Romagnolo ironico e tragico

Nevio-SpadoniDante Alighieri (1265/1321),fu il primo che pose il problema di una lingua nazionale “volgare”, cioè non “latina”, il testo in cui parla di questo argomento è De Vulgari Eloquentia (Sulla retorica in volgare), scritto in esilio, in latino, rivolto ai letterati di professione. Doveva essere in quattro libri, ma terminò al secondo libro, probabilmente a causa della composizione della Commedia. Dante si chiede qual è il volgare più colto e illustre d’Italia? Dopo aver distinto 14 gruppi di dialetti, ci dice che sicuro non è il romano, che è il più turpe, essendo i romani, per i costumi, sopra a tutte le genti corrottissimi (guarda caso lo si dice anche oggi). Senza dar troppe spiegazioni, Dante liquida subito anche i milanesi, i bergamaschi e gli istriani, nonché tutte le parlate montanine e rusticane, e anche i sardi che non sono italici, in quanto privi di un loro proprio volgare e imitatori di grammatica. Sul dialetto siciliano, Dante scrive che è importantissimo perché qui è nata la rima poetica (la canzone, il sonetto, la tenzone). Tuttavia, dice Dante, se questo volgare fu illustre al tempo di Federico II di Svevia e di Manfredi, a partire da Carlo d’Angiò s’è imbarbarito; senza poi considerare, prosegue Dante, che qui si parla di volgare scritto, quello degli intellettuali di corte, che quello degli isolani è sempre stato barbaro. I pugliesi, quando parlano, sono barbari, seppure nello scritto abbiano tradizioni illustri. Fra i toscani vi sono stati eccellenti letterati in volgare, tra cui Dante stesso; tuttavia la loro parlata non è certo illustre, anzi è turpiloquium, e infroniti (dissennati) sono coloro che, solo perché parlanti, lo ritengono il dialetto migliore. La parlata dei genovesi, dominata dalla zeta, è anche peggio. Giudizio negativo è per tutti i dialetti veneti, mentre, fa l’elogio del bolognese: una leggiadra loquela, lo definisce, poiché si è formato come sintesi dei volgari delle città confinanti: Ferrara, Modena, Imola ecc. Tuttavia il bolognese non è aulico né illustre, tant’è che nessuno lo usa per poetare. E sul volgare romagnolo cosa scrive Dante? Il romagnolo conterebbe aspetti troppo femminili e altri talmente rudi da far pensare che le donne siano in realtà degli uomini. Dante è sempre pungente e sempre c’azzecca, come non pensare all’azdòra romagnola, robusta, abituata alla fatica e decisa nel carattere? Oggi il dialetto romagnolo non è scomparso del tutto, grazie a Libero Ercolani autore del Vocabolario Romagnolo/Italiano, all’Istituto Friedrich Schürr,che salvaguardia e valorizza il nostro dialetto e all’opera tenace di alcuni poeti romagnoli che continuano a farci vivere la nostra terra con i loro versi. Le cose migliori scritte in romagnolo per il teatro sono state scritte da poeti, quali Raffaello Baldini o Nevio Spadoni, quest’ultimo dà vita a un mondo intriso da una vena di melanconica follia, ci sono cose, la follia è una di queste, che dette in dialetto risultano di più facile comprensione, più intime ma allo steso tempo dicibili. Alle rappresentazioni di Nevio Spadoni, il pubblico ride, io non ci riesco, quasi piango, i suoi personaggi sono ricchi di umanità e malmenati da una vita dura e cruda. Purtroppo, questa vena poetica, a volte non si ritrova in tutte le commedie in dialetto, a volte gli autori mettono in fila quattro o cinque personaggi tipici e un mucchio di battute standard, creando un riso vuoto che non lascia nulla, neanche una piccola emozione. Ma ci sono anche compagnie teatrali dedite con passione a portare in scena una Romagna che non c’è più, una Terra di ben salde radici, di un pensare rude, ma leale e onesto e che pure sa ridere di se stesso, qualità che oggi mancano. Fra le tante compagnie dialettali cito quella di Bagnacavallo che quest’anno compie settant’anni, affonda le proprie radici nel lontano 1940, anno in cui Guido Fiorentini, grande appassionato di teatro, diede vita alla filodrammatica bagnacavallese. Nel 1946 sempre Fiorentini assieme ad altri fondò la Rumagnola Cdt (Compagnia dilettantistica teatrale). Arrivarono presto i primi successi con i testi di Missiroli e Maioli, autori della ricerca, dell’ironia e dell’emozione.

immagine: Nevio  Spadoni

articolo già pubblicato  sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 11/07/2016

 

 

 

 

 

 

