Una mania per Guidarello

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La celebre statua di Guidarello Guidarelli, opera cinquecentesca dello scultore Tullio Lombardo si trova al Museo d’Arte della città di Ravenna. La lastra tombale è divenuta negli anni oggetto di interesse internazionale e di culto, di devozione maniacale, in sé come manufatto non è speciale, un’armatura di marmo con le braccia  incrociate, la spada sul petto, e il volto non è bello, come dicono, è una maschera funebre, inoltre non è neanche sicuro l’autore, qualcuno dice che è una copia ottocentesca, tra cui esperti famosi. Guidarello nacque tra il 1450 e il 1460 a Ravenna, al tempo sotto il dominio di Venezia, da una famiglia di Firenze, il padre era un notaio. Venne nominato cavaliere molto giovane dall’Imperatore Federico III. Guidarello si sposa con Benedetta del Sale, che proviene da una nobile famiglia ravennate. Combatte alternativamente sotto l’egida del Papa o della Serenissima.     Poi, tornato al soldo della Chiesa, riceve la nomina a capitano dal duca Valentino, al secolo Cesare Borgia, ex Cardinale, figlio del Papa e guerrafondaio. Guidarello si trasferisce a Imola, cittadina romagnola, da dove parte la conquista della Romagna da parte del Valentino. Sarà poi la volta di Forlì, di Cesena, Rimini e Pesaro… tutte queste città cadranno ai piedi di Cesare Borgia. Durante tutto il periodo della guerra, Guidarello oltre che condottiero al servizio del Valentino, e quindi del Papa, si prestò al ruolo di informatore (spia) per la Serenissima. Verso la fine del 1500, dopo aver informato i veneziani sui movimenti dell’esercito papalino in Romagna, compie una delle sue ultime azioni: alla testa di un gruppo di arcieri attacca con successo Faenza. Marzo 1501, siamo ad Imola, città presa due anni prima dal Borgia.La cittadina ha ospiti illustri, vi è Niccolò Macchiavelli, inviato dai fiorentini in missione diplomatica. Vi è Leonardo da Vinci, chiamato dal Valentino per i lavori di consolidamento della Rocca. Con l’assedio e la conquista del fortilizio imolese di Caterina Sforza da parte del Borgia si erano avuti molti danni    provocati dal suo stesso esercito. Leonardo si interessò al problema e fece alcuni disegni inerenti alla sistemazione della Rocca. Fu in questo frangente che Leonardo disegnò la mappa di Imola. Imola è l’unica città al mondo ad avere la pianta disegnata da Leonardo da Vinci, è conservata nelle collezioni reali a Windsor, ed è di proprietà della Regina Elisabetta II. Valentino, trasforma Imola in una specie di caserma e per distrarre i suoi soldati organizza sfarzose feste da ballo. Guidarello prestò ad un certo Virgilio Romano, una camicia lavorata in oro per una festa in maschera, il Romano non volle restituirla, nacque una lite ed alla fine Guidarello fu colpito a tradimento dalla spada del rivale. E così per una festa, per una camicia, il nostro condottiero ed anche spia, perse la vita ed acquistò la fama. Dapprima si trattò di scritti locali, poi intervennero storici illustri e famosi poeti, come Lord Byron, Gabriele D’annunzio, Anatole France ed altri. A questo interesse crescente, musei da tutto il mondo ne chiesero una copia. Nel 1935, il Guidarello venne inviato a Parigi per una Mostra, al ritorno la lastra del condottiero era tutta imbrattata, col chiaro tentativo di farne una copia, ciò portò alla decisione di non prestare mai più l’opera d’arte all’estero. La giustificazione del direttore dell’Accademia di Belle arti di Ravenna fu quella di dover ripulire la lastra, dalle tracce di rossetto lasciate dalle turiste, che lo avevano baciato appassionatamente. I giornalisti colorirono le parole del direttore, iniziando così la leggenda secondo la quale le donne che avrebbero baciato il Guidarello si sarebbero sposate entro l’anno, mentre le donne già sposate avrebbero partorito un figlio bello come il condottiero. Da allora la fama è sempre aumentata, lettere d’amore vengono spedite da ogni dove, a volte con denaro per acquistare mazzi di rose rosse da deporre sulla lastra. Nel 1971 è stato istituito un premio giornalistico assai noto col nome intitolato a Guidarello… mi raccomando oggi non si può più baciare il Guidarello!

