Io sono la divina di Paola Tassinari

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“Io sono la divina”, il titolo allude alla Divina Commedia, è un avvincente romanzo, un viaggio in luoghi reali, dalla assolta e misteriosa Francia meridionale, passando per la magia nera e bianca di  Torino, giungendo in Romagna fino a Ravenna luogo in cui Dante è spirato e sepolto… perché proprio a Ravenna? Un viaggio mentale in quanto la protagonista cercherà di svelare chi sia il Veltro e soprattutto la profezia collegata, che un’antica leggenda narra che si avvererà dopo 700 anni dalla morte di Dante, cioè ora, nei tempi attuali. Rosaspina, la protagonista, si chiama come la fanciulla della favola della “Bella addormentata”, in quanto al suo risveglio è collegata la fine del kaliyuga o età del ferro e il fiorire di un nuovo modo di pensare che porterà ad una nuova età dell’oro. In viaggio con una coppia di amici in un borgo nei Pirenei, Rosaspina è in cerca di ispirazione, che per lei significa farsi trasportare dal vento e andare dove la porta il caso… ma è veramente un caso? Seguendo le tracce profetiche dantesche riviste tramite le profezie di Nostradamus, Rosaspina giunge alla scoperta di una strana iscrizione che la porterà ad approfondimenti storici, cronaca recente, aneddoti, misteri, sincronie che si intrecciano e si uniscono per poi incastrarsi perfettamente tra loro, svelando ciò che sta dietro alla realtà.

Paola Tassinari scrittrice, pittrice, blogger ravennate. Ha pubblicato nel 2012 il romanzo storico Diana da Ghibullo, nel 2013 il romanzo La baldracca di Venezia, nel 2014 il romanzo Sono bruna e sono bella, con le Edizioni del Girasole. Nel 2015 il romanzo Ar’ var alda e la raccolta di poesie Arcana fese colpo, nel 2016 il romanzo Lo spaventapasseri con le Edizioni Sensoinverso, col quale ha conseguito il riconoscimento della critica al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti. Nel 2017 per le Edizioni Sensoinverso ha pubblicato il romanzo La santa allegrezza, premiato col Diploma di merito al Premio nazionale Albero Andronico XI edizione. Ha inoltre pubblicato il romanzo I viaggi di Gilles e la raccolta di favole Biocchi di cotone. Diversi suoi racconti e poesie hanno ottenuto dei riconoscimenti e sono pubblicati in antologie. Ha collaborato col quotidiano La Voce di Romagna e con i quotidiani on line Il Veliero e Ultima voce. Scrive di usi costumi e tradizioni della Romagna sul portale Nazione Futura. Sue favole sono edite sul sito Ti racconto una fiaba. I suoi lavori pittorici e digitali sono presenti in numerosi portali d’arte. E’ inscritta all’ AMA (Albo Mondiale Artisti) e inserita nel Movimento culturale “Cento Artisti per il Mondo”. Nel 2015 ha partecipato alla Biennale d’arte IAT (Italy Art Tokio). Nel 2016 ha aderito al progetto di Ellin Selae, rivista letteraria unica al mondo, con cui ha  pubblicato1000 mini-opere d’arte. Nel 2017 ha partecipato a Forte dei Marmi alla rassegna “Logos – Contemporary Art”  in mostra con artisti contemporanei a fianco opere di importanti maestri del ‘900 .

666 sconfitto dal 515… la Bestia sta per essere vinta dal Veltro, la profezia è già iniziata

Paola Tassinari, un romanzo, un viaggio misterioso e reale per scoprire il Veltro, tramite Dante e Nostradamus: la profezia dei 700 anni si avvera, tramite una lastra riscoperta nel 1975 a Torino… DXV “nel quale un cinquecento diece e cinque, messo di Dio” ma anche indicante dopo quanti anni si avvererà ovvero 500+ dieci decine+ cinque decine= 650 fra i 650/700 anni, in questo cinquantennio le condizioni cicliche/astrali saranno propizie perché torni l’età dell’oro occorre sono crederci e condividere… questa parola che divide il dolore e moltiplica la serenità… condividere è la parola del secondo Millennio… tutto questo in Io sono la divina

A Spasso con Dante sulle strade della Romagna per finire nella gelosia degli innamorati danteschi

