Ma perché Sigismondo si è raffigurato come Scipione l’Africano e perché tutti quegli elefanti neri?

Ma perché Sigismondo si è raffigurato come Scipione l’Africano e perché tutti quegli elefanti neri?

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 

All’interno del Tempio Malatestiano di Rimininella Cappella della Madonna dell’Acqua, dietro una balaustra su cui stanno ammiccanti angioletti, un po’ robusti e ignudi, vi è l’arca con le ossa degli antenati e discendenti di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468). Si trova in una nicchia interna, coperta da un sontuoso panneggio blu zaffiro e oro, contornata da racemi e dal misterioso simbolo della S intrecciata alla I. Qualche studioso le ritiene le iniziali di Sigismondo e di Isotta, la donna da lui tanto amata, ma siccome questa sigla è sparsa in ogni parte del Tempio, probabilmente a che fare con una simbologia più profonda, forse sintetizza il senso della vita del Malatesta.

L’arca, capolavoro di Agostino di Duccio (1418/1481), scultore fiorentino che si ispirò a Donatello, sul fronte presenta due raffinati bassorilievi raffiguranti: “Minerva tra una schiera di eroi” e “Il Trionfo di Scipione l’Africano”, che simboleggiano i due attributi fondamentali dell’immortalità: la Saggezza e la Gloria. Sul pilastro sinistro sorretto da due elefantini neri troviamo le immagini delle Sibille, veggenti nell’antichità, profetesse nel Rinascimento. Le Sibille appaiono in pose pensose con espressioni severe o drammatiche o malinconiche, chi conosce il futuro non potrà mai essere sereno.

Duccio probabilmente rilavorò il sarcofago, pare sia un manufatto antico e che sia giunto da Milano, come dono di nozze di Francesco Sforza per la figlia Polissena, seconda moglie di Sigismondo. Quando Polissena morì il Malatesta sposò Isotta che era sua amante da lungo tempo. Nel rilievo di Minerva, le figure non sono molto corpose eppure Duccio riesce a dare una profondità incredibile. In un edificio colonnato la dea compare mentre riceve l’omaggio da uomini di scienza, condottieri e filosofi, fra cui forse anche Sigismondo armato di tutto punto. Anche qui c’è sorretto da due angioletti il monogramma col “SI”.

Nel rilievo di Scipione il condottiero si presenta trionfante su un carro trainato da cavalli focosi. Le fattezze più che di Scipione sembrano quelle del Signore di Rimini.In alto in lontananza, come se si intravedesse nella foschia, un paesaggio turrito. Scipione è coronato con l’alloro, ha il bastone del comando e la palma della vittoria in mano, accanto a lui la figura della Fama che suona la tromba. La Fama di solito è raffigurata al femminile, in questo rilievo a me sembra maschile, così mi sorge un pensiero. Dalla bocca della Fama nascono voci che si diffondono velocemente, non facendo distinzione tra vero e falso.

Le donne hanno fama di essere chiacchierone, che Sigismondo si sia detto meglio una figura maschile, più discreta, per la Fama? Proprio la Fama, tra l’altro, rovinò Scipione, il generale che sconfisse i cartaginesi e abile uomo politico. Scipione tornò dall’Africa circondato da grande prestigio e popolarità. Gli venne dato il nome di Africano, per ricordare per sempre la sua impresa; venne nominato “primo tra i senatori”, ciò non poteva che suscitare invidie e rancori. L’Africano venne accusato di appropriazione indebita sulle indennità di guerra.

Ma perché Sigismondo si è raffigurato in Scipione l’Africano e perché tutti quegli elefanti neri? I bestiari medievali riconoscono all’elefante, forza, intelligenza prudenza, riservatezza e molte altre qualità, compresa la capacità di perdonare le offese e dimenticarle. Il trionfo di Scipione ha grande fama durante il Rinascimento tramite il poema “Africa” del Petrarca. Ma i Malatesta vantavano già la presunta discendenza da Scipione l’Africano e questi la vantava da Giove che si era trasformato in serpente. (Come la leggendaria nascita di Alessandro Magno).

Sigismondo utilizzò il simbolo dell’elefante nella maniera più ampia e varia, è presente in molti luoghi del Tempio Malatestiano. I cimieri degli elmi dei della casa Malatesta raffiguravano un elefante nero con una regale corona d’oro. Resta da capire perché gli elefanti raffigurati siano indiani e non africani. Che sia per la scritta presente sul portone della Biblioteca Malatestiana di Cesena: “L’elefante indiano non teme le zanzare?”. Ovvero attenti alle chiacchiere che mettete in giro!