immagine: Guidarello

 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 06/10/2014

 

Nella casa Diedi l’eccidio di Girolamo Rasponi

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A Ravenna, lungo la via Raul Gardini, vi è una bella palazzina veneziana dall’ameno balcone: è la Casa Diedi, tristemente famosa per l’eccidio eseguito da Girolamo Rasponi ai danni dell’intera famiglia Diedi. Nel 1570 circa, Bernardino Diedi, figlio di Francesco, aveva chiesto in sposa Susanna, figlia di Bernardino Rasponi, nonostante una precedente promessa di nozze a un’altra sorella di Girolamo Rasponi. Susanna, rinchiusa in casa ma decisa a sposare Bernardino, fu martoriata dal fratello con 14 ferite di stiletto. Si salvò e riuscì a convivere con Bernardino. Dopo che ella ebbe dato alla luce una bambina e fu di nuovo incinta Girolamo Rasponi impazzito di rabbia, decise di vendicarsi: partì dal suo palazzo con 50 banditi alla volta di Casa Diedi, vi entrò alle 3 di notte. A colpi di archibugio e coltellate, uccisero il vecchio Francesco Diedi e il fratello canonico, madonna Giulia e la gestante Susanna. Bernardino si gettò dalla finestra e fu finito a pugnalate dai sicari per strada. Scampano all’eccidio il fratello di Bernardino: Antonio che si copre con un cadavere. Un altro fratello: Bellino fugge, ferito, con la figlioletta della povera Susanna. Insomma una vera strage di altri tempi in nome della gelosia, dell’onore e dell’arroganza. Il palazzo di Girolamo Rasponi, il crudele assassino, fu fatto abbattere in pochi giorni dal Presidente di Romagna (anno 1576) il quale fece spargere il sale sull’area scoperta per significare che mai più su di essa si dovesse rifabbricare a riprovazione perpetua dell’atroce misfatto perpetrato contro la famiglia Diedi. I Rasponi di Ravenna provenivano dalla Sassonia, venuti in Italia al seguito di Carlo Magno. Un Rasponi  nel 1050 stabilì la sede della sua famiglia a Ravenna, dove divenne ben presto potente ed autorevole. Nonostante fosse di parte ghibellina, non mancò di favorire spesso gli interessi della Santa Sede, ricevendone in cambio cariche ed onori. Ma i benefici papali non impedirono a Ostasio Rasponi  d’impadronirsi nel 1522 del potere assoluto, dopo aver trucidato in pubblico chi ne reggeva per la Santa Sede il governo; quindi lotte, discordie, ed infine come ho già scritto all’inizio, l’uccisione  dell’intera famiglia Diedi. Ci furono anche Rasponi illustri, capitani  valorosi  e poi governatori, ambasciatori, vescovi ed un cardinale. Nel 1705 i Rasponi diventano marchesi.       
 