IL MUSEO DEI BOTTONI

museo bottoniStanza dei bottoni, è un modo di dire che indica un luogo dove si prendono le decisioni importanti. Questa metafora si è diffusa con i primi voli spaziali, con le riprese televisive che ne mostravano i grandi apparati per la raccolta dati e gli operatori che premevano pulsanti in forma di grandi bottoni luminosi. Il primo a parlare di stanza dei bottoni, fu nel 1962, Pietro Nenni, il famoso leader socialista che usò questo termine, perché gli americani (era in corso la guerra fredda e la gara fra USA e URSS per la conquista dello spazio) avevano effettuato i loro voli spaziali con Alan Shepard e John Glenn e le relative riprese televisive avevano avuto un enorme impatto sulla popolazione. Ebbene, qualche anno dopo, per la prima volta un Presidente americano, Nixon, nel 1972, andò a Mosca e nel 1975 nello spazio vi fu l’unione fra i satelliti americano e russo. Era finita la guerra fredda ed era iniziata la distensione. Uno stilista volle ricordare l’evento con un bottone con la simbologia delle due potenze mondiali di allora. Il bottone fu poi comperato ad un mercatino da Giorgio Gallavotti.“Qual’è il suo bottone preferito?”. A questa domanda, che i visitatori del suo Museo, pongono a Gallavotti, egli risponde: “Questo bottone è il mio preferito su tutti, perché la pace nel mondo, fra tutti i popoli, è la cosa più importante a cui tutti doppiamo aspirare e lottare per ottenerla”, mostrandovi un bottone metallico con le scritte USA e CCCP, e le forme dei grattacieli di New York e delle cupole del Cremlino. Giorgio Gallavotti vive a Santarcangelo di Romagna, con molta pazienza ha raccolto e cucito su pannelli miriadi di bottoni, a tal punto da creare il Museo del Bottone. Questo piccolo Museo, ordinatissimo e ricchissimo di bottoni, di ogni forma, foggia e colore, stupisce e lascia a bocca spalancata perché si può leggere la storia anche attraverso i bottoni, le simbologie con cui sono decorati, molto spesso effigiano un fatto realmente accaduto. Così si può trovare un bottone con due cornette telefoniche contrapposte, segnalano l’evento, del 1919, la possibilità di chiamare senza passare dal centralino, oppure il bottone con il garofano smaltato a colori che ricorda il Congresso del PSI del 1987 a Rimini. Il museo è esposto cronologicamente, è diviso in tre settori, all’interno dei quali vengono rappresentati i bottoni, i materiali per costruirli e le motivazioni per le quali venivano scelti. Inoltre vi è una appendice in cui si possono scoprire informazioni e aneddoti sul bottone e naturalmente non manca la storia dei bottoni. Nel primo settore ci sono i bottoni in voga dalla fine dell’ 800 alla fine del ‘900, si parte dai modelli estrosi della Belle Epoque, poii bottoni in legno degli anni ’30 e ’40, i grandi bottoni degli anni ’50, per arrivare ai bottoni gioiello, pietre e strass degli anni ’90. Nel secondo settore si indagano i materiali, che sono molteplici, dalla materia prima al bottone finito; madreperla, corno di vari animali, legno, avorio, corozo (chiamato avorio naturale ma, in realtà è un frutto tropicale), argento, tartaruga, galatite, noce di cocco, vetro, rafia, smalti ecc… Nel terzo settore trovano posto i bottoni più curiosi sono del ‘700 e dell’ 800, tra cui spicca il bottone dedicato al figlio di Napoleone, qui si trovano anche i famosi netzuché giapponesi, questi ultimi sono in avorio e sono piccole sculture forate da due buchi per i quali passa un cordoncino, servivano per fissare alla cintura del kimono, che non ha tasche, dei piccoli contenitori. Alla fine del percorso, tanti curiosi aneddoti e modi di dire sul bottone, ad esempio si apprende che un tempo le classi sociali si distinguevano anche dal numero dei bottoni. Il Museo dei bottoni può anche spaventare all’inizio, perché gli occhi,vagano qua e là catturati da una fantasmagoria di immagini e di colori, sono talmente tanti che non si riesce a decidere quale sia il più curioso o il più bello, sono piccole straordinarie opere d’arte, anche se li chiamano semplicemente bottoni. Alla fine, sono riuscita a scegliere il mio preferito, un bottone in stagno degli anni ’60 con l’immagine del mio ballo ballo prediletto: il rock and roll.

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 27/06/2016

Amanuense romagnolo

Medardo Resta amanuenseÈ definita gotica una particolare tipologia di grafie dell’alfabeto latino sviluppatesi nell’Europa settentrionale a partire dall’XI secolo, e poi largamente diffuse in tutto il continente. Le lettere hanno una minore spaziatura, sopra e sotto sono rimarcate da spessi tratti, l’effetto che si ottiene è quello di una scrittura alta e spigolosa, molto elegante, ma scura e di più difficile lettura. Il trionfo della scrittura gotica si ebbe con la grande diffusione del carattere Textura, grafia elaborata, con cui Johannes Gutenberg, inventore della stampa, pubblicò le sue famose bibbie. Prima della diffusione della stampa, l’amanuense era la figura professionale di chi, per mestiere, ricopiava manoscritti a servizio di privati o del pubblico. Nell’antichità la professione di amanuense era esercitata dagli schiavi. Con la diffusione del Cristianesimo fu coltivata in particolar modo nelle abbazie dei Benedettini dove i monaci stavano ore e ore seduti ai banchi a scrivere manoscritti, che costavano una follia, per pochi privilegiati. Particolare curioso è che nonostante la scrittura gotica sia stata inventata in Francia, in tanti credono che sia di origini germaniche. In pieno Ottocento, Goethe elogiava tale scrittura, in un suo saggio, come massima e chiara espressione del popolo tedesco, confermando un’opinione comune in Germania, priva di basi storiche. C’è una spiegazione però, perché se la grafia gotica fu elaborata in Francia per passare poi in Inghilterra è anche vero che solo in Germania divenne la scrittura ufficiale. Oggi le lettere gotiche sono ispirazione per i loghi e per la pubblicità dei gruppi musicali heavy metal e di certi fumetti noir… ma anche per Medardo Resta, un romagnolo di Fusignano. Medardo conosce a fondo l’arte della scrittura gotica, gira con la sua valigetta, sempre a portata di mano, piena di pennini di ogni misura e di boccette di inchiostro nero e rosso. Resta è un amanuense, una professione desueta, di un tempo antico quando la bella calligrafia era una vera e propria materia di studio e comportava il voto. Per questa arte Medardo è stato nominato Cavaliere e Commendatore della Repubblica nel 2005 dal Presidente Ciampi. Ho conosciuto Medardo per caso e mi ha colpito molto il suo entusiasmo per la grafia gotica ma anche per la vita, è un ottantenne che vorrebbe le giornate più lunghe perché è sempre molto impegnato fra le interviste e le apparizioni televisive, sia sulle reti nazionali che sulle reti locali e le numerose ordinazioni per le sue pergamene. Medardo, in ogni pergamena mette la stessa passione di quando iniziò la sua arte, era il 1945, a casa sua si era stabilito un comando tedesco, la loro corrispondenza era scritta con caratteri gotici e lui ne rimase affascinato. Imparò a scriverlo, alla scuola di Belle Arti di Ravenna dove ebbe la fortuna di conoscere la professoressa Minguzzi, insegnante di disegno e specializzata in gotico, che gli insegnò i segreti del mestiere. Resta ha ottenuto molti premi e tanti riconoscimenti, ha stilato pergamene per tanti personaggi illustri: Papa Giovanni Paolo II, Sandro Pertini, Carlo Azeglio Ciampi, Oscar Luigi Scalfaro, Riccardo Muti, Benigno Zaccagnini, Giovanni Spadolini, Silvio Berlusconi, Giulio Andreotti, e tanti altri, ma l’opera, della quale va più fiero: è la pergamena con il “Padre Nostro”, scritta in dialetto romagnolo, che si trova a Gerusalemme sul Monte degli Ulivi assieme a tanti altri “Padre Nostro” scritti in tutte le lingue del mondo. Medardo ha già scritto un Padre Nostro in tedesco per Papa Ratzinger, ora ne sta scrivendo uno in spagnolo per Papa Bergoglio, inoltre una sua pergamena, è stata inviata alla regina Elisabetta d’Inghilterra, che ha molto apprezzato, per i suoi 90 anni, compiuti il 21/04/2016. L’evento che più ricorda con piacere e commozione accadde nel 1991, quando incontrò Papa Giovanni Paolo II, nella residenza estiva a Castel Gandolfo, per un’udienza speciale privata, con cui il Papa volle ringraziarlo per la pergamena ricevuta, dove era scritto in modo artistico con le belle e svolazzanti capo lettere, il Padre Nostro, la preghiera insegnata da Gesù agli apostoli.

