a tutto l’Impero. La festa divenne così popolare che intorno al Mille era fra le ricorrenze nelle quali si osservava il riposo. Le prime discussioni sull’assunzione di Maria risalgono al V secolo e affermano che la Vergine era immortale perché Cristo l’aveva portata con sé. Poteva il Cristo nella sua immensa bontà dimenticarsi della Madre? Nei vangeli apocrifi si racconta che la Madonna aveva chiesto al Figlio di avvertirla della morte, tre giorni prima. Maria stava pregando quando le apparve un angelo del Signore dicendole: “Fra tre giorni sarà la tua assunzione”. La Madonna convocò al suo capezzale Giuseppe d’Arimatea e gli altri discepoli; una nube discese con Cristo e una moltitudine di angeli che accolsero l’anima della Madre. Poi la nube si allontanò e gli apostoli diedero sepoltura al corpo di Maria. Chiamata in Oriente Transito o Dormizione di Maria, la festa non esprimeva in modo chiaro l’Assunzione di Maria, il dibattito teologico continuò per tutto il Medioevo, cominciarono a moltiplicarsi le petizioni alla Santa Sede per la proclamazione del  principio, finché Pio XII nel 1950, rese ufficiale il dogma, come segno di speranza per il popolo di Dio che cammina verso il giorno del Signore.

immagine: dea Atargatis

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 17/08/2015

Quelle gite a San Leo

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Anni fa, non esisteva il weekend, e neanche la settimana bianca o quella al mare, al massimo si organizzava  un picnic in montagna per Ferragosto o la scampagnata al mare il 10 agosto, per via dei 7 bagni di mare, da fare in tale giorno, che preservavano dalle malattie per tutto l’anno. L’occasione  della gita di un giorno o due, era un grande evento, di solito era il parroco che l’organizzava, si riempivano anche due o tre corriere.   La gita “classica”era quella di San Leo e San Marino. Come si arriva a San Leo ciò che colpisce immediatamente è l’imponente rupe con pareti a strapiombo, la fortezza costruita sopra, pare una stratificazione del monte stesso. Alle pendici si raccoglie il piccolo abitato medievale, dove sotto l’olmo della piazza nel 1213 predicò San Francesco, che proprio qui ebbe in dono il monte della Verna. I primi abitanti furono gli Umbro-Sabelli, i Galli e i Romani. L’antico nome di Montefeltro deriva dal masso roccioso, il “Mons feretri” dove, secondo la tradizione, in epoca romana sorgeva un tempio dedicato a Giove Feretrio. Il tempio di Giove Feretrio fu il primo tempio costruito a Roma, Tito Livio scrive che con le spoglie del nemico sconfitto, Romolo salì sul Campidoglio. Lì, dopo averle poste sotto una quercia sacra ai pastori,tracciò i confini del tempio:“Io Romolo, re vittorioso, offro a te, Giove Feretrio, queste armi regie, e dedico il tempio tra questi confini…”. Narra la leggenda che un giorno Sant’Agata risaliva la valle del Marecchia assieme a San Leone e San Marino, questi ultimi due erano due scalpellini provenienti dalla Dalmazia (ex Jugoslavia),in cerca di luoghi solitari, ove stabilirsi. I tre per sfuggire alle tentazioni carnali, e per ricercare la quiete, a un certo momento si separarono. Marino salì sul Monte Titano, Leone salì sul Monte Feltro e Agata sul Monte di Perticara, legando il loro nome a questi territori. Su San Leone si sa veramente poco, forse nel 257, due cristiani di nome Leone e Marino, giungono a Rimini e si dedicano a evangelizzare la popolazione riminese. Probabilmente  per sfuggire alla persecuzione dell’Imperatore Diocleziano, si rifugiano sul Titano, poi Leone si trasferisce sulla rupe non molto distante, qui costruisce una piccola cella e una cappella dove, nel segreto, raduna i cristiani. Per tradizione, San Leone è considerato il primo vescovo, anche se l’istituzione ufficiale della diocesi è avvenuta alcuni secoli dopo. San Leone dormiva sulla nuda pietra, aveva la sua dimora presso la sorgente che sgorgava nella valle, un’acqua dal gradevole sapore, che sarà poi chiamata “Santa”, tutt’oggi esistente. La roccia, l’acqua, il Santo e i suoi miracoli, la conformazione particolare del monte, la Vergine citata come Dea nell’epigrafe sul coperchio del suo sarcofago, il tentativo dell’imperatore tedesco Enrico II di portare i suoi resti in Germania, testimoniano una sacralità antica legata ai Celti… manca solo la Madonna legata ai culti agrari che troveremo nella pieve.     Ciò viene ribadito dai Romani col tempio a Giove Feretrio, i pastori con la quercia poi non potevano essere che druidi. Prima del Concilio di Nicea (325), e anche dopo, non c’erano dogmi nel cristianesimo, c’era amore e si cercava il bene. Poi siccome tutte le cose non guidate e senza regole degenerano, la Chiesa fu costretta a mettere dei limiti. L’abitato conserva “due pietre preziose”: sono le due chiese romaniche quasi affiancate, cioè la pieve e il duomo, quest’ultimo è un capolavoro dell’architettura romanica, vi è conservato  parte del sepolcro di San Leone, ritenuto opera del Santo, in realtà databile al V-VIII secolo. La Pieve molto suggestiva, ha una cripta per le reliquie ed un sacello dove Leone dormiva sulla nuda pietra e un bel ciborio sull’altare. La chiesa è dedicata alla “Dormitio Virginis” tema di origine orientale che diverrà dogma solo nel 1950 col nome di “Assunzione”. Non lontano dal centro, si trova un po’ nascosto uno dei più antichi conventi francescani. La leggenda narra che San Francesco, non potendo entrare  a San Leo, perché era già buio, vide dei fuochi di pastori e passò la notte con loro. Egli stesso chiamò quel luogo fuoco sacro, cioè Sant’Igne.