 immagine: Casa Diedi Ravenna

articolo già pubblicato sul quotdiano “La Voce di Ravenna” il giorno 23/06/2014

La favola romagnola delle Lamie. Una è a Ravenna

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Nella mitologia esistono demoni femminili che possono essere considerate figure vampiriche perché come loro sono assetate di sangue. Sono le Lamie e la loro favola esiste anche in Romagna. A San Giovanni Evangelista a Ravenna, vi è una lastra mosaicata del XIII secolo, oggi esposta su un pannello musivo, un tempo facente parte del pavimento della chiesa, che raffigura la Lamia con uno strano corpo un po’umano, un po’serpente un po’uccello, chissà se mai qualcuno, nei tempi antichi, ha creduto alla sua esistenza. Oppure può darsi fossero donne sanguinarie e senza freni e perciò vennero raffigurate così. Lamia secondo il mito era una regina della Libia che aveva avuto da Zeus il dono di togliersi e rimettersi gli occhi a proprio piacere. Attirò su di sé la rabbia di Era gelosa, che si vendicò uccidendole i figli avuti da Zeus. Lamia, lacerata dal dolore, diventò un mostro, aveva però la capacità di mutare aspetto e di divenire bella per sedurre gli uomini allo scopo di berne il sangue. In altre versioni, divorava i bambini delle altre madri, succhiando il loro sangue. Nel Medioevo e nel Rinascimento divenne la strega per eccellenza, ma in altre epoche fu la Sirena o la Fata Melusina. L’identificazione della Lamia coi riti di sangue e la stregoneria è un dato che forse risale alla preistoria, quando si notò il sanguinamento mensile femminile, a cui la donna sopravviveva, sangue che era finalizzato alla fertilità, e che rendeva le donne detentrici del potere di morte/vita. Forse la creazione della Lamia fu un simbolo della vittoria della società patriarcale su quella matriarcale. Un’altra caratteristica che accomuna le Lamie ai vampiri è la capacità di trasformarsi in uccello notturno. L’origine di questa figura va probabilmente ricercata nell’archetipo della dea della notte (magia, soprannaturale, mistero, ma anche morte) spiega, almeno in parte, l’ambivalenza di sentimenti nei confronti della Lamia. C’era un modo, nel Medioevo, per catturare la Lamia, bisognava cospargere le panche della chiesa di sale grosso: quelle streghe che, nascondendo la propria vera natura si fossero sedute fingendo di presenziare alla cerimonia religiosa, sarebbero inevitabilmente rimaste attaccate alle panche. Può sembrare un metodo schiocco, ma forse chi si sentiva in difetto, non si sarebbe mai seduta sul sale… quindi strega era chi aveva paura del sale.   

 immagine: Lamia pannello musivo XIII sec. San Giovanni Evangelista (Ravenna)

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 02/06/2014

“CERCAR MARIA PER RAVENNA” LE ORIGINI DI UN DETTO

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“Cercar Maria per Ravenna”, tutti sanno quello che vuol dire e tutti ne danno una versione diversa. Questo modo di dire è in uso da lungo tempo e non si sa bene come ma è pure usato da Miguel Cervantes  nella stesura del Don Chisciotte, scusate se dico poco.  La storia del “cercar Mariola” o  “Maria”per Ravenna, è un modo di dire popolare risalente al Medioevo, il cui significato è relativo ai tempi. A volte ha il senso di cercare cosa che si sa di non poter trovare altre volte  significa una cosa scontata.  Un dizionario del dialetto veneto ( 1829) ci spiega:  “cercar Maria per Ravenna”  significa cercare il mare dove non c’è, un tempo Ravenna era circondata dal mare che poi si è ritirato. “ Istoria di Maria per Ravenna” scritta nel XV secolo, è un poema boccaccesco in ottave, si conserva nella Palatina di Firenze, ci illustra il significato del proverbio, almeno in quei tempi. “Un ricco ed anziano signore, pensò di prendersi in sposa una giovane e bella fanciulla. La bella Ginevra era già infatuata di un aitante giovanotto: Diomede. Ma l’anziano forte del suo denaro impalmò la bella Ginevra. Capitò poi che il marito dovette allontanarsi per questioni di lavoro. Consapevole dei rischi che correva nel lasciare incustodita la mogliettina si mise a cercare una fantesca fidata. Nel frattempo Diomede, saputo della cerca del vecchio marito, si travestì da donna, si diede il nome di Maria e con intrallazzi vari, riuscì a mettere in giro la fama di essere la fantesca più fidata e sicura della piazza. Il vecchio volendo la persona più fidata, incappò proprio nel Diomede mascherato da Maria. Il marito partì felice e sicuro sulla fedeltà della moglie, mentre quest’ultima si dava alla pazza gioia con Diomede/Maria. Dopo qualche mese il marito tornò, la pacchia finì, anzi il vecchio cominciò a fare il filo alla Maria. Tanto fece e tanto brigò che l’anziano signore, riuscì ad accantonare la Maria e ad infilargli una mano tra le gambe… urlando inviperito la ritirò fulmineo. Ci fu un gran trambusto, ma svelta Ginevra lanciò un pugno di fave secche ai piedi del marito, il quale scivolò, sbatté, la testa e morì. Diomede e Ginevra vissero felici e contenti  con i soldi del marito”. Quindi sarà bene andare cauti a cercar la Maria…  

 immagine: Maria e il suo cavaliere sulla torre di Ravenna in via Paolo costa

articolo già pubblicato sul quotidiano  “La Voce di Ravenna” il giorno 24/03/2014