A Spasso con Dante sulle strade della Romagna per finire nella gelosia degli innamorati danteschi

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 8 Ago 2018, 05:30

«Romagna tua non è, e non fu mai,/sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;/ma ‘n palese nessuna or vi lasciai». Questi versi esprimono tutto il fiero carattere della Romagna, mi sovviene pensare che Dante sia molto più romagnolo che fiorentino. Nella Divina Commedia, e precisamente nel canto XXVII dell’Inferno, Dante descrive, le condizioni politiche della Romagna del 1300, a Guido da Montefeltro. Guido fu un personaggio di molte imprese militari. Alla fine della sua vita si pentì e divenne frate, ma tradì la sua veste per aiutare papa Bonifacio VIII. Il quale lo indusse a peccare, assolvendolo anticipatamente, ma il diavolo non si lasciò convincere da questa ante/assoluzione e Guido finì all’Inferno.

Il Poeta dice a Guido che la Romagna non è mai stata senza guerre a causa dei tiranni che la dominano, ma in questo momento non se ne combatte apertamente nessuna. Ravenna è nella stessa situazione da molti anni, sotto la Signoria dei Da Polenta che domina il territorio fino a Cervia. Forlì, che sostenne un lungo assedio e fece strage dei francesi, è dominata dagli Ordelaffi. I Malatesta si sono impadroniti di Rimini, mentre le città di Faenza e Imola sono governate da Maghinardo Pagani, che cambia facilmente le sue alleanze. Cesena oscilla continuamente tra libertà e tirannide.

Dante nel suo amaro vagare, salendo le scale e mangiando il pane altrui, visitò non solo queste città, ma siccome non c’era l’aereo o il treno, Dante avrà fatto molte fermate anche in altri paesi romagnoli. Lasciando la terra di Toscana, valicando il Passo del Muraglione, oggi meta d’obbligo per i centauri, anticamente una mulattiera. Il valico divenne carrozzabile nel 1836. Furono costruiti sul passo anche una casa cantoniera, un albergo e un muro di pietre in modo di offrire un riparo dal forte vento. Da qui l’origine del toponimo.

Dante si sarà arrancato fra questi tornanti su una pericolosa mulattiera sferzato dal vento e dal freddo anche in estate, qui poco dopo il Passo del Muraglione incontrò la Cascata dell’Acquacheta (Inferno Canto XVI), paragonata dal Poeta per la violenza della caduta delle acque al fiume infernale Flegetonte. Pochi chilometri in direzione di Forlì e siamo a Portico di Romagna, dove la tradizione vuole che, a Palazzo Portinari, Dante abbia conosciuto Beatrice.Altri chilometri sempre sulla Strada Statale numero 67 e siamo a Castrocaro Terme. Siamo nella Romagna Toscana e proprio Castrocaro ne è stata per lungo tempo la capitale.

«Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;/ e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,/ che di figliar tai conti più s’impiglia…» (Purg. XIV). Dante è arrabbiato coi romagnoli colpevoli di essere responsabili della degenerazione dei costumi. Mi domando se Dante vivesse oggi quali invettive userebbe. E siamo giunti a Forlì, “La terra che fé già la lunga prova/ e di Franceschi sanguinoso mucchio,/ sotto le branche verdi si ritrova…” (Inf. Canto XXVII), la targa è affissa sul Campanile dell’Abbazia di San Mercuriale, ricorda la resistenza dei forlivesi contro i francesi inviati dal Papa per sottomettere la città ghibellina.

Da Forlì ci dirigiamo alla terra del vino, al colle di Bertinoro , «O Brettinoro, ché non fuggi via,/ poi che gita se n’è la tua famiglia/ e molta gente per non esser ria?» (Purg. Canto XIV) questi versi si possono leggere sul Palazzo Comunale di Bertinoro. Poco lontano da Bertinoro, a Polenta vi è la Pieve di San Donato. Giosuè Carducci ha dedicato un’ode a questa Chiesa domandosi se qui si fosse inginocchiato Dante e da allora ogni anno si tengono letture dantesche. Non cito Ravenna perché tutti sappiamo che Dante è morto qui, ma ci tengo a scrivervi che Dante, lo afferma qualche studiosotra cui Giovanni Pascoli, avrebbe scritto in Romagna tutta la Commedia e non solo il Paradiso.