Paola Tassinari

War is Over? Arte e conflitti tra mito e contemporaneità: la mostra presso il MAR di Ravenna

War is Over? Arte e conflitti tra mito e contemporaneità: la mostra presso il MAR di Ravenna

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 

War is over? Arte e conflitti tra mito e contemporaneità è la mostra allestita, dal 6 ottobre 2018 al 13 gennaio 2019 presso il MAR di Ravenna. Curata da Angela Tecce e Maurizio Tarantino, l’esposizione segue due tracce: le opere d’arte e le citazioni di scrittori, poeti e filosofi. Si articola in tre temi: Vecchi e nuovi mitiTeatri di guerra, Frontiere e confini/ Esercizi di libertà, quest’ultimo rivolto all’arte vista come profezia di un futuro possibile. L’esposizione si collega idealmente al centenario della prima guerra mondiale, suggerendo più spunti sui disastrosi conflitti, tra cui il più deleterio e subdolo: quello di creare fascinosi miti.

Il tutto si avvale di installazioni di Studio Azzurro, famoso gruppo di artisti che gioca con i media attuali a tutto tondo (operando come le botteghe di un tempo, quando ogni artista di fama proveniva da una bottega e poi creava la sua), con artisti del calibro di Picasso, Rubens, Abramovic (con un inquietante quadro in cui una donna a seno nudo, il volto coperto dai capelli e un teschio biancheggiante tra le mani evoca la calda ed erotica carne e la fredda e tecnica morte), Beuys, Boetti, Burri, Christo, De Chirico, Fabre, Kiefer, Nitsch (con le colate di sangue, che quasi non posso guardare, mi evocano le sue performance coi corpi di animali mutilati e crocifissi, sangue alle pareti, carcasse squartate davanti al pubblico, qui c’è solo  buio e disperazione) Kentridge, Kounellis, Rauschenberg, Warhol, Pascali ( molto più sottile e speranzoso di Nitsch, trasforma una bomba a mano in uno scrigno dove introduce bigliettini coi suoi pensieri, un pensiero positivo che ricorda Pollyanna e il suo segreto), Marinetti, Pistoletto e tanti altri tra cui una lastra in marmo che evoca il monumento funebre di Guidarello Guidarelli, simbolo delle collezioni del MAR.

Mostra d’arte e di parole, a fianco delle opere, ci sono citazioni che ti raspano l’anima come carta vetrata, che di per se stesse pongono già una domanda: è nata prima l’immagine o la parola? Se la risposta può sembrare scontata, pensando alle grotte di Lascaux, non è scontata la vittoria dell’immagine sulla parola. Se raschiamo la crosta del mito viene fuori uno slogan che ripetiamo sovente… un’immagine vale più di mille parole. Una teoria che qualcuno attribuisce a Confucio o a Buddha (veramente il Buddha ha detto qualcosa di assai diverso “Migliore di un discorso di mille parole prive di senso, è una sola frase sensata udita, con la quale l’uomo si calma”), in realtà ha più o meno cento anni: risale cioè agli anni in cui si è cominciato a parlare di pubblicità e di giornalismo.

E’ apparsa la prima volta su un articolo di un quotidiano nel 1911, ripresa nel 1921, da un pubblicitario tale Fred Barnab (guarda caso il nome rievoca Fred e l’amico Barney del cartone animato I Flintstones), che l’attribuì ad un antico proverbio cinese… l’agenzia fallì nel 1941 e nel frattempo Barnard confessò che il detto non era né antico né cinese: “l’abbiamo pensata perché la gente prendesse la frase seriamente”. E’ possibile che un’immagine sia capace di raggiungere la nostra coscienza con più forza di molte spiegazioni? Claudio Strinati, storico dell’arte non ha dubbi: il primato va all’immagine.

La nostra epoca è figlia dell’immagine, televisione, cinema, smartphone e altro (n.d.r. non c’è da stare tranquilli perché sono state proprio le immagini il veicolo principe di tutti i totalitarismi del tragico Novecento) potremmo forse considerare le stesse parole come una particolare forma di immagine? (n.d.r. nella mente si crea l’immagine e poi la si descrive, ciò indica l’immagine come nata per prima, determina però la scrittura come un’evoluzione e perciò superiore alla visione). All’opposto il rabbino Benedetto Carucci Viterbi, da tradizione ebraica sostiene che una parola vale più di mille immagini. Una tradizione fortemente iconoclasta, presente anche nell’Islam, incentrata sulla predominanza della parola e della sua forza creatrice: Dio parlò e creò il tutto: la parola quindi è infinita, l’immagine finita e univoca.

Meglio mille parole o mille immagini? Direi, a parer mio, che la verità sta nella strada mediana, quindi 500 parole e 500 immagini, come gli artisti che nelle loro opere inseriscono simboli e messaggi archetipici o gli scrittori, poeti e filosofi che descrivono visivamente con le loro parole riuscendo a creare nella mente del lettore un’immedesimazione filmica… quindi il trionfo del cinema, parola e immagine. Infatti, a War is over, assai notevole è la sala tappezzata con manifesti di film di guerra.