 

 

 

immagine: San Leo

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 17/08/2015

Gli illustri carcerati

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Il Forte di San Leo, fu carcere di due uomini insoliti, uno nasce a Palermo: Giuseppe Balsamo, meglio noto con il nome di Alessandro conte di Cagliostro, massone, truffatore, alchimista? L’altro nasce a Meldola: il romagnolo Felice Orsini, un terrorista o un patriota? Cagliostro viaggiò per tutta l’Europa, affiliandosi a logge massoniche e fondandone una di rito egizio. A Parigi, è coinvolto nel noto scandalo della collana di Maria Antonietta e incarcerato alla Bastiglia.Riesce a dimostrare la propria innocenza, ma nel 1789 viene arrestato per ordine del Sant’Uffizio. Muore nel 1795 nella fortezza di San Leo. Pare che muoia lo stesso giorno che aveva previsto: il 27 Agosto 1795, a 52 anni, forse stremato dagli stenti o per strangolamento o per un pugno in testa datogli da un frate. Un paio di anni fa, una rivista esoterica dava la notizia dell’esistenza di un biglietto autografo di Cagliostro, scritto da Palermo, in cui questi chiedeva la grazia per Balsamo. Sia mai possibile che Cagliostro e Balsamo fossero due persone diverse e che Cagliostro non morì a San Leo? Felice Orsini era un patriota mazziniano, la sua breve esistenza fu intrisa di passione per l’Italia libera e di violenza, a 17 anni uccise un uomo. Nel 1844 con altri patrioti venne arrestato e rinchiuso nelle carceri di San Leo, qui ci fu un tentativo di evasione, perpetrato da altri affiliati che non volevano abbandonare i compagni. Orsini subì così un altro processo e fu trasferito in un nuovo carcere. Nel 1857 Orsini, ruppe con Mazzini e forse emotivamente disturbato, ideò l’assassinio dell’imperatore francese. Il 14 gennaio 1858, con alcuni complici gettò tre bombe contro la carrozza di Napoleone III che stava recandosi al Teatro dell’Opera di Parigi. L’attentato, che vide l’utilizzo di particolari ordigni esplosivi definiti “Bombe Orsini” (bombe con innesco a mercurio fulminante, riempite di chiodi e pezzi di ferro), causò la morte di 8 persone ed il ferimento di altre 156, mentre Napoleone III rimase illeso. Napoleone III era considerato da molti patrioti italiani, il vero colpevole della caduta della Repubblica Romana nel 1849, per cui meritava la morte. Ironia della sorte, dopo l’attacco di Orsini, (o forse per timore del moltiplicarsi degli Orsini) Napoleone, dichiarò  guerra all’Austria nel 1859, da cui seguì l’indipendenza italiana. Orsini finì ghigliottinato.