Il Pascoli non fu solo il poeta del “fanciullino” ma fu anche un valente accademico e dantista anche se questo lato è quasi misconosciuto al volgo. Il Pascoli fu allievo di Carducci, altro studioso del mito dantesco, il quale forse fu un po’ invidioso di questo romagnolo tenace, che riteneva di essere colui che aveva scritto «la verace interpretazione del poema sacro», cosa che gli addolciva “la vita” e non gli faceva “temer più la morte”. Dante ieri come oggi scatena “guerre” fra i suoi studiosi che come innamorati ne sono anche gelosi, forse fu per questo che il Carducci stroncò il suo allievo. «Ho avuto dal Maestro un’altra scudisciata».

Fu l’amaro sfogo con il quale Giovanni Pascoli accolse la bocciatura dell’Accademia dei Lincei al suo saggio, con cui aveva partecipato al concorso nazionale dedicato ai migliori studi sulla Divina Commedia. Carducci, membro importante della commissione giudicatrice dei Lincei e suo maestro di lettere, lo bocciò. Carducci era Docente di Letteratura italiana, docenza che erediterà proprio il Pascoli, nell’Università di Bologna, quello stesso ateneo che rifiutò la laurea a Dante.

Paola Tassinari

OTTO PROPOSTE PER L’ALIGHIERI

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Di solito si inizia a scrivere un articolo dall’inizio, in questo caso inizierò dalla fine, dall’intervento finale di Saturno Carnoli, il quale lamentava la mancanza nella politica ravennate odierna di figure super partes.      Cito qualcuna di queste menti illuminate: Corrado Ricci primo soprintendente di Ravenna e d’Italia, autore di una legge con la quale per la prima volta si tutela il patrimonio artistico, archeologico e storico del nostro Paese, Luigi Rava padre delle prime leggi, di tutela dell’ambiente naturale, emanate in Italia e Luciano Cavalcoli, padre del Porto di Ravenna. Altro che “invenzioni” come Happy hour o notti colorate, piccole iniezioni economiche che lasciano scie di degrado! Non è una sterile critica, ma l’introduzione delle  proposte di Ivan Simonini, già rese note e apprezzate dai candidati della campagna elettorale ravennate, ma subito dimenticate. Simonini ha ripresentato le sue dettagliate proposte, anzi un vero progetto eutopico, al Circolo dei Forestieri, a Ravenna, pochi giorni fa. Prima di dare spazio a questo progetto di Ravenna Città di Dante, Ravenna madre della Divina Commedia, Ravenna che realizza il sogno di Dante, scrivo due mie parole. Se vogliamo guardare solo all’economia, voce assai importante, quanto richiamo e ritorno in ricchezza materiale avrebbe per la nostra città, non solo dall’Italia, ma dal mondo, dichiarare Ravenna città di Dante? La risposta la conoscete già. Con Dante c’è un discorso più ampio, c’è il rinnovamento dei costumi. Nonostante i recenti trionfi della scienza, gli uomini nell’animo non sono cambiati molto negli ultimi duemila anni, l’etica, la morale, i valori sono sempre quelli, la modernità ci ha resi più longevi, più ricchi materialmente, anche più belli, ma i valori di Verità, Giustizia, Onore, Ordine, sono diventati obsoleti, non si conosce neppure il vero significato di queste parole, oggi regna il materialismo, la menzogna, la confusione, e la sovversione è diventata l’ordine; ci può salvare solo la Tradizione, cioè la trasmissione di fatti storici, di dottrine religiose, di leggende passate di età in età. E quale è la nostra tradizione  italiana se non Dante? 1) Liberare Dante dai dantisti di professione (non sopprimerli), le idee nuove  possono arrivare anche da altri ambiti. 2) Dante visto dai grandi poeti, un nuovo terreno fecondo, per capire Dante attraverso le visioni di grandi poeti o letterati come: Boccaccio, Foscolo, Leopardi, Pascoli, Pound, Borges, Mazzini e altri. 3) Pier Damiani,  Guido  Novello e l’Arcivescovo Rainaldo. Dante è il primo studioso di Pier Damiani e al Santo ravennate dedica un intero canto. Guido Novello fu il primo a ricevere una copia completa della Divina Commedia, ma soprattutto lo ospitò, dando al Poeta ciò di cui necessitava. Rainaldo da Concoreggio, Arcivescovo, capace di assolvere i Templari e di rendersi di fatto autonomo dal Papato Avignonese. 4) Per un corso di laurea in Digitalianistica, come Dante resse a Ravenna (a sentir lui nell’Egloga I, dal 1315) la prima “cattedra di italiano” della storia, per quei tempi un’avanguardia assoluta, così l’università di Bologna potrebbe valutare l’avvio nella sede di Ravenna di un’avanguardistica “cattedra di digitaliano”, dedicata alla rivoluzione linguistica indotta dalla rete e dalle tecnologie digitali. 5) Per una  versione della Divina Commedia in italiano corrente, in tanti passi la scrittura dantesca rimane difficile per il lettore di oggi. Se non si vuol perdere il contatto con i giovani, è urgente la “traduzione” in italiano corrente del volgare di Dante. 6) Un Concorso Internazionale per il monumento a Dante, a Ravenna non c’è una statua al Poeta! La memoria collocata magari sullo sbocco a mare del Candiano, ancor meglio se l’opera sarà triplice, con Pier Damiani e Guido Novello 7) Ricognizione delle ossa di Dante, DNA, causa morte, ecc. 8) Realizzare il sogno di Dante, le sue ossa a Firenze per essere incoronate da quell’alloro poetico che il Poeta aveva in vita tanto sperato. Il viaggio delle ossa proseguirà poi per le altre città importanti per il Poeta: Roma, Palermo, Bologna, Verona per tornare infine nella sua Ravenna.