Da non perdere il video con gli spezzoni dei film, geniale la trovata di uno di questi da cui si passa da una specie di bomba/testimone, che vola nel tempo, che si trasforma poi nell’osso scagliato verso il cielo di 2001: Odissea nello spazio, il capolavoro di Kubrick , una metafora di offesa e conquista che si trasforma in messaggio positivo. Molte le citazioni che chiamerei propositive, (ad esempio War is peace / freedom is slavery/ ignorance is strength La guerra è pace/ la libertà è schiavitù /L’ignoranza è forza, terribile, profonda e soprattutto veritiera frase di Orwel in 1984), altrettanto le opere d’arte, tra cui un eccelso Rubens che raffigura un suntuoso alabardiere accanto a un simpatico e fumettaro Yoda, il mago Merlino di Guerre Stellari, che dialogano con una frase di San Paolo.

Il biliardino di Pistoletto, una partita fra africani ed europei, con la scritta Love is difference, il grande artista sa parlare con ogni cosa, in questo caso il calciobalilla (bellissimo gioco da bar, soppiantato dalle slot machine ideato in epoca fascista nei centri per la riabilitazione psicomotoria dei reduci di guerra. Balilla è un nome usato spesso da Mussolini nella sua propaganda, era anche una radiolina, un’utilitaria oltre ad essere il bambino fascista dai 6 ai 12, probabilmente il nome nasce per la similitudine tra i piccoli balilla fascisti e le piccole sagome dei giocatori.

Il termine probabilmente fu ispirato alla figura di Giovan Battista Perasso, detto  Balilla, patriota genovese del Settecento, ma foneticamente balilla ricorda Alalà che nella mitologia greca era la personificazione del grido di battaglia, figlia di Polemos il demone di tutte le guerre. Il termine fu ripreso da Gabriele D’Annunzio per coniare il celebre esortativo  Eia, Eia! Alalà!, quale grido di esultanza degli aviatori italiani che parteciparono all’incursione aerea su Pola del 9 agosto 1917, durante la prima guerra mondiale. Se Alalà!  era l’urlo di guerra greco, Eia! era il grido con cui, secondo una tradizione, Alessandro Magno era solito incitare il suo cavallo Bucefalo).

Il calciobalilla di Pistoletto segnava la vittoria degli africani col risultato di 4 a 0, non so se volutamente da Pistoletto o meno; siccome l’arte di oggi è interattiva mi sono permessa di cambiare il risultato con un 4 a 4, cioè alla pari, perché l’Occidente e l’Europa e gli altri Paesi alla pari devono stare, basta rimorsi, si è pianto abbastanza, si lavori affiancati che anche l’Africa ha i suoi orrori e i suoi dittatori e le sue colpe e sulle decisioni importanti l’emozione fa brutti scherzi.

Avrei voluto parlarvi di tante altre opere, ma poi avrei avuto bisogno di pagine e pagine. Mi limito perciò a introdurvi nella Mostra, che inizia con tali parole: “Polemos è padre di tutte le cose, di tutto re” (Eraclito), ma Eraclito era pessimista, meglio forse Democrito? In uno dei suoi Dialoghi, Luciano immagina che Giove e Mercurio si improvvisino venditori di filosofi. Giove e Mercurio lodano per la loro saggezza due opposti filosofi l’uno che continuamente ride, l’altro che invece piange (simbologia presente sia nella mitologia celtica, il re che piange e il re che ride, che nella Chiesa cattolica, Giovanni che ride e Giovanni che piange). Il filosofo che ride è Democrito: se tutto è un caso allora perché angustiarsi.

Quello che piange è Eraclito, il filosofo del divenire che avverte la tragicità di un mondo in cui il senso trapassa nel non senso. Sembrano contrapposti, in realtà non lo sono, se uniti non possono che dire… accetta con animo tranquillo e distaccato il caso/caos naturale, ma rattristati per il caos dell’uomo che non è un caso, la morte è naturale ma quando diventa un assassinio è atrocità ed è pianto per tutti. (Orari: Da martedì a domenica dalle 9 alle 18. Chiuso il lunedì. Biglietti: Intero 10 euro, ridotto 8 euro).

Paola Tassinari

L’Aquila, le Chiavi, il Giglio: lo spettacolo del Castello di Castrocaro

L’Aquila, le Chiavi, il Giglio: lo spettacolo del Castello di Castocaro

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 25 Set 2018, 11:58

Castrocaro, è un paese di origine etrusca, già stazione termale ai tempi dei romani, era chiamata Sulsubium ed è tuttora famosa per le sue acque sulfuree. Nell’ameno borgo, su una rupe, ciò che resta di un’antichissima scogliera sottomarina di età miocenica (10 milioni di anni fa); una rupe con molti resti fossili marini di notevole interesse geologico, testimonianza di un antico viaggio del mare, si erge il Castello di Castrocaro. Una delle opere incantate che adornano la Romagna

Grazie alla sua posizione elevata e al difficile accesso era facilmente difendibile, non fu mai conquistato. La rupe ebbe valore strategico sin dalla preistoria, poi il Castello fu sentinella di un ampio territorio, ergendosi in un luogo di passaggio obbligato per gli eserciti. Il Castello segnava il confine che divideva il regno longobardo dai domini bizantini; la prima testimonianza scritta della sua esistenza risale al 961.