immagine: Medardo Resta

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di  Romagna” il giorno 20/06/2016

 

IL MISTERO DEL CAPPUCCIO

Piero,_Pala_della_misericordia,_ autoritratto

In un giorno infrasettimanale assolato, mi sono recata a visitare la Mostra su Piero della Francesca, ai Musei di San Domenico a Forlì, aperta sino al 26 giugno, sperando di trovare poca gente e gustarmi così le opere per benino; invece c’erano tanti visitatori e tante scolaresche, ma il disappunto è sfumato osservando compiaciuta, il comportamento corretto e ordinato degli scolari, attenti e curiosi, accompagnati da insegnati o guide veramente preparate. I ragazzi si sedevano sul pavimento silenziosi, ascoltavano e poi ponevano domande. Davanti alla Madonna della Misericordia, star della mostra, una bambina ha posto una domanda alla sua insegnante… chi è l’incappucciato? Già chi è l’incappucciato in quest’opera di Piero della Francesca?Il capolavoro assoluto, la grande tavola lignea della Madonna della Misericordia, dipinta intorno al 1450 e inserita, nei Musei Civici di San Sansepolcro, dove si conserva, in un grande polittico, ha fondo in oro, su cui campeggia la maestosa figura della Vergine vestita di rosso e dal grande manto blu che apre per dare riparo ai fedeli, gerarchicamente più piccoli, i quali sono disposti a semicerchi, quattro per parte (uomini a sinistra e donne a destra). Tra di essi si vede un confratello incappucciato, accanto all’autoritratto di Piero. L’inquietante figura nascosta sotto il nero cappuccio è uno dei confratelli anonimi che si dedicavano ad una delle opere di carità più difficili da svolgere: assistere i prigionieri nelle ultime ore di vita e accompagnarli fino al patibolo, prendendosi poi cura dei poveri resti.“Visitare i carcerati e seppellire i morti”, nel Medioevo, vi era la compassione verso i più disprezzati, i rei colpevoli, di cui la società si liberava uccidendoli, vi era il rispetto dovuto ad ogni corpo, perché destinato alla resurrezione. Sono gli stessi incappucciati che nelle processioni sacre e rappresentazioni del Venerdì Santo, accompagnavano Cristo lungo la Via Crucis e poi al sepolcro. Ancora oggi, in Spagna, uno dei momenti più importanti dell’anno per gli abitanti di Sivigliasono le processioni che si tengono durante la Settimana Santa, dove i penitenti sono incappucciati e spesso scalzi. Ma anche da noi in Romagna, a Pennabilli, si svolge da secoli una processione notturna, il Venerdì Santo, che parte dalla Chiesa della Misericordia, aperta soltanto in questa occasione, arrivando al monastero delle Suore Agostiniane, in un’atmosfera suggestiva, assieme ai fedeli in corteo, fra preghiere e canti popolari, fra fuochi e fiaccole, partecipano alla processione oltre cento figuranti in costumi d’epoca, tra cui gli incappucciati. Questa pietas risale a un episodio della vita di Caterina da Siena (1347/1380), compatrona d’Italia e d’Europa. La Santa, visita più volte, in carcere, un giovane perugino, condannato a morte con l’accusa di spionaggio, il ragazzo è disperato, ma Caterina riesce a confortarlo. Il giorno dell’esecuzione il giovane “sereno e forte” va al suo destino, la Santa gli resta vicino fin sul patibolo, gli fa il segno della croce, riceve la testa mozzata nelle sue mani, la ripara sotto il mantello. Il gesto fa scandalo, un malvivente riceve le attenzioni di una religiosa importante, come Caterina, che divide il suo tempo fra la meditazione e il fervido attivismo per riportare il Papa da Avignone a Roma. Il coraggio di Caterina, ci dice che la morte azzera tutto,e che a ogni corpo si deve rispetto. La Santa evoca il mito greco di un’altra donna coraggiosa:Antigone. Quest’ultima chiede il corpo del fratello Polinice, accusato di tradimento, al tiranno Creonte, il quale aveva decretato: “Nessuno osi seppellire il corpo di Polinice, chi trasgredirà sarà ucciso”. Ma Antigone ubbidisce solo alla sua coscienza, all’affetto che la lega al fratello, e all’idea che per ogni essere umano ci sia una dignitosa sepoltura: “Non sono queste leggi di oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero e come”. Ricordiamocelo, un’azione non è giusta solo perché sono in tanti ad approvarla, senza riferimento alla legge morale naturale, si può arrivare a una sterile procedura, in fin dei conti, la legge morale naturale, altro non è che la nostra coscienza.