immagine: Cagliostro

Articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 24/08/1958

L’Alpe della Luna, zona di quattro confini

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I confini odierni della Romagna: a ovest il fiume Sillaro, a nord il fiume Reno, a sud lo spartiacque fra il torrente Conca e il fiume Foglia, a est il mare Adriatico, a sud-ovest lo spartiacque dell’Appennino tosco-romagnolo fino al Monte Maggiore nell’Alpe della Luna. L’Alpe della Luna si può ben dire una “montagna di confine”, con ben quattro regioni (Toscana, Umbria, Marche, Romagna) che le si addossano. L’Alpe prende il nome dalla Ripa della Luna un dirupo di arenaria alto 200 metri a forma di falce. Questi sono luoghi misteriosi, che stupiscono ed intimoriscono, si respira spiritualità, era la via di San Francesco e era il tragitto dei pellegrini che andavano a Roma passando da Rimini per San Sepolcro; in tempi più antichi forse vi si svolgevano antichi culti alla luna. Piero della Francesca (Borgo San Sepolcro 1412/1417) ne fu certamente ispirato, ne ha ripreso il panorama, i suoi dipinti sono luminosi e immoti come l’atmosfera che si respira qui. Dall’Alpe della Luna nascono il Marecchia, il Metauro e il Tevere. Veramente il Tevere, la cui sorgente si trova sul Fumaiolo, è romagnolo perché Mussolini fece spostare i confini nel 1923, ma la zona era comunque limitrofa. Questa Alpe della Luna è così magica che non poteva mancare la leggenda. Si narra che durante una festa dei conti di Badia Tedalda, il giovane conte Manfredi conobbe Rosalia e se ne innamorò perdutamente. Ma la famiglia del giovane ostacolava in ogni modo questa unione. Tuttavia Manfredi continuava a corteggiarla. Durante una sera di luna piena, mentre i due stavano amoreggiando Rosalba svelò al giovane il segreto dell’Alpe della Luna. La fanciulla disse al conte:“Quando la Luna sembra appoggiata all’Alpe, se uno potesse toccarla tutti i suoi desideri sarebbero esauditi. Nell’Alpe sono nascosti immensi tesori, ma nessuno è mai riuscito a  trovarli. L’Alpe appartiene alla Luna e lei uccide chiunque si avvicini”. Rosalia convinse Manfredi a toccare la luna per prendere il tesoro, in modo di potersi sposare. I due innamorati, partirono insieme a cavallo e non si videro mai più. Si narra  che in certe notti di luna piena si possono vedere due cavalli con due giovani che hanno le mani protese verso la luna… la tradizione dice pure che i malviventi che rapinavano le diligenze e i viandanti erano soliti nascondere la refurtiva nei boschi dell’Alpe ed uccidevano chiunque si avvicinasse.

Articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 24/08/1958

Le streghe son tornate

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Oggi alle streghe non ci crede e non le teme più nessuno, anche se negli anni Ottanta i maschi si preoccupavano davanti al grido delle femministe:“Tremate, tremate, le streghe son tornate!”. La Romagna dedica molte feste alle streghe, per esempio a San Giovanni in Marignano o a Cesena con la festa tutta pagana e stregonesca dedicata al suo patrono San Giovanni, con le bancarelle di lavanda, aglio e il fischietto rosso. Ricordiamolo il 24 giugno si festeggia San Giovanni il Battista colui che fu giustiziato da due “streghe”, la bella Salomè che chiese la sua testa, in cambio della danza dei sette veli, sobillata dalla madre che odiava il Battista perché la chiamava donnaccia. Ipoteticamente possiamo paragonare Salomè alla lavanda, pianta che un tempo era usata negli incantesimi di attrazione (successo e fortuna) e di protezione, ma anche nel rompere o nel  far nascere i legami d’amore. L’aglio era venerato dai druidi, usato negli incantesimi e nei filtri dai Celti, lo possiamo accoppiare con Erodiade la madre di Salomè, in quanto è la strega più forte quella che istiga e spinge la figlia a fare qualcosa di cui non ha voglia. E il fischietto? Beh per il fischietto possiamo ipotizzare una lontanissima ascendenza, che viene ben prima dei Celti. Il fischietto può ben essere ciò che rimane di un passaggio evolutivo dell’umanità. Da chi avrà imparato a parlare l’uomo? Per me dagli uccelli. Prima l’uomo è rimasto affascinato dal fischio e ha imparato a fischiare, poi ha acquisito il linguaggio degli uccelli, che poi ha dimenticato, forse con l’inizio della scrittura. Per lingua degli uccelli si intende un linguaggio mistico, mitologico o fiabesco usato dagli uccelli per comunicare con gli iniziati. L’esistenza di questo linguaggio è ipotizzata nella mitologia e nella letteratura medievale. Secondo la scienza, il canto degli uccelli va considerato come un linguaggio non articolato ma rispondente a situazioni che si verificano, quali situazioni di pericolo, disagio, aggressività, richiesta di cibo, corteggiamento ecc. Lo studio del canto degli uccelli rientra nell’ambito di una nuova scienza, la bioacustica musicale, che studia i fenomeni sonori in relazioni alle forme di vita del mondo animale. Nel sufismo il linguaggio degli uccelli è un mistico linguaggio angelico. Il poema “Il  Verbo degli uccelli” è un poema mistico, la ricerca  allegorica di Dio. Interessante poi riflettere sui due solstizi: la notte di San Giovanni in giugno, solstizio d’estate, i Celti lo chiamavano Beltane, ancora oggi si raccolgono le noci per fare il nocino, il noce era l’albero della strega, dove nella notte di San Giovanni la megera si incontrava col diavolo. Famoso è il noce di Benevento, terra celtica e perciò terra di streghe. La notte di San Giovanni Evangelista in dicembre, solstizio d’inverno, Yule per i Celti. Si raccoglieva il vischio, che si attaccava alle porte, ed anche l’agrifoglio per ricordare il re che in questo giorno muore. Così racconta l’antica mitologia celtica, i miti legati ai due re, il re della Quercia ed il re dell’Agrifoglio; il re dell’anno crescente ed il re dell’anno calante. Lo scontro tra i due re per la conquista della Dea Madre, gli antropologi parlano di un precedente matriarcato, porta al potere sulla Ruota dell’Anno in due diversi momenti. A Yule, il solstizio d’inverno, il re Quercia (il figlio), raffigurazione dell’anno nuovo e della salita del sole, uccide il re Agrifoglio (il padre), simbolo dell’anno vecchio e del sole al suo declino, per poter regnare fino a Litha, il solstizio d’estate, dove a sua volta verrà ucciso dal re Agrifoglio per concedergli di regnare sino al successivo solstizio, quello di dicembre. Nel folklore il Battista viene chiamato San Giovanni che piange perché inizia a calare il cammino del sole, mentre l’Evangelista viene detto San Giovanni che ride perché le giornate iniziano ad allungarsi. E’ l’eterna battaglia tra la luce e la tenebra, tra il giorno e la notte. Queste sagre, ci ricordano i passaggi difficoltosi dell’umanità nel suo lungo cammino, festeggiamo con riti simili ai loro e la Chiesa non riuscendo ad estirparli, li ha accolti nel suo grande ventre.