Inizialmente fu dei conti di Castrocaro, raggiungendo ben presto una grande importanza tanto che nel 1160 e nel 1164 ospitò anche l’imperatore Federico Barbarossa. Con la morte di Federico II (1253), lo Stupor Mundi se ne andava in un’altra vita per il solito mal di pancia, e il conseguente traballamento di potere il Castello finì sotto il potere temporale della Chiesa. La Rocca da residenza feudale divenne presidio militare e sede di tribunale. Nel 1403, dopo lunghe trattative e peripezie Firenze acquistò la Fortezza dal Papa con annessi e connessi.

Con il dominio della Repubblica di Firenze, iniziò per Castrocaro un periodo fausto sia sul piano politico che culturale e sociale, Castrocaro diventò capoluogo della Romagna fiorentina. Agli inizi del Seicento, in seguito alla nuova politica del Granducato toscano, la Rocca perse la sua importanza strategica e pian piano fu abbandonata, non serviva più, quindi inutili erano i costi elevati per mantenerla. Il suo inutilizzo, col tempo si è rivelato assai positivo, in quanto lo ha preservato intatto, lasciandoci un castello medievale originale e non un tarocco.

Nel 1923 la Fortezza venne acquistata dal Comune, nel 1982 ebbero inizio i lavori di restauro con la decisione di riutilizzarla a fini culturali e turistici. Unica nel suo genere, per tipologia e ampiezza, la Fortezza di Castrocaro è composta da tre distinte opere architettoniche e difensiveil Girone, la parte più antica con il Mastio, la Rocca, l’espansione due-trecentesca del Girone e gli Arsenali Medicei, che racchiudono ambienti vasti e altissimi che stupiscono per la capacità tecnica dell’uomo, caratterizzati da un’enorme muraglia in cotto e un soffitto a botte di mattoni regolari, struttura che a sua volta ingloba speroni di roccia su cui si può leggere la preistoria e vedere conchiglie di milioni di anni fa.

Dopo oltre quattro secoli di abbandono, la Rocca e gli Arsenali medicei sono stati resi agibili e affidati in gestione alla Pro Loco di Castrocaro, che ha reso visitabili il Palazzo del Castellano, il Cortile delle Armi, la Corte, la Chiesa di Santa Barbara, (dove forse segretamente si sposò Caterina Sforza con Giovanni de’ Medici detto il popolano, che da quanto risulta dal ritratto di Botticelli era veramente un bel giovane) Torre delle Prigioni, le Grotte trogloditiche con la tomba etrusca ed il cosiddetto  Balcone dell’Acquacheta o Balcone degli innamorati dal quale si ammira un panorama da sogno.

Nelle sale del Palazzo del Castellano, la Pro Loco ha allestito il Museo Storico-archeologico denominatol’Aquila (periodo imperiale del castello) le Chiavi (periodo papale) il Giglio (periodo fiorentino), dove sono esposte armi, maioliche, dipinti, arredi e suppellettili antiche. Non vi racconto nulla del museo, perché dovete andare a visitarlo vi dico solo qualcosa… scoprirete la differenza fra la scure che tagliava le teste e quella che tagliava i piedi, la strage della notte di Natale del 1386 e la lettera che spiegava ai superstiti cosa fare, il perché si dice che si può perdere la testa per una donna, vedrete un gabinetto medievale assai efficiente e funzionante e constaterete che tale toilette era in voga ancora negli anni Cinquanta/Sessanta nelle campagne romagnole e poi conoscerete il segreto della coniglia e dell’uccello e la storia di Margherita che piange il suo amore perduto e tante altre cose.

Nello stesso Palazzo la Proloco ha allestito l’Enoteca dei vini pregiati locali, così saprete, sempre grazie al Castellano, che è uno squisito padrone di casa, che Cosimo de’ Medici preferiva assai assai il nostro Sangiovese, piuttosto che il Chianti, spendendo una fortuna per procurarselo. Il territorio di Castrocaro con il Castello, la Rocca di Monte Poggiolo, Terra del Sole e Pieve Salutare meriterebbe il fregio di Patrimonio Unesco. Ingresso 5 euro, orari indicativi: il sabato pomeriggio, domenica e festivi mattino e pomeriggio. Qui il link con gli orari esatti:  https://www.proloco-castrocaro.it/il-castello/prezzi-e-orari.html (n.d.r. appellerei il Castellano col titolo di Uomo Patrimonio Unesco, se visiterete il Castello con la sua guida capirete il perché… l’entusiasmo e l’amore per ogni cultura/coltura, scevro da interessi personali realizza i sogni)

Paola Tassinari  

Chiesa di San Giovanni Battista a Rimini, Guido Cagnacci, non fa differenze tra donne e Sante, per lui ogni donna era sensuale

Chiesa di San Giovanni Battista a Rimini, Guido Cagnacci, non fa differenze tra donne e Sante, per lui ogni donna era sensuale