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 13/06/2016

 

Le aspettative di Piero

pala di Brera

Piero della Francesca. Indagine su un mito. Sino al 26 giugno è possibile visitare ai Musei di San Domenico, a Forlì, una mostra che indaga sulla formazione di Piero, con opere di Domenico Veneziano, Beato Angelico, Paolo Uccello e Andrea del Castagno, per finire con gli artisti del Novecento, che hanno trovato ispirazione da Piero, gli italiani Guidi, Carrà, Donghi, De Chirico, Casorati, Morandi, Funi, Campigli, Ferrazzi, Sironi e gli artisti stranieri come Seraut, Balthus e Hopper. Inoltre c’è il confronto, tra la Madonna della Misericordia di Piero della Francesca e la Silvana Cenni di Felice Casorati. Nelle opere presentate, tutte di alto livello, la presenza del pittore di Sansepolcro, si svela nella costruzione prospettica, oltre che pittore era anche un matematico, oppure nell’atmosfera rarefatta, come di attesa. Ma cosa aspettava Piero? Pietro Lombardo non si fe’ con usura/ Duccio non si fe’ con usura/ nè Piero della Francesca o Zuan Bellini/ nè fu ‘La Calunnia’ dipinta con usura. (Ezra Pound-Canto XLV- Contro l’usura)L’usura, cioè l’uso del denaro per se stessi, per il proprio potere, il male peggiore del nostro tempo, no Piero non si aspettava il potere o la ricchezza, tutte le sue opere sono intrise di misticismo e di purezza e per capire cosa aspettava proviamo a indagare, sul personaggio che ha la barba a due punte, le sue Madonne, l’uovo e i suoi autoritratti, che sono alcuni topos della sua arte. Per la presenza degli autoritratti nelle sue opere, si può pensare, detto in parole spicce, al ci metto la faccia, cioè Piero non ha timore di esporsi, anzi ribadisce con forza le sue idee. Per quanto riguarda il personaggio con la barba a due punte, probabilmente è Giorgio Gemisto Pletone, filosofo sepolto nel Tempio di Rimini. Nel 1438 un nuovo mondo rinasce, nelle corti rinascimentali italiane, quello di Pitagora e Platone, con le parole di Pletone e la sua ricerca appassionata del Vero, del Giusto, del Bello, del Bene. Le Accademie greche e latine hanno conservato e continuato queste idee, poi le Accademie italiane ed europee del XV e XVI secolo, sono rinate grazie a Pletone, e a seguire l’Età dei lumi e della Rivoluzione americana e francese, sino al nostro Risorgimento, (c’è chi vede in Pletone la nascita della massoneria). Piero è colui che aderisce pienamente a queste idee ricercando l’armonia con la matematica, legge dell’universo, e il misticismo. Le sue Vergini, sia la Madonna della Misericordia, presente alla Mostra, sia la Madonna del Parto, affresco che si trova a Monterchi, hanno significati reconditi. Per la Madonna della Misericordia, con l’ampio mantello che protegge il gruppo di persone molto più piccole di Maria, Piero si ispira ad una consuetudine presente nell’Europa feudale: era tradizione nei castelli applicare il cosiddetto privilegio della “protezione del manto”. La nobildonna, con il solo gesto di allargare il suo mantello, poteva concedere aiuto a indigenti e perseguitati, persino, in alcuni casi, concedere la grazia a un condannato a morte. Può anche darsi che ci sia qualche riferimento ai templari, infatti il mantello era un loro simbolo, privilegio solo dei cavalieri provenienti dalla nobiltà, era di colore bianco perché simbolo della purezza e della castità del corpo. La Madonna del Parto, nel seno della quale si nasconde il Verbo, secondo certuni Ella simbolicamente custodisce la dottrina segreta degli eredi dei templari, costretti a nascondersi, in attesa di una nuova era di tolleranza per poter manifestare il loro messaggio d’amore e di saggezza. E veniamo all’uovo, nella Pala di Brera, sullo sfondo, si trova una conchiglia, al centro della quale è appeso un uovo di struzzo, Felice Casorati sarà ossessionato da questo uovo, lo dipingerà in innumerevoli tele, come anche altri artisti come Warhol o Dalì. Nell’ambito della simbologia cristiana, l’uovo è stato adottato soprattutto in relazione con l’idea della nascita ad una nuova vita, ovvero alla resurrezione. Concludendo, Piero ci dice che lui fa parte di quel gruppo di nobili persone che credeva nell’armonia del mondo e che malgrado tutto non cedeva allo sconforto, aspettandone la rinascita, prima o poi.

immagine: Pala di Brera, Piero della Francesca

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 06/06/2016

 