immagine: Ivan Simonini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 17/10/2016

IL REGISTA E IL POETA

A Ravenna, ai Chiostri Francescani, si è svolto, l’evento “Fellini e Dante, l’aldilà della visione”, dagli Atti del Convegno tenutosi alla Biblioteca Classense, con Paolo Fabbri, Università di Urbino, Edoardo Ripari, Università di Bologna e con la presenza di Mario Guaraldi, editore del “Libro dei Sogni di Federico Fellini”, in versione  ebook. Si è affrontato per la prima volta, l’influenza poetica dantesca sulla filmografia felliniana. Fellini ebbe molte proposte dagli americani per un “filmone” sulla Divina Commedia, non le accettò mai, però, creò il personaggio di Giuseppe Mastorna, detto Fernet, un clown che suona il violoncello, il cui viaggio ultraterreno è di chiara ispirazione dantesca. Il Maestro, dopo aver raccontato la provincia romagnola, Roma e il mondo del cinema decide di… partire per l’Aldilà, ma il film non si realizzò mai.   Definito da Vincenzo Mollica come “il film non realizzato più famoso della storia del cinema”, non si sarebbe concretizzato, perché il Maestro era molto scaramantico, consultò l’I Ching, ( un testo cinese molto antico, a cui si pongono domande per un orientamento) ed ebbe un risultato negativo. La scaramanzia di Fellini è probabile fosse rivolta all’ipotesi che nulla accade per caso, perciò fosse bene muoversi col vento e a non andare incontro a situazioni, che nate sotto una cattiva stella, potevano finire male. Nel Mastorna, il Maestro parte dal presupposto che l’Aldilà  sia un “casino” come l’Aldiqua, provando a immaginare cosa sarebbe accaduto a un individuo che, dopo un disastro aereo, si trovasse nell’altro mondo. Privo di punti di riferimento, senza un’identità, sempre più disperato, Giuseppe Mastorna ha un solo chiodo fisso in testa, quello di partire. Le pagine del Mastorna, intessute tra la Commedia di Dante, Il Fu Mattia Pascal (Pirandello), Il processo (Kafka) e l’Ulisse (Joice), ci lasciano dentro un profondo senso di liberazione dalla morte e una gran voglia di vivere. Per Mastorna, Fellini si è valso anche della collaborazione di Dino Buzzati, il loro incontro avvenne a Milano nel ‘65, in un ristorante famoso per il pesce, ma la serata terminò con un’intossicazione alimentare per Fellini, non per Buzzati; altro “segno” per il Maestro, che il “caso” non era in armonia col “tutto”.  Il Mastorna, proviene oltre che dai sogni di Fellini, da un racconto breve di Buzzati, “Lo strano caso di Domenico Molo” che narra di un fanciullo, che compie un sacrilegio mancando a un giuramento, per il senso di colpa, si ammala e sogna di andare nell’Aldilà, per esservi giudicato. Buzzati, intrappolato nel personaggio di Giovanni Drogo, il protagonista del “Deserto dei Tartari”, ma con altre ambizioni artistiche, anche se in molti non lo sanno, Dino Buzzati fu un disegnatore eccezionale, capisce che questo Mastorna non si realizzerà mai e decide di scrivere e disegnare il “Poema a Fumetti”, che suscitò lo sconcerto per il mutamento della  scrittura, dell’immagine e per la presenza massiccia del nudo, una decisione che dispiacerà molto al regista. Il Poema a Fumetti, si ispira al mito di Orfeo e Euridice, dove Orfeo col canto e la musica vince la morte. È la vita anche la morte, è ciò a cui si ispira pure Fellini, tramite un altro suo importante collaboratore, Pier Paolo Pasolini. Una leggenda racconta che un mago avesse consigliato al regista di non girare il Mastorna perché sarebbe morto subito dopo l’uscita del film. Nel 1992 dalla collaborazione con Milo Manara esce il fumetto di Mastorna, nel 1993 il Maestro muore. Grazie a questa interessante conferenza, e ai relatori della stessa, mi sono riconciliata con Fellini, che disdegnavo per le sue donnone dai seni enormi che il Maestro contrapponeva all’innocenza di donne salvifiche come Gelsomina, mi è parso di capire che forse Fellini ricercava in un’unica donna, sia la carne che lo spirito, alla mia domanda, Paolo Fabbri uno dei relatori, semiologo, anche lui un Maestro, per “ricca semplicità”, mi ha risposto con una storiella. Un uomo che voleva sposarsi chiese al sensale di trovargli una donna, ricchissima, intelligentissima e bellissima, il sensale gli rispose… con quello che tu vuoi, io faccio tre matrimoni!