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 13/07/2015

 

Michele da Cesena e la disputa sulla povertà

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Michele da Cesena nacque a Cesena nel 1270, morì a Monaco di Baviera nel 1342. Fu un religioso, teologo e filosofo. Nel 1316 fu eletto generale dell’Ordine francescano, fu un personaggio di grande rilievo nelle vicende politiche ed ecclesiastiche del XIV secolo. Sostenitore di papa Giovanni XXII, lo avversò quando questi condannò come eretiche le tesi sulla povertà della Chiesa. Michele si inserisce come conciliatore nella cosiddetta disputa sulla povertà e nella lotta delle investiture fra il papa e l’imperatore. Intorno al concetto di povertà divamparono aspri dibattiti e confronti, soprattutto quando papa Giovanni XXII si espresse con varie bolle pontificie, sulla falsità della povertà di Cristo e degli apostoli. Ponendo in discussione la povertà di Gesù, il papa non entrava in aperta contesa solo con i francescani spirituali, che si riconoscevano come gli unici fedeli allo stile di vita di San Francesco, che aveva già scomunicato nel 1317, ma con l’intero Ordine francescano. Una polemica aspra che durò vent’anni e che coinvolse anche il   successore di Giovanni XXII, coi francescani che difendevano la dottrina dell’assoluta povertà di Cristo, condannata come eretica dal pontefice. Nel 1322 Michele da Cesena, con altri esponenti di prestigio tra cui Guglielmo di Ockham si pronunciarono a favore dell’assoluta povertà di Gesù Cristo e degli apostoli. Giovanni XXII dichiarò eretica la loro posizione, Michele si rifugiò alla corte dell’imperatore Ludovico. La vicenda di Michele si inserì così nella lotta per l’investitura tra Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro, che era riuscito ad avere la meglio su Federico d’Austria, e che aveva manifestato l’intenzione di scendere in Italia, in aperto contrasto con il papa che lo scomunicò. Il Bavaro, si infuriò e con un concilio dichiarò eretico Giovanni XXII. Michele si schierò con l’imperatore ed entrò a Roma al seguito di Ludovico, che venne incoronato imperatore. Il papa non lo riconobbe e scomunicò Michele. Ludovico nominò un antipapa, e se ne tornò in Germania con Michele. L’antipapa senza protezione si recò ad  Avignone a chiedere perdono a Giovanni XXII. La chiesa avigno­nese, venne bollata come la grande meretrice dell’Apocalisse, e Giovanni XXII come l’An­ticristo. Guglielmo di Ockham è il protagonista del famoso romanzo e film “Il nome della rosa” in cui figura anche Michele da Cesena.

 

 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 13/07/2015

Quando gli intellettuali italiani volevano la guerra

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Nel 1914 l’Italia era neutrale, a favore di ciò erano i socialisti che erano internazionalisti, i proletari non  dovevano fare guerra tra loro, e i cattolici per pacifismo. Il neutralismo sembrava prevalere, ma emersero le voci contrarie dei cosiddetti interventisti, favorevoli alla guerra contro gli imperi centrali. Questa minoranza era molto agguerrita e aveva più teorie. Fra di loro diversi romagnoli, seguaci del Futurismo di Tommaso Marinetti, artisti, letterati e musicisti tra cui Umberto Boccioni (i suoi genitori, i suoi nonni erano di Morciano di Romagna, nacque sì a Reggio Calabria ma ritornò in Romagna a soli venti giorni. Aldo Palazzeschi  lo definiva ‘Purosangue romagnolo’. Palazzeschi fu compagno di strada dei futuristi ma se ne staccò presto per il loro interventismo), i fratelli Bruno e Arnaldo Ginnani Corradini, Francesco Balilla Pratella che volevano la guerra per igienizzare il mondo e creare un nuovo assetto sociale sulle macerie del vecchio ordinamento. Tra gli irredentisti, cioè chi voleva portare a compimento il processo risorgimentale, ricongiungendo all’Italia le terre “irredente”: Trentino e Venezia Giulia, vi erano sia i nazionalisti, sia i democratici. Tra loro Aldo Spallicci politico, cultore e promotore dell’identità e delle tradizioni popolari della Romagna. Irredentista “di ferro” pure Gabriele D’Annunzio, si ricordi l’Impresa di Fiume, dove il Vate, infuriato perché l’Italia, alla fine della guerra, non aveva ottenuto Fiume e la Dalmazia, guidò un gruppo di militari ribelli a Fiume (1919) proclamandone l’annessione e prima organizzò il volo su Vienna, spargendovi migliaia di volantini pro-Italia. Come dimenticare poi Angello Belloni, ex ufficiale della Marina che rubò un sommergibile, con in mente un progetto ben preciso: andare a combattere contro l’Austria (1914). Fu incarcerato, ma dopo pochi mesi l’Italia entrò in guerra e lui fu liberato e considerato un eroe. Inizialmente neutrale, in quanto socialista, Benito Mussolini divenne interventista, fu espulso dal partito, anche se poi un altro interventista romagnolo Pietro Nenni divenne in seguito socialista, rappresentando il partito per oltre mezzo secolo. I più volevano la pace, ma si finì in guerra per colpa di pochi, è intrigante poi osservare  come l’azione diventi eroica o sovversiva, secondo il pensiero vigente del tempo.