QUELLE VENERI UN PO’ FOLLI

 venere-degli-stracci-pistoletto

La mostra al MAR di Ravenna,“La seduzione dell’antico. Da Picasso a Duchamp, da De Chirico a Pistoletto” sarà visitabile sino al 26 giugno 2016. L’esposizione, a cura di Claudio Spadoni, documenta lo sguardo verso l’antico non solo degli artisti che vi si rivolgono quasi mutuando le grandi opere del passato, alla memoria antica, pescano a piene mani anche le avanguardie trasgressive, rivisitandola con un pensiero nuovo a volte sconcertante o inquietante. Una mostra ricca di protagonisti, De Chirico, Morandi, Carrà, Martini, Casorati, che alla fine della Prima Guerra Mondiale testimoniano il bisogno di un ‘ritorno all’ordine e al rigore’, gli artisti di Margherita Sarfatti e Sironi che invece affermano una melanconia di fondo, le opere del ‘Realismo magico’ estranianti e piene di mistero, il ‘neobarocco’, con Scipione, Fontana e Leoncillo; gli artisti della Pop Art e i rappresentanti dell’Arte Povera, e poi Duchamp, Man Ray, Picasso, Klein, ed altri ancora. Tra le opere esposte anche la famosa riproduzione della Gioconda realizzata da Marcel Duchamp, dissacrata con baffi e pizzetto. La Gioconda era allora all’apice della fama, il 22 agosto 1911, venne scoperto il furto della Monna Lisa, il quadro si riteneva perso per sempre. Si scoprì che un impiegato del Louvre, Vincenzo Peruggia, convinto che il dipinto appartenesse all’Italia e non dovesse quindi restare in Francia, lo rubò uscendo dal museo a piedi con il quadro sotto il cappotto. Comunque, la sua avidità lo fece catturare quando cercò di venderlo, il quadro venne esibito in tutta Italia e poi restituito al Louvre nel 1913 con grande clamore. Marcel Duchamp ridicolizza il pensiero collettivo ed egemonizzante con l’impalpabile leggerezza della sua fulminante ironia. Interessante soffermarsi sulla presenza delle “Veneri”; quella degli stracci di Michelangelo Pistoletto, in questa riproduzione, di una copia antica di Venere vi è già un senso di artificio, più vitalità vi è negli stracci colorati, disuguali, poveri ma allegri. Cosa voleva dire Pistoletto, sarà un po’ difficile saperlo, vi si può scorgere una teatralità dell’apparenza esagerata, una sottile inquietudine, ma anche una sottile vena ironica, soprattutto nella Venere che vi mostra il suo posteriore e vi manda… Qui un materiale povero come gli stracci acquista dignità, alla pari con la Venere. Lo straccio perde quindi un significato di materiale povero, per divenire attraverso la sua manipolazione e trasformazione elemento compositivo, in un’opera d’arte dai significati nobili. Gli elementi insiti dell’opera quindi spaziano dall’idea di riutilizzo a quello di rielaborazione, qui salta il concetto di cultura alta e di cultura bassa. La Venere di Milo a cassetti di Salvador Dalì, dove i cassetti alludono metaforicamente alle zone più profonde e segrete dell’inconscio, l’antica opera greca ideale di bellezza non è più solo un involucro. La Venere blu di Yves Klein, diventa magica perché blu, e cosa ha questo blu, è il blu unico di Klein, l’artista brevettò il suo blu, in pratica Klein è il blu di Klein. La Venere restaurata di Man Ray, aggrovigliata da corde, dove la Venere di Milo, senza braccia e senza gambe viene sommariamente restaurata con dello spago. La Venere di Andy Warhol, ci ripropone la Venere di Botticelli, un’opera talmente famosa che pensiamo di conoscere bene, quasi non la guardiamo più, troppo “popular”, ecco che Andy ci propone di osservarla bene, perché qualcosa di nuovo si può trovare proprio nell’ovvio. Ma cosa sono tutte queste Veneri perché questi artisti insistono su ciò? Erano gli anni ’60/’70, quando l’emancipazione della donna doveva portare a un mondo preferibile, tante speranze, ma come donna, oggi, tristemente mi chiedo… siamo davvero in un mondo migliore? Ci sarebbe ancora tanto da dire, ma non ho più spazio, un solo suggerimento osservate bene il video di Bill Viola e soffermatevi sull’istallazione della barca che va verso l’isola dei morti, chiaro riferimento all’isola dei morti di Arnold Bocklin, il dipinto preferito da Hitler, dove il silenzio e la desolazione immersa in un’atmosfera misteriosa ed ipnotica, è specchio della nostra pochezza.

immagine: Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto

articolo già pubblicato sul quotidiano  “La Voce di Romagna” il giorno 30/05/2016

Il destino della Coppa

madonna20senigallia1

 