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 10 /10/2016

 

DUE IPOTESI SULL’INFERNO

 

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“Oltre Dante”, è uno dei più originali eventi del settembre dantesco di Ravenna, sicuramente il più coinvolgente in quanto i cittadini stessi saranno i cantori di tutto il Poema. Tre serate, 1/2/3 settembre, rispettivamente l’Inferno ai Giardini Speyer, il Purgatorio ai Giardini San Vitale, il Paradiso ai Chiostri Francescani, la scelta dei luoghi mi pare assai pertinente, orario dalle 18:00/23:00, ingresso gratuito. Ciò è stato possibile grazie al Centro Dantesco dei Frati Minori e a Dante in Rete, il tutto con la regia di Franco Palmieri. Palmieri, che già da alcuni anni sta dirigendo un’analoga esperienza a Firenze, ha sottolineato come la “Commedia” sia nata per essere portata dalla gente alla gente; per questo a Firenze, per quasi due secoli, vi furono letture pubbliche per il popolo. Tutti possono partecipare, occorreva però prenotarsi già all’inizio di giugno. Ora partendo dal presupposto che la Divina Commedia sia patrimonio di tutti, non solo degli eruditi esperti, mi permetto di scrivere due ipotesi con un mio personale punto di vista. Nel V Canto dell’Inferno, la pena per la legge del contrappasso è di essere trasportati dal vento (come in vita dal vento della passione), qui Dante incontra le anime di Paolo e Francesca, che volano unite e paiono leggere al vento. Paolo piange, mentre Francesca racconta la storia del loro amore, nato mentre leggevano la storia di Lancillotto. Dante, alla vista delle loro anime, è turbato, talmente turbato che sviene e cade come se fosse morto. Come mai Dante mette i due amanti all’Inferno? Mentre leggevano le storie dei cavalieri arturiani? Dante era un Fedele d’Amore e il ciclo bretone era un riferimento per questo gruppo di poeti, che ritenevano l’esperienza d’amore come elevazione morale. Dante è obbligato a metterli all’Inferno perché timoroso di incorrere nell’eresia però, “cadendo come corpo morto cade”, quando non c’è più nessuna speranza ci si può salvare fingendosi morti… ecco che metaforicamente l’Alighieri salva Paolo e Francesca. Nel XXVIII Canto dell’Inferno compare Maometto, si trova tra i seminatori di discordie, la cui pena consiste nell’essere fatti a pezzi da un diavolo armato di spada. Maometto appare tagliato dal mento all’ano, con le interiora e gli organi interni che gli pendono tra le gambe. Maometto indica tra gli altri dannati Alì, che fu suo cugino e suo quarto successore come califfo, tagliato dal mento alla fronte, quindi chiede a Dante chi sia e perché indugi a unirsi a loro nella pena. Virgilio spiega che Dante è ancora vivo ed è lì per vedere la loro punizione. Maometto si arresta e annuncia una profezia riguardante l’eretico fra Dolcino (se non vuole seguirlo presto lì, dice, dovrà rifornirsi di viveri per non essere preso per fame nell’assedio del 1306 nel Biellese, qui Dante sembra provi simpatia per l’eretico fraticello). Durante queste ultime parole Maometto tiene il piede sospeso in aria, in una posizione grottesca che accentua il carattere comico/ realistico, questo è ciò che indicano gli esperti, ma… Dante era una mente illuminata, un’anima tesa a cercare la Pace. Maometto è obbligato a metterlo nelle bolge infernali per non incorrere nell’eresia, ma non è poi maniera di Dante lo sfottere gratuitamente. Esisteva anticamente un modo di dire, “essere su un piede di parità” con