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 28 Ago 2018, 06:25

L’Ordine dei Carmelitani ha le sue origini nel Monte Carmelo, dove visse il grande profeta Elia, ritenuto uno dei fondatori della vita monastica. Da sempre questo monte è stato considerato il giardino verdeggiante della Palestina e simbolo di fertilità e bellezza. I carmelitani si diffusero in Europa dalla Terrasanta dopo le prime crociate; furono eremiti ed ebbero fra di loro un Santo molto famoso: l’inglese Simone Stock. Nella storia vi è un collegamento con la Romagna ed un romagnolo, Guido Cagnacci

La leggenda racconta, infatti, che nel 1251, l’Ordine del Carmelo, era circondato da ostilità, e rischiava di estinguersi. San Simone Stock, si rivolse alla Madonna. Ascoltò il suo dolore donandogli lo scapolare, con queste parole: “Coloro che moriranno rivestiti di questo scapolare non andranno nel fuoco dell’inferno. Esso è un segno di salvezza, protezione e sostegno nei pericoli e di alleanza di pace”. I carmelitani ottennero la concessione della chiesa di San Giovanni Battista a Rimini nel 1573 e tale possesso rimase fino al 1797, a seguito delle soppressioni napoleoniche passò ai frati cappuccini.

I carmelitani divennero molto popolari e seguiti, specie per la loro venerabile Madonna del Carmelo. La chiesa è stata ricostruita agli inizi del Seicento e successivamente, in eleganti forme barocche, alla fine del ‘700. La chiesa ospita pregevoli dipinti, su cui primeggia la pala “Madonna con Santi Carmelitani”realizzata intorno al 1630 dal santarcangiolese Guido Cagnacci, uno dei protagonisti della pittura inquieta del Seicento. La pala dalle belle figure e dai notevoli e preziosi tessuti coi panneggi deliziosamente modulati, alla vista così morbidi che vien voglia di toccarli, colpisce per la posizione defilata della Madonna col Bambino, posta in alto, in posa di profilo.

Maggior spazio è dedicato a Sant’Andrea Corsini, la sua presenza è legata quasi certamente al giubilo dei frati per la canonizzazione avvenuta nel 1629. Andrea di nobile famiglia fiorentina, nacque nel 1301 sebbene in gioventù fosse arrogante, spendaccione e ozioso, udì il richiamo religioso e vestì l’abito carmelitano. Nella pala il Santo volge gli occhi alla Vergine col Bimbo ricevendone il beneplacito. Ai piedi del Santo troviamo le carmelitane Teresa d’Avila e Maria Maddalena de’ Pazzi.

Quest’ultima nasce nel 1566 appartiene alla famosa casata de’ Pazzi, potenti per generazioni a Firenze. A 16 anni entra nel monastero carmelitano in Firenze. Soffre di una misteriosa malattia che le impedisce di stare coricata. Al momento di pronunciare i voti, devono portarla davanti all’altare nel suo letto, dove lei sta sempre seduta. Da questo momento vivrà diverse estasi, che si succederanno per molti anni e le descriverà in cinque volumi di manoscritti. Morirà nel 1607 dopo lunghe malattie.

Nella pala la Santa è inginocchiata, ha un volto bellissimo ricco di punti di luce, gli occhi abbassati e le vesti inondate di chiarore, Cagnacci riesce ad ottenere, lui così carnale ed erotico, un misticismo puro. Maddalena riceve dall’angelo che la sovrasta una corona di spine, chiara allusione alle sue estasi. Teresa d’Avila (1515 /1582), Santa spagnola, è ricordata per essere stata una delle più grandi mistiche della religione cattolica. Fu la fondatrice dell’ordine dei carmelitani scalzi. Nei suoi scritti descrive le sue estasi: un angelo le colpiva il cuore con un dardo dalla punta infuocata che le lasciava cinque ferite, simbolo delle stimmate.

Nel dipinto di Guido Cagnacci, Teresa viene trafitta dalla freccia infuocata dell’angelo, vestito riccamente di rosso e che pare meravigliato di ciò che sta accadendo. L’intensità della Santa è una specie di languore che la spossa, gli occhi sono chiusi e la bocca semiaperta pare ansimare di piacere. L’estasi sembra un orgasmo, come la più tarda e famosissima opera marmorea “Estasi di Santa Teresa” del Bernini a Roma. Cagnacci, non fa differenze tra donne e Sante, per Guido ogni donna era sensuale. E’ innegabile che Cagnacci dia il meglio di sé nei quadri in cui le donne sono le protagoniste indiscusse. La pala dei carmelitani benché sia in un luogo religioso e raffiguri delle Sante, rientra in questo ambito. Le donne, dipinte o reali, furono la fortuna e la sventura del romagnolo Guido Cagnacci.

Paola Tassinari

Montefiore Conca, panorama impagabile, castello, fantasma, tesoro, città sprofondata, antichi riti… che altro c’è?

Montefiore Conca, panorama impagabile, castello, fantasma, tesoro, città sprofondata, antichi riti… che altro c’è?