Nel1438, accompagnato da notabili e dignitari, tra i quali il patriarca Giuseppe II e il Cardinale Bessarione, Giovanni VIII Paleologo giunse a Ferrara per il Concilio ecumenico. Le circostanze che portarono il Paleologo in Italia sono ben note, sempre più vulnerabile alla pressione turca, l’impero romano d’Oriente, e la sua favolosa capitale, necessitavano dell’aiuto militare delle potenze occidentali, la cristianità intera era chiamata alla guerra santa contro gli infedeli, e il presupposto per questa crociata unitaria era la riconciliazione della Chiesa cattolica con quella ortodossa, ma l’obiettivo politico-teologico, la scintilla, il Graal come noto, fallì, solo pochi anni dopo Costantinopoli cadde, provocando un’ampia eco per tutto l’Occidente. Piero della Francesca, pittore e matematico italiano, rappresenta questo sogno infranto, nelle sue opere più famose, come la Flagellazione e la Madonna di Senigallia. Nella Madonna di Senigallia il Bimbo ha in mano un anemone bianco, chiamato anche “fiore del vento”, per la fragilità dei suoi petali, è un fiore dal significato melanconico perché richiama l’abbandono, un significato metaforico di fuggevolezza di una cosa bella, per cui il suo simbolismo intrinseco è quasi di rassegnazione ad una fine vicina, di un sentimento bellissimo ma breve. Secondo una tradizione diffusasi dopo il 1453, sul sepolcro di porfido di Costantino era scolpita una profezia, decifrata da Giorgio Gennadio Scolario, che annunciava la fine dell’Impero bizantino quando un imperatore e un patriarca i cui nomi cominciavano con le lettere “Io” avessero regnato allo stesso tempo, la fine dell’Impero e della Chiesa sarebbe stata vicina. Così avvenne, infatti, gli uomini del Concilio, i cui risultati non vennero ratificati, furono l’imperatore Giovanni (Ioannis) e il patriarca Giuseppe (Iosif), la profezia continuava con la disfatta ottomana a opera di una ‘razza gialla’ che avrebbe restituito la città ai cristiani. Costantinopoli, odierna Istanbul è ancora “ottomana”, quest’ultima profezia si fa attendere. Il Graal, il sogno si sposta in Francia, alla corte di Luigi XII, chiamato Padre del Popolo, perché amava la giustizia e l’economia, anche se in vita fu impopolare, forse questo Graal non si avvera mai, perché gli uomini di valore sono solitamente avversati perché più avanti con i tempi, basti pensare che fu molto popolare, in vita, Luigi XI, perché aveva i gusti della moltitudine, venne poi chiamato dai posteri “ragno universale” per il suo cinismo. Luigi XII non ebbe eredi e il nuovo sogno si infranse a Ravenna nella famosa Battaglia del giorno di Pasqua del 1512, quando il “delfino” Gastone de Foix, probabile erede al trono di Francia e discendente di Esclarmonda, muore a Ravenna. Gastone era cugino dei re di Navarra e nipote di Luigi XII poteva portare la pace fra francesi e spagnoli, ma il Graal, con la morte di Gastone, fallisce ancora. Ora la veggenza, la trasformazione, non è più di sangue reale, si decapita il re, siamo nel 1793, la nuova luce è la borghesia illuminata, che si fonda su tre parole: “Libertà, Uguaglianza, Fraternità”. La massoneria dei Doveri e dei Diritti, il Graal ha tanti illuminati personaggi, se non proprio a Ravenna, in Romagna. Per un po’ di anni il libro “Cuore” è il Graal che muove le persone verso ideali di fratellanza e amore, ma dura poco, le Guerre Mondiali sfracellano tutto. Il Graal lo cerca avidamente Hitler che abbagliato dalla sua luce ne viene accecato e causa l’olocausto, la vergogna dell’uomo. Arrivano gli americani, il Graal ora lo hanno loro, tutto diventa americano, ma ancora una volta la luce diviene presuntuosa e si affievolisce. E ora dove è il Graal? E’ forse ritornato a Ravenna, la Porta d’Oriente? Forse il Graal laico riunendosi al Graal religioso, riuscirà a riunire la Chiesa ortodossa a quella cristiana, a pacificare quella ebrea con quella islamica e uomini di buona volontà torneranno ai commerci e agli scambi verso l’Oriente, là dove nasce il sole, oppure si realizzerà la profezia di Costantino, tradotta da Gennadio e cioè con la disfatta ottomana a opera di una ‘razza gialla’ (i cinesi) che avrebbe restituito la città ai cristiani? (fine)

immagine: Madonna di Senigallia Piero della Francesca

già pubblicato sul quotidiano “LaVoce di Romagna” il giorno 09/05/2016

 

L’ERESIA EIL GRAAL

1-esclarmonde-foix Carlo Magno era affascinato da ogni tipo di reliquia e in particolare dal Graal, ritenendolo capace di dare veggenza, la coppa passò poi ai sovrani germanici, agli Ottoni, sino a Federico II, cioè agli Imperatori del Sacro Romano Impero. Federico II voleva il Santo Calice, lo aveva cercato per anni, forse lo custodiva a Castel del Monte in Puglia o forse il Graal era ritornato in territorio francese, fra i “puri”, cioè i catari. La Chiesa cattolica, dopo l’adozione del “privilegio di Ottone” nel 926, con il quale l’imperatore si impegnava a riconoscere l’autorità del Papa, ma si riservava il diritto di approvarne l’elezione, si allontanò sempre più dalla spiritualità. L’ingerenza del potere imperiale era impressionante, l’Imperatore aveva il potere di nominare i vescovi, e di metterli a capo delle città (così alla morte dei vescovi-conti, il feudo tornava di proprietà imperiale). I vescovi, o una parte di essi, inizialmente figure di spicco della spiritualità ecclesiastica, si erano così trasformati in figure politiche. Inoltre, le posizioni all’interno della Chiesa erano molto ambite dalle famiglie nobili, che alla vita ecclesiastica destinavano i secondogeniti o comunque uno dei figli. Questa situazione causò la corruzione dei costumi religiosi: molto diffusa era la simonia (la vendita delle cariche sacre al miglior offerente) e il concubinato. Per questo erano nati nuovi gruppi religiosi, alcuni interni alla Chiesa stessa e perciò tollerati, altri invece sconfinati presto nell’eresia. Fra questi ultimi, c’era la setta dei catari diffusa in Francia e nei territori del Nord Italia, in particolare a Concorezzo, dove sorse la sede della maggiore Chiesa catara europea. La dottrina dei catari si fondava sul dualismo fra Bene e Male come motore del mondo. Due principi che sono a fondamento della creazione di terra e cielo: uno cattivo, ed è quello che ha creato il mondo, l’altro buono. Questo significava, in sintesi, che i catari consideravano la materia come creazione del “Dio cattivo” e perciò rifiutavano i piaceri della carne; erano anche vegetariani ante litteram, sia pure per motivi religiosi. Il loro credo, non riconoscendo l’incarnazione di Gesù, né la sua divinità, sfociò immediatamente nell’eresia, e per questo furono duramente contrastati e perseguitati. Esclarmonda de Foix (dopo 1151-1215), era una figura di primo piano nel catarismo francese del XIII secolo. Il nome Esclarmonda significa “Luce del mondo”, rimasta vedova nel 1200, successivamente, si rivolse alla Chiesa catara. Si stabilì a Pamierse fu protagonista nella ricostruzione della fortezza di Montségur, qualificato come tempio solare o castello del Graal, ancora oggi attira numerosi appassionati di esoterismo da tutto il mondo. Esclarmonda partecipò, nel 1207, agli ultimi contraddittori fra i catari e la Chiesa cattolica, rappresentata da San Domenico, l’anno seguente papa Innocenzo III, decretò la crociata contro glialbigesie contro i catari. Il Graal aveva fallito ancora, i catari erano vicini come idee anche ai templari e ai fedeli d’amore, ai trovatori, alle corti che si idealizzavano sulle storie del ciclo arturiano, ma il loro ideale “puro”era avversato dalla Chiesa cattolica. Esclarmonda aprì numerosi ospedali e scuole dove veniva impartito l’insegnamento cataro, questo attivismo le valse l’appellativo di grande Esclarmonda. La sua leggenda racconta:“Al castello di Montségur, i catari conservavano il Santo Graal. Montségur era minacciato, le armate di Lucifero lo assediavano, volevano il Graal. Discese dal cielo una colomba bianca che, col suo becco, fendette in due il monte e il castello. Esclarmonda, la Guardiana del Graal, gettò all’interno della montagna il Graal e la montagna si racchiuse, sul Graal. Quando i demoni entrarono nella fortezza, era troppo tardi. Furiosi, fecero perire con il fuoco tutti i puri, si salvò solo Esclarmonda che si mutò in una bianca colomba e volò via verso le montagne dell’Asia”. Certo che la leggenda va un bel po’ scremata, forse le armate di Lucifero non erano altro che i crociati, ed Esclarmonda sarà fuggita per portare in salvo il Graal e dove? (4 continua)