significato di un trattato posto sul piano della parità. Forse, Dante aggira l’eresia, mette Maometto all’Inferno come di dovere, in quei tempi la logica delle due religioni era solo quella delle armi e purtroppo oggi è ridiventata attuale, ma lo indica “su un piede di parità” cioè come un Profeta al pari di Cristo. Se questa ipotesi fosse veritiera ecco che l’affresco di San Petronio, a Bologna, di Giovanni da Modena, non avrebbe ben interpretato Dante. Io sono molto religiosa, amo la mia confessione e appunto per questo rispetto enormemente quella degli altri, se gli islamici mettessero Cristo all’Inferno mi arrabbierei moltissimo, quindi, come propose Francesco Cossiga qualche anno fa, sarebbe bene togliere Maometto dall’Inferno. Si potrebbe staccare la sua raffigurazione e apporla accanto all’intero affresco spiegandone la motivazione.

 

immagine: Inferno di Giovanni da Modena, San Petronio, Bologna

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 01/08/2016

ENRICO PAZZI E LA STATUA DI DANTE ALIGHIERI

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Enrico Pazzi, scultore un po’ retorico, ma assai impetuoso, nacque a Ravenna nel 1818, frequentò la locale Accademia di Belle Arti. Appartenne alla più importante loggia massonica fiorentina, la Concordia. Fra le sue opere più significative troviamo, la statua equestre in bronzo di Michele Obrenovitsch, le statue di Girolamo Savonarola e quella di Dante, rispettivamente collocate a Firenze in piazza San Marco e in piazza Santa Croce e il monumento a Luigi Carlo Farini eretto nel 1878 nel piazzale della stazione di Ravenna, distrutto durante i bombardamenti del 1944, tutt’oggi è ricollocata una copia. L’illustre uomo politico e scienziato non pare a suo agio in mezzo al traffico, Farini era un uomo metodico, riflessivo non da invettive. Pazzi tornò a Ravenna e lasciò alla sua città natale una raccolta di oggetti d’arte. Morì a Firenze nel 1899. Dante Alighieri, durante il Risorgimento,fu considerato il padre ideale dell’unità nazionale. Pensate che le terre irredente, quelle rimaste fuori dal processo di unificazione, partecipavano, anche loro, al “culto” di Dante, riferisce Santino Muratori, “Trieste diede l’ampolla votiva, fusa con oggetti d’argento di domestico uso offerti dalle donne e dai fanciulli di quella città e di tutto il così detto ‘Litorale’; Fiume diede l’anello d’argento su sui posa l’anfora; la colonna alabastrina che serve da piedistallo fu tratta da un masso delle grotte del Carso”… Pazzi nel 1851 aveva eseguito un bozzetto di Dante con il proposito di farne una copia in marmo da offrire al Municipio di Ravenna che però rifiutò l’offerta, causa l’enorme spesa, probabile che il diniego provenisse dal governo pontificio, un esecutore massone e Dante ripreso mentre pronunciava la famosa invettiva “Ahi, serva Italia di dolore ostello”, non poteva piacere alla Chiesa. L’opera finì in piazza Santa Croce a Firenze. Nella statua Dante è effigiato in piedi, incoronato d’alloro, corrucciato, con gli occhi bui, sorregge con la mano destra la Divina Commedia e ha vicino un’aquila. Il basamento è a pianta quadrata, agli angoli poggiano quattro leoni. Sarebbe bello,traslocare la statua del Farini in un luogo più idoneo, al suo posto mettere una copia della statua di Dante del Pazzi: la stazione, i viaggiatori, i perditempo, accolti o ammoniti dal suo sguardo severo. Ravenna non ha una statua imponente del suo più noto cittadino.