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 10 Lug 2018, 19:12

 

Il Castrum Montis Floris è citato per la prima volta in un documento del XII secolo. Una concessione fatta da papa Alessandro III alla Chiesa di Rimini. Monte del Fiore o Montefiore Conca, già il nome evoca un luogo ameno, è un borgo posto tra le colline di Romagna e Marche. A venti chilometri da Rimini, su un tragitto un tempo assai frequentato.

Tanto da essere citato da Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso, per indicare la via da percorrere da Rimini ad Urbino: “Quindi mutando bestie e cavallari, /Arimino passò la sera ancora;/ né in Montefiore aspetta il matutino/ e quasi a par col sol giunge in Urbino,”(Orlando Furioso c. XLIII, s. 147). Montefiore Conca è inserito fra i 100 borghi più belli d’Italia, si abbarbica con le sue case attorno al castello, capolavoro dell’architettura malatestiana, venne costruito nel Trecento, pare sia stato iniziato da Malatesta “Guastafamiglia”, il figlio di Pandolfo I Malatesta, chiamato così perché “guastava” le famiglie, condannando a morte molte persone.

Dopo una salita in auto un poco tortuosa si arriva al paese, si sale poi a piedi per ripide scarpate per accedere al castello, oggi restaurato e visitabile nei suoi grandi saloni, come quello dell’Imperatore con gli affreschi di Jacopo Avanzi, quello del Trono, e i terrazzi panoramici. Un po’di “fiatone” per essere ripagati da viste mozzafiato, un panorama che abbraccia a tuttotondo la Romagna intera, partendo da Ravenna l’occhio arriva sino al profilo del monte Conero.

Nel 1322 i Malatesti acquistarono dal comune di Rimini e dal papa tutti i diritti su Montefiore. Iniziarono così ad abbellire il castello, fornendolo di tutte le comodità. Un maniero non solo difensivo ma arricchito di affreschi e ornamenti. Così divenne una delle dimore estive predilette dai Malatesti e luogo di rappresentanza per ricevere ospiti del calibro del re d’Ungheria Luigi D’Angiò, papa Gregorio XII e papa Giulio II e altri. Dopo la sconfitta di Sigismondo Malatesti (1462) Montefiore tornò sotto il dominio della Chiesa, governato prima da Cesare Borgia (1500-1503), poi dai Veneziani (1504-1505).

Nel 1514 fu concesso dal papa in feudo al principe macedone Costantino Comneno, condottiero e capitano di ventura, nel 1517 a Lorenzo di Piero de’ Medici, nel 1524 ancora al Comneno (che qui morì nel 1530). Dalla metà del XV secolo fino all’Unità d’Italia, il castello fu proprietà dello Stato Pontificio, subendo un processo di progressivo abbandono. I primi restauri si ebbero tra gli anni ’50 e ’70, l’attuale aspetto è invece il frutto dei lavori del 2006 /2008. Come ogni castello che si rispetti ha il suo fantasma, quello di Costanza Malatesta.

La tradizione vuole fosse la madre di Azzurrina, la bimba morta misteriosamente nella Rocca di Montebello. Costanza andò sposa giovanissima, rimase ben presto vedova. Ritornò a Montefiore con una ricca dote, dandosi alla pazza gioia assieme a numerosi amanti. Questo fatto provocò le ire dello zio Galeotto, che ordinò ad un sicario, di ucciderla. Ma sei anni dopo Costanza risultava ancora viva, forse fu per questo che si iniziò a parlare del suo fantasma, avvistandolo nella Rocca.

Oltre al fantasma, Montefiore ha altri misteri, sembra che nelle mura del maniero sia nascosto il tesoro di Sismondo Malatesta e che le fondamenta del castello celino la città scomparsa di Conca. La leggenda di un’Atlantide sommersa è nata a seguito di un’annotazione di un anonimo commentatore della Divina Commedia. In cui si parla della “città profondata”, si favoleggia quindi di una città sommersa dall’acqua al largo della foce del fiume Conca. Nei pressi di Cattolica, ma “città profondata”, può riferirsi sia a profondità di mare che di terra.

Panorama impagabile, fantasma, tesoro, città perduta… che altro c’è? Un senso religioso profondo, a Montefiore Conca si trovano numerosi Santuari. Da sempre meta di fedeli, tra cui il Santuario della Madonna di Bonora e quello della Madonna di Carbognano. Inoltre si svolge una cerimonia antica, la cui origine si perde nel tempo: la Processione del Venerdì Santo, con riti precisi e ripetuti nei secoli, tramandati da padre in figlio, ogni mantello con cappuccio, ogni ruolo della processione appartiene ad una famiglia di Montefiore da lontanissime generazioni.

Altro evento, che quest’anno giunge alla 25° edizione, è Rocca di luna, si terrà sabato 14 luglio e le vie e le piazze del borgo si riempiranno di musica, spettacoli e divertimenti per grandi e bambini. La festa si chiuderà con un grande spettacolo piromusicale realizzato dalla Rocca malatestiana. Durante la manifestazione saranno presenti bancarelle di prodotti tipici, artigiani e hobbisti. Ingresso 7 euro. Gratuito per bambini fino 10 anni e per i residenti del comune di Montefiore Conca.