Il Giardino delle erbe dimenticate

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Il Giardino Rasponi o delle Erbe Dimenticate si trova a Ravenna. Qui è assai piacevole passeggiare o sedersi sulle comode panchine ascoltando piacevolmente un sottofondo di musica New Age. Il binomio musica più giardino è molto accattivante. Il giardino è nascosto da mura, ed è proprio nel centro città. Al giardino è possibile accedere attraverso il portale progettato da Camillo Morigia. Le mura di cinta proteggono il giardino rendendolo ovattato. La caratteristica del Giardino delle Erbe Dimenticate è quella di custodire preziose erbe aromatiche all’interno di aiuole in perfetto stile ottocentesco. Tutte le aiuole sono poste attorno alla bellissima fontana in ferro battuto del XIX secolo. Nella fontana ci sono pesci rossi che guizzano ruotando ed accompagnano i nostri pensieri. Tra le varie erbe coltivate all’interno del Giardino Rasponi bisogna ricordare l’Issopo, il Pungitopo, e piante di Farfara, Farfaraccio, Bardana, Luppolo, Levistico, Erba di San Pietro e tante altre. Questo giardino  apparteneva alla famiglia Rasponi Murat  il cui splendido palazzo è proprio di fronte. Giulio Rasponi faceva parte di una famiglia romagnola, da secoli al centro delle vicende politico sociali di Ravenna, nel 1825 sposò la principessa Luisa Giulia Murat, figlia di Carolina sorella di Napoleone, pertanto nipote  del Bonaparte. Vicino ai Carbonari, il suo salotto divenne luogo di ritrovo e di dibattito dei patrioti liberali. Nel 1839  assieme ad altri esponenti dell’ aristocrazia progressista locale fondò la Cassa di Risparmio di Ravenna. Fu  nonno di Gabriella Rasponi Spalletti ( 1853/1931) presidentessa  del Consiglio Nazionale delle Donne Italiane e pioniera dell’associazionismo. Nella piazzetta che si trova tra il palazzo ed il giardino è stata collocata, non molto tempo fa un’opera d’arte. Il soggetto scelto per simboleggiare l’immagine femminile è un fiore selvatico che nasce sulle dune, forte e flessibile ma sensibile al degrado ambientale. La scultura è realizzata su bronzo con mosaico e madreperla, simbolo di femminilità, e ha alla base un triangolo come simbolo maschile, che regge gli steli. Sopra ci sono cinque petali e  cinque nomi: Kadra, Barbara, Iolanda, Rosalia, Dalia vittime della violenza maschile. Non dimentichiamo che sebbene possa essere violenta anche la donna, l’uomo la deve sempre proteggere.