 

immagine: particolare statua Dante di Enrico Pazzi

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 29/02/2016

Il grande Amos Nattini, genio italico “nascosto”

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Davvero, non sapevo niente di Amos Nattini. Sono rimasta fulminata, ma come, chi lo ha nascosto, coloro che parlano d’arte in TV, sui giornali, sul Web, mai un accenno su di lui, forse perché il Duce considerava Dante e Nattini i massimi esempi del genio italico? Scusate signori, abbiamo il più grande artista rappresentante del Surrealismo del Novecento e non lo si trova in nessuna enciclopedia artistica? Allora vuol dire che noi italiani siamo autolesionisti. Amos Nattini nacque a Genova il 16 marzo 1892, appena diciannovenne realizzò le illustrazioni per le “Laudi” dannunziane, mettendosi in luce nel panorama artistico. Nel VI centenario della morte di Dante (1921), Nattini intraprese l’ultraventennale fatica di realizzare le cento immagini,una per ogni canto della Commedia, partendo dall’Inferno e procedendo in ordine di canto. Non esagero citando questa immensa opera, come, “la Cappella Sistina di carta”. Il Duce, diede al Fuhrer, come omaggio ufficiale, il Poema illustrato da Nattini, considerandola testimonianza dell’eccellenza italica. Dopo gli anni del Ventennio e della celebrità, Nattini aderì al movimento partigiano. Fu catturato dalla Gestapo, perché ospitò e protesse dei soldati inglesi. Abbandonò Milano, il giro di artisti per dedicarsi a una pittura del tutto intima, dove raccontava la quotidianità del vivere di “ogni giorno” e delle tradizioni. Inizialmente, Nattini, con le illustrazioni delle “Canzoni d’Oltremare” del Vate, ha uno stile classico con tratti che ricordano il Simbolismo, i preraffaelliti e il Realismo Magico, mentre per le raffigurazioni della Commedia è un condensato pirotecnico con prevalenza surrealista. Con le ultime opere, c’è un abbandono della “furia” per un ritorno al classico, in cui riecheggia una tenerezza che ricorda le Madonne del Botticelli e con lo stesso “senso mitologico”. “Sono diventato il pittore dell’Appennino, della gente che tira la vita coi denti, dei muli che zoccolano sui sentieri della montagna”, annota in quegli anni Amos. Quel che lo rende unico, scrive Ojetti, è l’apparente contraddizione tra la sua spietata incisiva insistente conoscenza del corpo umano e il suo impeto lirico verso l’irreale. A trent’anni dalla morte di Nattini, è uscito a cura di Vittorio Sgarbi, nel novembre del 2015, un volume che racconta, finalmente questo artista di “altri mondi”.

immagine: Amos Nattini (Inferno)

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 25/01/2016

 