Paola Tassinari

Pennabilli, capitale religiosa del Montefeltro, in luglio si arricchisce di una delle mostra antiquarie più belle d’Italia

Pennabilli, capitale religiosa del Montefeltro, in luglio si arricchisce di una delle mostra antiquarie più belle d’Italia

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cronaca RomagnaCultura Romagna, del 4 Lug 2018, 19:55

Pennabilli, capitale religiosa del Montefeltro e sede del Vescovo della Diocesi di San Marino-Montefeltro, è posta sulle pendici occidentali del Monte Carpegna. A circa 40 chilometri da Rimini, sul confine romagnoloPrima feudo dei Carpegna, poi dei Malatesta, prima che questa famiglia scendesse a Verucchio e poi a Rimini.Insignita dal Touring Club della Bandiera arancione, ha numerosi monumenti da ammirare e visitare: la Cattedrale, il Santuario di Sant’Agostino con il monumento della Madonna delle Grazie, il Convento delle Agostiniane, la Chiesa e l’Ospedale della Misericordia.

A Pennabilli ha vissuto a lungo Tonino Guerra che qui ha lasciato allestimenti e opere, che hanno arricchito il paese attraverso il Museo diffuso dei luoghi dell’Anima, composto da sette installazioni: L’Orto dei Frutti Dimenticati (dove si intrecciano installazioni artistiche e varietà antiche di alberi da frutto), La Strada delle Meridiane, Il Rifugio delle Madonne Abbandonate, Il Santuario dei Pensieri, L’Angelo coi Baffi, Il Giardino Pietrificato, opere visitabili tutti i giorni gratuitamente. Un tempo chiamato Penna e Billi, oggi diventato un unico abitato detto Pennabilli, probabilmente era un importante centro mistico del popolo celtico.

Billi è una parola che significa albero sacro, mentre Penna deriva dal Dio Penn o Pennin, antica divinità celtica. Letteralmente penn, significa, cima o sommità, da cui proviene anche il toponimo per la Catena degli Appennini. Non lontano da Penna, c’è il Balzo. Quest’ultimo, è un salto nel vuoto e per i Celti era sacro, se non c’è il Balzo, non è un luogo celta. Il Balzo era una prova iniziatica o forse un luogo di Giustizia Divina, dove si facevano anche dei sacrifici.

Oggi in questo posto così ricco di misticità, si trova una campana tibetana, a memoria di una visita del Dalai Lama 14°. Pennabili è stretta da un forte legame con il Tibet, legato a padre Francesco Orazio della Penna, partito da Rimini per fondare una Missione cattolica, nella capitale tibetana, dove creò un ottimo rapporto con i monaci e la popolazione. Nel 1994, il Dalai Lama, fu onorato, con la cittadinanza riminese. Visitò Pennabilli per celebrare il 250° anniversario della morte del missionario Orazio della Penna. In quell’occasione scoprì una lapide sulla facciata della casa natale del frate e piantò un gelso.

Nel 2005 si ebbe una seconda visita del Dalai Lama. Durante la quale fu inaugurata una struttura metallica, posta sul colle che domina il paese. E’ composta da una campana a tre mulini di preghiera tibetani o manikorlo (liberamente azionabili dai visitatori). Ciascun mulino di preghiera presenta in rilievo un mantra. Secondo la religione buddista ruotare un mulino di preghiera assume il significato di un’invocazione rivolta verso il cielo. Proprio come il suono di una campana. Quest’anno, come di consuetudine, si svolgerà a Pennabilli, nella seconda metà di luglio una delle più antiche e prestigiose mostre mercato d’antiquariato d’Italia. Da 48 anni, l’evento si afferma come un’esposizione di alto livello con garanzia di qualità. Fu definita da Tonino Guerra “una delle mostre più belle d’Italia”.

L’esposizione occuperà i tre piani di Palazzo Olivieri, che accoglieranno trentacinque gallerie antiquarie italiane ed estere con: mobili di alta epoca, sculture, dipinti, gioielli, ceramiche, libri, stampe e oggetti d’arredamento, capolavori d’arte e d’artigianato provenienti da tutte le regioni italiane e da molte parti d’Europa realizzati tra il Medioevo e il Novecento. Durata: 14 – 29 luglio 2018. Orario: da lunedì a venerdì dalle 15 alle 20; sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 20:30. Ingresso: 10 euro. 

Paola Tassinari

Redazione Romagna Futura

Redazione Romagna Futura

‘In a Blink of a Night’: 100 chitarre elettriche al Palazzo di San Giacomo a Russi, faranno rivivere venerdì la Versailles di Romagna

‘In a Blink of a Night’: 100 chitarre elettriche al Palazzo di San Giacomo a Russi, faranno rivivere venerdì la Versailles di Romagna

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cronaca RomagnaCultura Romagna, del 19 Giu 2018, 12:25

La Famiglia Rasponi non aveva mai abitato in campagna. Chissà come mai al conte Guido Carlo Rasponi, venne in mente di costruirsi un palazzo enorme, in mezzo alla campagna. Talmente grande da essere chiamato la “Versailles di Romagna”. Forse fu per celebrare, il fratello maggiore, il cardinale Cesare Rasponi, illustre alto prelato; che quando Papa Urbano VIII morì e i Barberini, filofrancesi, caddero in disgrazia, si recò in Francia per ricucire gli strappi politici.