immagine: Giardino Rasponi

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 0003/03/2014

API, SIMBOLO DI ROMAGNA

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Sant‘Apollinare,si festeggia il 23 luglio, originario di Antiochia in Siria, patrono e proto-vescovo di Ravenna, forse incaricato dallo stesso San Pietro, di cui si dice fosse stato discepolo. Si dedicò all‘opera di evangelizzazione dell‘Emilia-Romagna, per morire infine martire. A Ravenna (nel Duomo) si conserva “e saint sasol“ ovvero un sasso come reliquia della sua presunta lapidazione.   Sant’Apollinare in Classe è la più grande basilica paleocristiana di Ravenna, fatta edificare dal Vescovo Ursicino, terminata e consacrata il 9 Maggio 549. Nell‘abside gli stupendi mosaici  sono testimonianza dell‘ultimo ciclo dell‘arte musiva ravennate. Al centro sotto la croce, è rappresentato Sant’Apollinare in posa di orante, con la pianeta arricchita di 207 api d‘oro, su di un luminoso prato verde, ricco di fiori e di alberi. Le api  passano quasi inosservate davanti alla bellezza di tutto l‘insieme, ma cosa significano, era forse Apollinare un apicoltore? Sto scherzando, Apollinare era un evangelizzatore quindi aveva il dono della parola e dell’eloquenza di cui le api sono simbolo. Probabilmente non è un caso che le api siano 207, in quanto 2+ 0+7 = 9, questo numero era sacro in quanto rappresentava un multiplo del 3 (la triade il numero perfetto).Inoltre le Muse, divinità minori appartenenti ad Apollo, erano 9 e cosa ancora più importante il concepimento dura 9 mesi. La prima iconografia dell’ape risale al neolitico (circa 9.000 anni fa). E‘stata scoperta nel 1921, in Spagna, una grotta sulle cui pareti è raffigurato un nido di api e un cercatore di miele. Lo sciame delle api viene assimilato alla struttura delle antiche società  matriarcali, composto da una madre (l‘ape regina) e una moltitudine di figlie sterili (le api operaie). La regina  è l‘unica a cui è delegata la procreazione, vive circa 4 anni e si differenzia dalle altre api perché nutrita esclusivamente con pappa reale. Sono le api operaie, che eseguiscono tutte le mansioni, fuori e dentro l’alveare, assolvendo cronologicamente ciascuna tutti i ruoli, nell’arco della loro breve vita, che va dai 40 giorni ai 3 mesi. I fuchi cioè i maschi, mangiano a sbafo, loro unico compito è fecondare la regina. La fecondazione avviene in volo, ed interessa un numero di fuchi notevole, anche 15 maschi! Per la simbologia dell’ape, si parte da lontano: dalla Grande Madre, poi la troviamo in Grecia dove lo stesso Zeus sarebbe stato nutrito di miele da Melissa. Il nome di Melissa deriva dal greco e significa “miele”. L’ape/dea  la troviamo tanto a  Creta che in Palestina. A Delfi sembra che il culto della dea/ape fosse successivamente sostituito da quello di Apollo…  Apollinare significa sacro ad Apollo. La chiesa cristiana, nei primi secoli, utilizzava le api come simbolo di resurrezione e come esempio di comunità da seguire; dalle arnie si traeva anche la cera per le candele delle celebrazioni sacre. Api d‘oro furono scoperte nel 1653 nella tomba di Childerico, fondatore nel 457 della dinastia Merovingia, l’ape fu così scelta come simbolo da Napoleone in modo da collegare la nuova dinastia alle origini stesse della Francia. Un altro personaggio famoso, Giuseppe Garibaldi si dilettava con l‘apicoltura anzi era la sua “occupazione prediletta”. Per tornare alla Romagna e a quanto l’apicoltura sia qui amata occorre citare due nomi: Carlo Carlini e Silvio Gardini. Carlo Carlini  nacque a Santarcangelo  nel 1875, svolse la professione di maestro di scuola, fra i suoi allievi fu anche il poeta Tonino Guerra. Carlini era chiamato ”il maestro delle api”  basti pensare che l‘Arnia Italica Carlini  è tuttora lo standard sul quale è basata tutta l’apicoltura italiana. Silvio Gardini nacque a San Pierino di Ravenna nel 1872, figlio del fattore dell‘azienda Ghezzo, una delle più avanzate e moderne di quel tempo. Gardini tracciò le linee dell’apicoltura moderna con l’inserimento di tecniche che forse sono da primato mondiale, ed insieme ad altri allevatori di api fondò a Ravenna il primo consorzio apicoltori in Italia, suo nipote fu il famoso uomo d’affari ravennate Raul Gardini.    

immagine: Sant’Apollinare in Classe (Ravenna)

articolo già pubblicato sul quotidiano  “La Voce di Romagna” il giorno 03/02/2014