immagine. Esclarmonda

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno18/04/2016

COSI’ CLODOVEO EBBE IL CALICE

Palazzo di Teoderico mosaici di Sant'Apollinare Nuovo

Ricimero o Recimero, è stato un politico e generale goto, di fede ariana, dell’Impero romano d’Occidente, effettivo detentore del potere dal 460 fino alla sua morte, che avvenne nel 472. Ricimero era un comandate di Ezio, così come lo era il suo amico Maggioriano, che divenne imperatore e che Ricimero uccise a Tortona in provincia di Alessandria. Secondo la leggenda, a Tortona, la chiesa di San Matteo, identificata come il Mausoleo di Maggioriano, avrebbe custodito il Graal, con tre doni: il corpo, il sangue e lo spirito. Da questa leggenda deriverebbe il famoso motto: “Pro tribus donis similis Terdona leonis” (in virtù dei tre doni Terdona è simile al leone, dove Terdona è il vecchio nome della città). Ciò significa che era ancora viva l’idea di unificare i barbari coi romani e l’arianesimo col cattolicesimo. Verosimilmente il Graal sarà poi transitato verso Ravenna con Odoacre, che depone l’ultimo imperatore Romolo Augustolo e che divenne re d’Italia nel 476.Odoacre pur professando fede ariana, non interferì quasi mai negli affari della Chiesa cattolica di Roma. Nel 488 il re ostrogoto Teoderico fu incaricato da Zenone di invadere l’Italia e deporre Odoacre. Gli ostrogoti invasero la penisola nel 489 ed entro un anno posero sotto il loro controllo gran parte dell’Italia, costringendo Odoacre ad asserragliarsi nella capitale Ravenna. La città, dopo un lungo assedio, si arrese, Teoderico invitò Odoacre ad un banchetto per sancire la pace fra i due sovrani, ma lo uccise nel corso dello stesso. Il Graal ipoteticamente è ancora a Ravenna, la speranza non è morta, Teoderico fa edificare chiese diverse per ariani e per cattolici, si convive dignitosamente fra barbari e romani, fra ariani e cattolici tutto è possibile. Ma Teoderico cambia idea, le cose non vanno più bene, il re goto arriva a imprigionare papa Giovanni I e lo lascia morire in carcere, siamo nel 526. L’unione fra cattolici e ariani, sfuma, l’ideale di un regno illuminato scompare e il Graal intanto era già arrivato in territorio di Francia, alla corte dei Merovingi. Clodoveo fu il secondo sovrano storicamente accertato della dinastia dei Merovingi, sua sorella fu sposa di Teoderico. Il 24 dicembre 496 Clodoveo si fece battezzare a Reims dal vescovo Remigio. I franchi furono l’unico popolo germanico che si convertì dall’arianesimo al cattolicesimo, a differenza degli altri popoli germanici, che rimasero cristiani/ariani. Logico che il nuovo luogo ideale di rinascita del Graal fosse la Francia, tra l’altro ci fu il misterioso evento del “Vaso di Soissons”, che narra di quando i soldati di Clodoveo trafugarono suppellettili di culto e un bellissimo e grande vaso. Il vescovo di Soissons chiese al re di restituirgli almeno il vaso. Quando fu il momento della spartizione del bottino, Clodoveo chiese ai soldati il vaso per sé, contravvenendo alla tradizione, che gli oggetti fossero tirati a sorte, ma un guerriero si oppose, spezzando il vaso, questo può aver a che fare con il Graal, la storia potrebbe celare gli attriti per l’attribuzione del Santo Calice che dava il potere. Inoltre il giglio araldico, simbolo dei re cristiani di Francia, secondo la tradizione, fu scelto nel V secolo, come simbolo proprio da Clodoveo, dopo la sua vittoria riportata a Vouillé, sui visigoti. Il giglio, è un ben noto simbolo di purezza e castità, la simbologia cristiana, vede nei suoi tre petali stilizzati un’allusione alla Trinità divina e nella base orizzontale la figura di Maria, di fondamentale importanza per comprendere il mistero trinitario in quanto fu da Lei che, attraverso l’intervento divino del Padre, s’incarnerà il Figlio,e dai due emana lo Spirito Santo. Questo concetto si trasformerà successivamente con il diffondersi delle teorie pseudo-storiche associate al Santo Graal ed alla discendenza di Cristo. Il “Fleur-de-Lys” viene così associato alla “Stirpe Reale”: la base del simbolo rappresenterebbe, secondo questa nuova concezione, Maria Maddalena mentre i tre petali non sarebbero altro che i figli che ella avrebbe avuto da Gesù: Tamar, Joshua e Josephes. Il Graal, rimane in terra francese, unito in ideale laico e religioso anche per la dinastia dei Carolingi.(3continua)