immagine: Mussolini nel 1915

articolo già pubblicato sul quotidiano  “La Voce di Romagna” il giorno06/07/2015

 

Alteo Dolcini e la Svizzera

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Alteo Dolcini (Forlimpopoli 1923/Faenza 1999) scrittore e studioso delle tradizioni della sua terra, era   dotato di fervida creatività, stupisce per le geniali idee che maturava e per la tenacia con cui seppe realizzarle: il Consorzio per la Tutela dei Vini Tipici Romagnoli, le Cà de Bé, il Tribunato di Romagna, la Società del Passatore sono alcune delle sue creature. Nel 1962, darà vita al Consorzio per la Tutela dei Vini Tipici Romagnoli, per la denominazione d’origine con l’obiettivo di valorizzare l’enologia romagnola. Da questa prima intuizione nasceranno, poi, le Ca’de Bé, autentici templi del convivio romagnolo. Nel 1969 raggiunge il traguardo della creazione del Centro Universitario di Ricerca Viticolo ed Enologico, nell’Azienda Agricola di Tebano, a Faenza, che si trasforma in Cantina Sperimentale con la convenzione sottoscritta da Università di Bologna.  Nel 1971 viene inaugurata la “Cà de Bé” di Bertinoro, cui seguiranno, nel 1975, la “Cà de Ven” di Ravenna e nel 1976 la “Cà de Sansvéz” di Predappio Alta. Poteva non essere così? Dolcini era nato in settembre mese dei colori, dei profumi, del vino e delle rose, il mese della vendemmia, ma… “Non durano a lungo, i giorni del vino e delle rose” (Ernest Dowson )… in questo mese Dolcini è nato ma è anche morto. “Il Palio del Niballo”, “La Giornata del Faentino Lontano”, “La Nott de Bisò”, sono sue idee, come pure “La Bendandiana”, la creazione di un casa museo coi materiali appartenuti al celebre sismologo Raffaele Bendandi. Riporta in luce la tradizione della “impagliata”, dono di una ceramica che il Sindaco di Faenza offre alle mamme dei primi nati dell’anno. E darà inoltre il via al Tribunato di Romagna, per la valorizzazione della identità culturale e delle tradizioni enogastronomiche romagnole. Nel 1970 nasce, la Società del Passatore, due anni dopo, l’Ente Tutela Ceramica  e il Mondial Tornianti. Nel 1965 fondò  “La Mercuriale Romagnola”, storica rivista di informazione,  e poi, l’Ente Musica Romagna nel 1992, e infine la “Cento chilometri del Passatore”, gara podistica assai seguita ancora oggi, se non fossi una “patatona” la fare pure io, il cammino si svolge in uno scenario unico, la strada che unisce Firenze a Faenza, un binomio di antica tradizione. Nel 1994 costituisce l’associazione “Fo-Fa” (Forlì-Faenza) che si richiama all’immagine della Madonna del Fuoco, venerata nelle due città. Dolcini fu anche un prolifico autore letterario con temi diversificati, dall’enologia alla storia, dai culti religiosi locali ai confini territoriali della Romagna. L’ultimo titolo, “La Svizzera è nata in Romagna”, è stato pubblicato postumo nel dicembre 1999. Alteo Dolcini nella sua ultima ricerca storica ha come tema il documento della “Lettera di Faenza” datata 1240, fondamento della libertà elvetica e oggi conservato nel Museo dei Patti Federali Svizzeri a Schwyx. “Lettera, dalla quale, scaturisce quel seme che darà vita al grande rigoglioso albero dell’indipendenza Svizzera” (Indro Montanelli). Ma vediamo un po’ i fatti. Nel 1240 Federico II cala in Italia per riaffermare il proprio potere sui feudatari e in particolare sul papa. Le città di Romagna sono devastate dalle lotte fra guelfi e ghibellini. Faenza è guelfa ma ha molti cittadini ghibellini eppure non apre le porte all’imperatore. Le truppe imperiali sono circa 60.000, compresi i numerosi mercenari svizzeri, i faentini sono poche migliaia ma resistono  con tenacia all’assedio. Federico, sempre a corto di denaro, per le troppe guerre intraprese, non ha più oro per pagare i mercenari, gli svizzeri sono senza paga. Una loro delegazione chiede udienza all’imperatore, questi li deve ascoltare altrimenti torneranno tutti casa, abbandonando la presa di Faenza. Chiedono, in quanto non pagati, di continuare a combattere in cambio della loro autonomia: dare obbedienza e imposte solo all’imperatore acquistando così indipendenza dai feudatari Asburgo. Il patto viene sancito, Federico consegna la famosa lettera di Faenza come documento incontestabile. Faenza cadde, non si sa se per sfinimento o per l’ardore degli svizzeri. Grazie Alteo… di tutto ciò che hai realizzato.