IL MIRACOLO DI STELLA MARIS

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Dante Alighieri scrive nella Divina Commedia, al Canto XXI del Paradiso : “… e Pietro peccator fu nella casa di Nostra Donna in sul lito adriano “, con ”Nostra Donna” intende la Madonna Greca di Ravenna.E’un bassorilievo di marmo proveniente da Costantinopoli al quale è legata una leggenda. La raffigurazione è in posa orante con le vesti finemente drappeggiate, presenta undici piccole croci dorate, è nimbata e coronata, in due clipei ribadisce il suo titolo: Madre di Dio. E’ bianca come la neve ma ha tutta la simbologia di una Vergine Nera: è la Stella del Mare, la Madonna che si festeggia la Domenica in Albis come la Madonna del Carmelo di Pagani (Salerno). Pietro degli Onesti appartenente ad una facoltosa famiglia di Ravenna, per umiltà si faceva chiamare “peccatore”, devotissimo alla Madonna, partì da Ravenna ed intraprese un viaggio in Terrasanta, dove rimase sino al 1096. Quando i Saraceni invasero i Luoghi Santi fu costretto ad andarsene. Nel viaggio di ritorno si trovò con il suo imbarco in balia delle onde. Mentre tutti pensavano di perire nel naufragio, Pietro pregava ardentemente la Madonna Stella del Mare promettendole con un voto di erigere in suo onore una chiesa se Lei li avesse salvati. All’istante il mare si calmò e i naviganti approdarono al porto di Ravenna salvi. Pietro adempierà alla promessa fatta alla sua Salvatrice, la chiesa fu presto ultimata e intitolata a Santa Maria in Porto. Poco tempo dopo l’8 aprile 1100, Domenica in Albis,cioè la prima domenica dopo Pasqua, Pietro e i suoi compagni sono in chiesa, quando una luce intensa li sorprende. Escono dalla chiesa e sulle onde del mare, vedono un’immagine di Maria, tra due Angeli che reggono una fiaccola luminosa, galleggiare sulle onde. Nella sua umiltà Pietro non osa avvicinarsi, ma è l’immagine stessa che gli corre tra le braccia. Questa Madonna è molto amata e venerata dai ravennati e sarebbe giusto che i milanesi, più precisamente la Pinacoteca di Brera restituisse la Pala Portuense trafugata  e mai restituita. Eugenio di Beauharnais, viceré d’Italia( 1805/1814) e figlioccio di Napoleone volendo fare di Milano ciò che Napoleone stava facendo di Parigi, derubò a man bassa tutte le opere d’arte più belle dalle altre città, per portarle a Milano. Con la nascita del Regno d’Italia, la pinacoteca  di Brera si arricchì a dismisura, in modo da diventare il “piccolo Louvre” d’Italia. Andrea Appiani, artista neoclassico fu colui che condusse le diverse “rapine legalizzate”, in tutto il regno trasportando nel capoluogo quasi tremila opere d’arte. Caduto Napoleone, le opere non sono mai tornate ai luoghi per le quali erano state create. La pinacoteca di Brera ha così tante opere che molte sono nei suoi magazzini ed altre in deposito in varie chiese della Lombardia. La Pala Portuense è una raffigurazione del miracolo della Madonna Greca, è un’opera straordinaria di Ercole de’ Roberti,esponente di spicco della scuola ferrarese del Rinascimento. Eseguita  nel 1479/1481, a sviluppo verticale ricorda come impianto prospettico il Mausoleo di Teoderico. La Vergine è assisa in trono, alla base  sono finemente  rappresentate storie dell’infanzia di Gesù simulando dei bassorilievi. Tutta la corposa intelaiatura è finemente decorata, ma lo straordinario è la visione di un mare in tempesta con un’improbabile Ravenna fra le colline (o forse sono dune), che occhieggia impertinente fra le colonnine che sorreggono il trono della Vergine. La straordinaria vista di Ravenna è da annoverare fra i primi panorama famosi: le vedute alle spalle dei duchi di Urbino di Piero della Francesca( 1465/1472) e i paesaggi di Giorgione e di Leonardo. Ercole de Roberti era ferrarese e qui aveva certamente conosciuto Piero della Francesca, di cui non mutua la linea morbida, anzi peculio di Ercole è la linea dura e spigolosa dei ferraresi, ma certo ne afferra la spazialità. Nella Pala il panorama rammenta  il miracolo di Pietro degli Onesti, raffigurato accanto alla Madonna con Sant’Agostino, Sant’Elisabetta e Sant’Anna. Tutto in questa Pala parla di Ravenna, dalla devozione, ai personaggi, persino Dante ricorda la Madonna sul lido adriano…  cosa fa allora a Brera?    