Gatto mammone è lui il veltro

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“L’esoterismo di Dante” è un libro pubblicato nel 1925 da Renè Guenon, scrittore esoterista convertitosi all’ Islam, nel quale sostiene che Dante Alighieri sarebbe stato membro di un ordine segreto e che nella Divina Commedia ci sarebbero messaggi nascosti. Egli ritiene che le tre cantiche del Poema rappresenterebbero un percorso iniziatico: l’Inferno sarebbe il mondo profano, ovvero abitato da persone che non avrebbero ricevuto l’iniziazione; il Purgatorio si riferirebbe alle prove iniziatiche ed il Paradiso sarebbe la residenza degli “illuminati”. Gli illuminati sarebbero dei massoni, li identificherebbe dal numero tre ricorrente nella divina commedia, tre sono i principi massonici (libertà, uguaglianza e fratellanza), tre le virtù teologiche (fede, speranza e carità) e tre gli elementi alchemici (zolfo, mercurio e sale), necessari per creare la “grande opera”. Aldilà di ciò, Dante è indecifrabile e imperscrutabile anche agli studiosi, le sue invettive sfuggono come anguille dalle mani. “E più saranno ancora, infin che’l veltro/ verrà, che la farà morir con doglia./Questi non ciberà terra né peltro,/ ma sapïenza, amore e virtute,/ e sua nazion sarà tra feltro e feltro” (Inferno Canto I). Il significato letterale è più o meno questo:“La lupa si accoppia a numerosi animali (intesi come vizi), sempre di più finché il veltro arriverà, e la ucciderà con dolore. Egli non avrà bisogno né di terra né di denaro (peltro), ma di sapienza, amore e virtù, e la sua origine sarà umile (feltro inteso come panno di poco pregio, ma c’è anche chi vi ha letto un’indicazione geografica, tra Feltre e Montefeltro). Il veltro anticamente era ritenuto un cane da caccia, molto veloce, forse il levriero, nel mito partecipava alla Caccia Selvaggia, quest’ultima ha come antica origine, l’incarnazione dei ricordi di guerra, i miti agricoli, il culto degli antenati. Gli studiosi ritengono che Dante per questo Canto si sia servito del serventese romagnolo, tipo di componimento sorto intorno al XIII sec., che tratta di un incitamento da parte di un giullare ghibellino a Guido da Montefeltro. Vi sono diversi tipi di serventese, uno di questi è di un anonimo del Duecento, narra di un gatto mammone che si accompagna ai cavalieri di Artù, è anche il protagonista del Detto del Gatto Lupesco. “Come altri uomini vanno girando il mondo, chi per guadagnare e chi per rimetterci, così l’altro giorno io me n’andavo per una strada, immerso in lieti pensieri, e andavo pensando a un mio amore e camminando a capo chino. A questo punto uscii dalla strada e imboccai un sentiero e incontrai due cavalieri della corte di Artù, che mi dissero: ‘Tu chi sei?’ . E io, salutandoli, risposi: ‘Chi io sia è ben chiaro. Io sono un gatto lupesco, che a ciascuno tendo un’esca, (per vedere) chi non mi dice la verità. Perciò voglio sapere dove andate, e voglio sapere di dove siete e da dove venite’. E loro mi dissero:‘Ascoltate, e vi diremo ciò che volete, dove andiamo e da dove veniamo. Siamo cavalieri della Bretagna, e veniamo dal monte che si chiama Mongibello (l’Etna). Vi abbiamo a lungo dimorato per apprendere e per scoprire la verità sul nostro sire, re Artù, che abbiamo perduto e di cui non conosciamo la sorte. Ora torniamo alla nostra città, nel regno d’Inghilterra. Addio, signor gatto, a voi e ai vostri affari”. Il gatto lupesco è chiamato anche mammone e insieme a quello degli stivali hanno in comune la furbizia, la ferocia e premiano i buoni punendo i cattivi che siano loro il veltro di Dante? La tradizione del gatto mammone affonderebbe le radici nell’antico Egitto, in cui i gatti erano animali sacri e simboli di fertilità poi demonizzati nel Medioevo. Secondo altre interpretazioni, la parola “maimone” deriverebbe dall’arabo e avrebbe sia il significato di “benedetto, di buon auspicio” che quello “di mandrillo e di scimmia”. Il gatto mammone appare di frequente nelle fiabe e nella letteratura di tradizione italiana, pure nel Milione di Marco Polo. Nella letteratura tedesca, nel Faust di Goethe, vi è una gatta mammona che vive in mezzo ai filtri magici, viene incaricata da Mefistofele di preparare una pozione in grado di ridare la gioventù al protagonista.

immagine: William Blake raffigura il Purgatorio di Dante

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 07/12/2015