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 29706/2015

La Flagellazione ha un legame con la Romagna?

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Piero della Francesca nacque a Sansepolcro nel 1415-20 dove morì nel 1492. Si formò a Firenze insieme a Domenico Veneziano. Le sue prime opere hanno una struttura prospettica rigorosissima, a cui aggiungerà in seguito la luce, una nebbia luminosa che rende le sue opere come “sospese” fra il cielo e la terra. “Il monarca della pittura” lo definì l’amico conterraneo e matematico Luca Pacioli. Piero fu pittore, umanista e matematico, fu uno dei cardini del Rinascimento, la sua pittura è fatta di armonia, luce, geometria e mistero. Intorno al 1451 il pittore arrivò a Rimini dove lavorò nel Tempio Malatestiano all’affresco col ritratto di Sigismondo Malatesta. Qualche anno prima Piero si era fermato a Ferrara, forse nel 1444/45, e al ritorno fece sosta anche a Rimini, dove potrebbe avere incontrato il Signore di Cesena: Novello Malatesta. Ci fermiamo in questi anni per indagare sulla misteriosa tavola di Piero:“Flagellazione di Cristo”, oggi nella Galleria Nazionale di Urbino, di cui non si ha datazione, una proposta degli esperti è dal 1444 in poi, né provenienza, né interpretazione del soggetto. L’opera presenta in primo piano una scena di vita cittadina quattrocentesca, con tre enigmatici personaggi, sullo sfondo un’architettura finemente decorata dove c’è il supplizio di Cristo. Se prendiamo in considerazione che la figura maschile in primo piano, vestita di rosso, simbolo di martirio, con i capelli biondi che formano quasi un’aureola, i piedi  scalzi e posto in modo analogo a Cristo, sia Oddantonio di Montefeltro, ecco che si paragona il destino di Oddantonio, ucciso diciassettenne in una congiura nel 1444, a quello di Gesù. Oddantonio era il fratellastro e predecessore di Federico, quest’ultimo non sarebbe mai divenuto duca di Urbino senza la morte del legittimo erede. Novello Malatesta era cognato di Oddantonio, aveva sposato sua sorella Violante, fanciulla avvenente, molto religiosa e legata al fratello. Novello aveva affetto e un grande ascendente sul più giovane Oddantonio. Violante assistette all’assassinio del fratello, ne fu talmente sconvolta che fece voto di castità perpetua. Forse è possibile che la tavola della “Flagellazione”sia stata richiesta a Piero, nel 1444 o poco dopo, da Novello Malatesta e sua moglie Violante a commemorazione perpetua di Oddantonio e in seguito la tavola sia stata asportata da Cesena.

 

immagine: “Flagellazione” di Piero della Francesca

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 15/06/2015