immagine: Pala Portuense di Ercole de Roberti

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il 20/01/2014

DON CHISCIOTTE A RAVENNA

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Non avevo mai voluto leggere il Don  Chisciotte, io amante di Achille, di Rolando, dei Cavalieri della Tavola Rotonda come potevo amare o leggere le avventure di uno scalcagnato cavaliere, pazzo, brutto e rinsecchito? Di un cavaliere di cui tutti ridevano. Il Don Chisciotte di Miguel Cervantes, lo avrete letto tutti e quindi vi scrivo solo una brevissima traccia per rammentarvelo, per darvi poi alla fine una notizia che forse non conoscete. E’ la storia di un hidalgo, un signore spagnolo benestante, appassionato di romanzi cavallereschi. Tanto lo avvinceranno queste letture che Alonso Quijano, il nostro eroe, finirà per credersi egli stesso un cavaliere errante. Partirà in cerca di avventure  per difendere i deboli e gli oppressi e coinvolgerà Sancho Panza come suo scudiero che non sempre lo asseconderà nelle sue follie visionarie. Ovviamente la Spagna che si troverà di fronte non è affatto quella dei suoi amatissimi romanzi ma lui non se ne accorgerà neanche. Combatterà con improbabili nemici e mostri frutto della sua fantasia e ne risulterà sempre sconfitto suscitando  il sollazzo degli altri. Per fortuna che poi ho letto questo capolavoro, quanto riso, quanta poesia, quanto divertimento, quanto amore vi è  nelle sue pagine. Don Chisciotte vive la vita che vuole, leggero passa incurante degli altri, ha uno scopo nella vita e lo realizza, fa diventare realtà il suo sogno, gli altri ridono e non vivono, lui vive con follia, ma la vita stessa non è la più pazza delle follie? Don Chisciotte solo in punto di morte sarà savio. Questo grande capolavoro è la linea sottile che unisce la vita e la morte, è il riso che sconfigge il pianto. Che c’azzecca Don Chisciotte con la Romagna? La torre civica di Ravenna in via Ponte Marino ospitava una scultura, una testa, e un bassorilievo raffigurante un cavaliere, queste figure hanno dato vita fra i ravennati  di un tempo ad un modo di dire: cercar Maria o Mariola per Ravenna, ebbene Cervantes,  nel Don Chisciotte paragona il “buscar a Marica por Ravena” col “buscar al bachiller en Salamanca”, cioè cercare ciò che è scontato. Ravenna entra così nell’immaginario dei milioni di lettori di questo straordinario romanzo.

 

immagine: Don Chisciotte di Honoré  Daumier

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”

 

LA PIGNA DI RAVENNA

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La pigna è un po’ il simbolo di Ravenna, si trova nel suo stemma e un po’ in giro  sulle tombe e sui palazzi.  Il simbolo della pigna è uno più misteriosi che si possono trovare nell’arte. La pigna allude al più alto grado di illuminazione spirituale possibile. Il suo simbolo può essere trovato tra le rovine indonesiane, babilonesi, egiziane, greche, romane, e cristiane, solo per citarne alcune. Appare anche nei disegni delle tradizioni esoteriche, come nella  massoneria, nella teosofia, nello  gnosticismo e nel  cristianesimo esoterico. La pigna ha molti significati e per la sua forma è associata all’uovo, da artista dilettante ho costruito in mosaico due pigne per il mio  cancello, ebbene i vicini credevano fossero uova, quindi all’uovo cosmico, alla nascita. Era usanza ben prima della Pasqua cristiana di regalare uova colorate proprio con riferimento alla pigna. La pigna non è legata solo alla Pasqua ma anche al Natale. L’abete, il cui frutto è la pigna, è un sempreverde, riferimento all’immortalità,  è l’albero tipico che si addobba per Natale. Altro significato  della pigna, essendo colma di semi, è quello della fertilità . Nei  letti delle nonne, a volte si trovavano le pigne  decorate sui vecchi letti in ferro .  Servivano per augurare un matrimonio con figli sani e far sì che la camera da letto divenisse un luogo sacro e fertile. Ancora oggi il Sindaco di Faenza regala alla mamma del primo nato dell’anno nuovo un’impagliata, tazza tipica per puerpera, che  ricorda la  forma di una pigna.  La pigna è anche simbolo di fertilità di mente e prolificità di idee, e per la resina che produce, solidificata diventa ambra, è associata alla resistenza e alla tenacia e qui mi sembra che rappresenti bene i romagnoli, noti in tutto il mondo per la loro testardaggine o “zucconeria”. D’altronde se abbiamo la zucca grossa avremo anche un cervello più pesante/pensante. Qualche buontempone, dice che oggi la pigna non è più il simbolo dei ravennati, il nuovo simbolo  non solo per i cittadini di Ravenna ma di tutti i romagnoli, sarebbe il cocomero.  Il cocomero ha la scorza verde, la polpa rossa ed i semi neri ( cioè il romagnolo è insieme repubblicano, che comunista ed anche fascista).