immagine:  Palazzo  Teoderico Sant’ Apollinare Nuovo (Ravenna)

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 11/04/2016

GALLA PLACIDIA EBBE IL CALICE

Parsifal

Il Parsifal, il cui nome in arabo significa puro e folle, è un’opera di Wagner, dal carattere religioso, era usanza non applaudire al termine della rappresentazione. Ancora oggi il pubblico spesso non sbatte le mani, alla fine del primo atto (scena della Comunione), inoltre alcuni brani vengono eseguiti nel periodo di Pasqua e in alcuni paesi tedeschi, viene rappresentato il Venerdì Santo, quando normalmente gli spettacoli sono proibiti. Ma torniamo ai Magi, i quali sono l’Epifania di Gesù, lo riconoscono come il Salvatore, quindi in senso lato potremmo dire che l’iniziale Graal è Gesù stesso, che poi riappare ogni volta nella messa durante l’Eucaristia. Ora vi illustro un’ipotesi su dove possa essere finito, nel V secolo, il Graal. All’interno del Mausoleo di Galla Placidia, troviamo nella lunetta di fondo, raffigurato San Lorenzo, sopra questa lunetta, vi sono due apostoli con ai piedi un vaso zampillante d’acqua, con due colombe, molto simile a quello presente nel corteo di Teodora, in San Vitale, potrebbe rappresentare il Graal. San Lorenzo aveva l’oggetto sacro, che papa Sisto II gli aveva affidato, nel 258, con l’incarico di portarlo lontano da Roma. La coppa del sacrificio, avrebbe rischiato di essere distrutta dall’ignoranza dai pagani, mentre Valeriano, conoscendone il potere, non avrebbe esitato a servirsene per il proprio tornaconto. Forse Lorenzo, riuscì a far portare la coppa in Spagna e qui passò poi in mano ad Ataulfo, forse il calice rimase a Roma e fu asportato nel 410 da Alarico, assieme a tutti i tesori che il visigoto si portò via. In ogni caso pare che il calice arrivasse nelle mani di Galla Placidia, la quale forse possedeva la coppa ed era anche la coppa vivente in quanto aveva generato da Ataulfo, Teodosio nato da pochi giorni, siamo nel 415. Teodosio, portava il nome del nonno, il grande imperatore che in Oriente era ed è pure Santo, avrebbe dominato il grande regno unificato di Roma e dei barbari, forse unendo anche la religione cattolica con quella ariana. Ma il Graal sia come contenitore che come ideale fallisce, Ataulfo viene assassinato, il piccolo Teodosio ucciso, l’Impero di Roma crollerà di lì a poco. Il matrimonio di Galla Placidia e Ataulfo ricorda il legame di Artù con Ginevra, i tempi collimano e gli ideali sono gli stessi, il ciclo bretone potrebbe avere legami con la Romagna. Gli altri cavalieri della tavola rotonda si individuano così con Ezio, Alarico, Attila, Teoderico, Ricimero, Odoacre, Genserico, ecc. Flavio Ezio veniva dalla Dacia e aveva sposato una donna romana. Aveva passato parecchi anni come ostaggio degli unni, e Attila era per lui come un fratello, dato che erano cresciuti insieme. Prima di essere ostaggio degli unni lo era stato dei visigoti di Alarico, sequestrato nel sacco di Roma (410) assieme a Galla Placidia. Ezio aveva grande potere, tale da raggiungere il trono; non era certo l’imperatore Valentiniano III a fargli paura, il cui unico pregio era l’essere figlio di Galla Placidia. Ezio controllava la Gallia del nord coi suoi guerrieri; si sentiva unno lui stesso, parlava la loro lingua alla perfezione e da loro aveva imparato a cavalcare, a tirare d’arco e le tecniche militari tipiche dei cavalieri della steppa. Fu sempre fautore dell’alleanza romana coi barbari. In ogni battaglia vedeva un duello, una sfida cavalleresca, addirittura un giudizio divino. Fu protagonista nella battaglia dei Campi Catalaunici (451) vicino a Troyes dove sconfisse Attila, questo baluardo dell’Impero fu ucciso da un imbelle rammollito come Valentiniano, il quale fu poi eliminato l’anno successivo dai guerrieri di Ezio. A Ravenna, l’agonia e la fine dell’Impero Romano ma anche l’inizio del Medioevo con le gesta ricordate nelle saghe dei Nibelunghi (di cui fanno parte anche Teoderico e Attila) e di Artù e i cavalieri della tavola rotonda. Chrétien de Troyes scrittore e poeta francese medievale, ideatore del ciclo bretone, può essersi ispirato alla battaglia avvenuta tanti anni prima nella sua città natia. Ezio morì poco dopo Galla Placidia, nel 454, in Occidente si creò una situazione di potere vacante, e il Graal dove si troverà ora? (2 continua)

immagine: Parsifal e il Graal

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 04/04/2016