A Parigi, fece amicizia con la regina e il cardinale Giulio Mazzarino. A tal punto che a Cesare Rasponi fu chiesto di rimanere in Francia e gli fu offerta una pensione generosa. Scrisse al ritorno a Roma nel 1650, un Diario ricco di annotazioni di quel viaggio. Il cardinale Cesare fu autore di varie opere letterarie e fu un religioso misericordioso. Al punto di lasciare gran parte dei suoi beni a un’opera di bene fondata dal sacerdote concittadino Francesco Negri. (Quest’ultimo è stato un esploratore e naturalista italiano, che viaggiò sino a Capo Nord). All’epoca si narrava che, se non fosse incorso in una morte prematura, probabilmente sarebbe divenuto papa.

Alla Biblioteca Classense di Ravenna, un dipinto ad olio di Andrea Barbiani, raffigura il cardinale Cesare Rasponi seduto su un seggiolone con alto schienale, con indosso la mozzetta rossa su un candido camice merlettato. Col volto girato di lato, lo sguardo intenso, un poco strabico, con baffi e pizzo alla d’Artagnan e lunghi capelli scuri. Appare come una persona dal carattere pacato ma deciso. Nel 1664 il conte Guido Carlo Rasponi, fratello minore del cardinale Cesare Rasponi, acquistò la tenuta di Raffanara, sita nella campagna ravennate, a circa 2 km dall’abitato di Russi.

Nella tenuta vi erano due edifici, una chiesa dedicata a San Giacomo, e le rovine di un castrum. I Rasponi edificarono la loro residenza estiva sulle rovine dell’antico castello. Il Palazzo è ubicato sotto il fiume Lamone, in un grande spiazzo, in mezzo alla campagna e conserva un bel viale di accesso alberato. Conosciuto anche come “Palazzaccio” o “Palazzo delle 365 finestre”, è veramente imponente, presenta una facciata lunga quasi ottantacinque metri, alta quindici e conclusa da torri di venticinque metri.

Conserva all’interno una serie di affreschi a tema mitologico e allegorico che costituiscono il più vasto ciclo pittorico del Sei-Settecento presente in Romagna. Nella sala dedicata al cardinale Cesare Rasponi, affreschi di Cesare Pronti e di Filippo Pasquali, col ciclo delle divinità rappresentanti i giorni della settimana (Saturno, Mercurio, Giove, Venere, Marte, Luna). Le sale sono affrescate con allegorie dei segni zodiacali. La saletta centrale con l’allegoria delle quattro parti del mondo all’epoca conosciute: al centro del soffitto è dipinto il sole, ai quattro angoli Europa, Asia, Africa e America, con i loro simboli identificativi. Nella saletta della Torre Nord è raffigurata la simbologia dell’Amore; la sala dell’alcova presenta gli affreschi di Zeus e Venere.

Nel 1757 venne aggiunta la cappella esterna, dedicata a San Giacomo, poi ristrutturata da Cosimo Morelli. Durante il Risorgimento il palazzo diventò nascondiglio dei rivoluzionari e sede di riunioni clandestine. La famiglia Rasponi cessò di utilizzare la residenza dopo il 1880, mantenere un’architettura così mastodontica doveva avere costi molto alti. All’inizio del XX secolo furono distrutti il giardino all’italiana e molti elementi architettonici del palazzo. La proprietà passò alla Diocesi di Faenza e fu smantellata, da ignoti, di tutti gli arredi e le suppellettili.

Dal 1975 è proprietario il Comune di Russi; dopo un periodo di degrado, ha ricevuto importanti interventi di restauro grazie a finanziamenti europei, statali, regionali, comunali e di privati. Si narra che il pittore Mattia Moreni, negli anni ‘70, durante i suoi soggiorni estivi a Russi, dipingesse dentro a queste grandi camere. Muovendosi lungo i corridoi e le innumerevoli stanze con una bicicletta. Con gli importanti lavori di messa in sicurezza e restauro, dal 2006, è diventato un luogo perfetto per appuntamenti speciali di Ravenna Festival.

Venerdì 22 giugno, ore 21:30, si terrà lo spettacolo “In a Blink of a Night”cento chitarre elettriche in concerto, lampeggeranno e strideranno, un’occasione da non perdere. Show organizzato da Rockin’1000, l’evento nato a Cesena che ogni anno vede radunarsi mille musicisti e cantanti che lo hanno reso famoso in tutto il mondo, in collaborazione con Ravenna Festival. Euro 15, posto in piedi.

Paola Tassinari