 

immagine: Stemma di Ravenna col pino carico di pigne

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”

STEVE VAI a RAVENNA

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Nietzsche si occupa della tragedia greca  in “La nascita della tragedia”. La sua ricerca è verso l’arte, sull’apollineo e il dionisiaco. Apollo è il dio dell’equilibrio, della misura, nell’arte rappresentata dalla scultura. Dioniso è il dio della sfrenatezza, dell’estasi, nell’arte è rappresentato dalla musica. Per ascoltare la musica e viverla occorre lasciarsi andare, non esiste musica colta o musica popolare esiste musica per vari stati d’animo, e il nostro animo il nostro interiore è molto sfaccettato. Il Ravenna Festival si sforza da anni di regalare alla città e a tutti gli amanti della musica l’ascolto di tutti i generi, da quella sacra, quella classica, la dodecafonica, il jazz, il pop, l’africana, il rock e quest’anno anche il liscio. Dispiace però vedere che c’è la divisione sociale pure qui. Da una parte quelli dell’opera lirica classica, dall’altra i metallari col bicchiere di birra, che non sono poi più tanto giovani. I primi di mezza età ben vestiti guardano in tralice gli altri che a ben vedere applaudono prima della fine del brano musicale, non capendo che il finale è la ciliegia sulla torta di tutte le opere d’arte. Erano presenti anche tanti ragazzini accompagnati dai loro genitori, mancava solo l’ élite che non saprà mai cosa si è persa. Sto parlando della sera del 15 giugno ad una serata al Pala de Andrè  con Steve Vai e la Evolution Tempo Orchestra. Steven Siro “Steve”  Vai è un chitarrista americano di origini italiane. La sua attività musicale oltre a quella chitarristica, si espande anche a livello di composizione e produzione, lo ha portato a vendere circa 15 milioni di dischi e vincere 3 Grammy Awards. E’ uno dei più grandi chitarristi viventi chiamato il Paganini della chitarra. Io non sapevo neanche chi era, mi sono fidata di un amico musicista che mi ha detto, devi ascoltarlo. Ho fatto un po’ di ricerche su you tube, non compro più biglietti a scatola chiusa, c’è la crisi e da qualche parte occorre tagliare, mi è piaciuto ed ho comprato un posto al quarto settore, l’equivalente del loggione in teatro. Sorpresa, il Pala de Andre, era semivuoto e mi hanno fatto accomodare in platea, mi sono detta la serata inizia bene, continuerà meglio. Non ero però pronta per ciò che mi aspettava. L’atmosfera iniziale era in stand by poi è divenuta  satura di religioso raccoglimento. Ci siamo trovati tutti in piedi, per dimostrare il nostro apprezzamento, senza disturbare la musica con un applauso. Steve ci portava in  paradiso con note struggenti, poi all’inferno, saltando a piè pari il purgatorio, con il clamore dei diavoli. Il duettare di Steve con i violini, mi fa venire la pelle d’oca anche ora. Io non ho mai visto né ascoltato nulla del genere, i suoi denti sulla chitarra erano come affondati nel mio braccio. Certo i miei vicini di poltroncina mi guardavano dall’alto in basso perché avevo la bocca spalancata, mi succede quando sono stupita, arrivavano da Verona ed erano fan di Steve. Steve  nei suoi brevi intermezzi parlati non ha mancato di dispensare complimenti all’Italia, e al Festival per l’invito ricevuto e ha ricordato le sue origini italiane. Non è solo un grande artista ha anche modi cortesi ed umili, sul palco diverse chitarre, da ognuna traeva suoni diversi. A volte pareva che non  avesse fra le braccia una chitarra, ma un violino o un pianoforte o… un cavallo e con un’apoteosi salisse al cielo.

immagine: Steve Vai in concerto a Ravenna

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”