Capolavori da Museo

216

Il Museo Della Città di Rimini, è ospitato dal 1990 nella sede del Collegio dei Gesuiti. Attualmente si compone di circa 40 sale in cui sono esposte circa 1500 opere. Il cortile ospita il lapidario romano, al piano terra si può visitare la prima parte della Sezione Archeologica dedicata alla Rimini  imperiale. Tra il primo e il secondo piano si trova la Pinacoteca che segue un percorso cronologico.   Una serie di capolavori si trova al primo piano nella sala del Trecento con tavole di giotteschi, tra cui spicca Giuliano da Rimini. In un’altra sala della pinacoteca vi è poi un gioiello: “La Pietà” di Giovanni Bellini del 1500 circa che da solo vale la visita al Museo: grazia, dolcezza e armonia vibrano nell’opera del pittore veneto. Questa piccolissima introduzione era dovuta per chi non ha mai visitato il Museo che è ricchissimo di perle, io vi parlerò solo di due opere: il grande mosaico bianco/nero delle barche e quello policromo del pastore con la testa di Anubi. Il mosaico a tessere bianche e nere raffigura le imbarcazioni che rientrano al porto di Rimini attorniate da pesci e delfini, con l’ingresso al porto dove c’è l’addetto al faro, che alimenta il fuoco e l’equipaggio come lavora! Nella via Tempio Malatestiano, sono stati ritrovati i resti antichi di una grande domus, sotto Palazzo Diotallevi, scoperta nel 1975, fu costruita fra il II e il I secolo  a. C. e ristrutturata intorno alla metà del II secolo d. C. è da questa domus che proviene il mosaico delle imbarcazioni, forse di proprietà di un ricco imprenditore marittimo. Ciò fa pensare ad una vocazione naturale per il mare da parte dei riminesi, ad un boom economico già  nel I/ II  secolo a. C.,  una Rimini antica  al centro delle rotte commerciali, che mantenendo le sue tradizioni si è “inventata” negli anni  ‘60 un altro boom: la spiaggia e le vacanze per tutte le tasche. Dei mosaici a tessere bianche e nere fa parte anche la raffigurazione di Ercole che ha in mano oltre alla clava una coppa nel gesto di brindare. Secondo la leggenda Ercole era il “protettore” più antico di Rimini. Da Piazza Ferrari sui resti di una ricca domus imperiale, provengono varie suppellettili di pregio, tra le quali si segnala un completo corredo medico con mortai, contenitori per medicinali e numerosissimi strumenti chirurgici in ferro e bronzo, sembra che Rimini anticamente ospitasse molti medici ma anche un sottobosco di maghe e fattucchiere. Da questa domus  proviene lo splendido mosaico di Orfeo attorniato da animali (Orfeo è l’incantatore della Natura). Il mosaico del pastore con la testa di Anubi/cane, attorniato da  animali, mi ha colpito tanto, proviene da una domus vicino all’Arco d’Augusto, forse è testimonianza di un nuovo gusto egiziano per la religione, le mode esistevano anche nell’antichità;  ma il pastore potrebbe essere Orfeo, il culto di Orfeo era assai sentito, lo testimonia il mosaico della domus del chirurgo e una piccola scultura di Orfeo citaredo che si trova sempre ai Musei Civici. Se il pastore è Orfeo e la testa non è di Anubi, la raffigurazione potrebbe allacciarsi  ad Ercole, in quanto Ercole e Orfeo sono gli unici dei che sconfiggono Cerbero, il cane a tre teste vorace demonio a guardia dell’Ade. Ercole non lo uccide lo affronta e arriva quasi a strangolarlo, poi lo riporta al suo posto di guardia. Orfeo scende nell’Ade per riportare in vita Euridice, incomincia a cantare dolcemente e Cerbero diviene  buono come un agnellino. Comunque è sorprendente che su una stessa zona fiorisse bellezza, già nel I/ II sec. a. C. e sopra vi sorgesse più tardi Palazzo Diotallevi  i cui proprietari possedevano una ricca collezione d’arte, come se la bellezza si rincorresse. Audiface Diotallevi (morto nel 1860) fu l’ultimo Sindaco di Rimini sotto il Governo Pontificio e fu anche uno dei fondatori della Cassa di Risparmio. Diotallevi aveva una importante collezione di dipinti, provenienti in massima parte dagli arredi artistici delle chiese riminesi soppresse da Napoleone nel 1797. Tra le opere la pala: L’Incoronazione della Vergine di Giuliano da Rimini, oggi ritornata ai Musei Civici della città e La Madonna Diotallevi di Raffaello Sanzio oggi conservata  al Bode Museum di Berlino.

immagine: Mosaico delle imbarcazioni a Rimini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 20/10/2014

Boldini dentro e fuori

750x583xBoldini-Ritratto-della-contessa-Speranza.jpg.pagespeed.ic.SWQeIa_Ryg

Ardengo Soffici, poeta, scrittore e pittore, forse un po’ di parte, perché a causa della rovina finanziaria del padre si ritrovò dall’agiatezza alla povertà, definiva Giovanni Boldini, che era l’artista dei  super-ricchi, “né un pittore, né un creatore, né un poeta”. Aldo Palazzeschi, il grande e ironico scrittore, confrontava Boldini con Toulouse Lautrec, lo “gnomo di Montmartre”, affermando che l’arte dello “gnomo ferrarese” era facile e decorativa, quanto drammatica e angosciosa quella di Lautrec. I due artisti avevano in comune la bassa statura, Lautrec aveva avuto un incidente appena giovinetto alle gambe che ne aveva impedito la crescita, l’aspetto non piacevole ed erano anche scorbutici. Lautrec era di famiglia ricca, la famiglia di Boldini faticava a sbarcare il lunario, entrambi hanno la perizia virtuosistica del disegno, una linea densa ed espressiva Lautrec, una linea decorativa, seducente, accattivante quella di Boldini. Quest’ultimo è adorato  dal bel mondo, dove si muove agilmente e sebbene piccolo e bruttino è attorniato dalle stesse dame che ritrae, come potete vedere alla Mostra “Boldini lo spettacolo della modernità”,a Forlì, ai Musei San Domenico sino al 14 giugno, le dame sono molto belle e charmant. Quasi spogliate, magre, affusolate, sono donne della modernità, potremmo paragonarle alle donne di spettacolo di oggi. Spettacolo è tutto ciò che attrae lo sguardo, ma ciò che sono realmente queste donne, Boldini non ce lo fa vedere. Non si sfugge allo spettacolo di Boldini, all’influenza dei suoi colori e alle sue linee veloci, scattanti, incredibili. Conosceva tutti i trucchi del mestiere un vero artista della lumeggiatura. Boldini si cimenta nella pittura fin dalla giovanissima età. Nel 1862 è a Firenze dove frequenta i macchiaioli, nel 1867 si reca per la prima volta a Parigi e vi si trasferisce definitivamente nel 1871, dopo un soggiorno a Londra. Riscuote notevole successo nella società parigina per i suoi ritratti. Nel 1919 viene insignito della Legion d’onore, massima onorificenza francese. A 87 anni, due prima di morire, sposa una giornalista trentenne . Ad aprire la mostra: “Scena di festa al Moulin Rouge” dove in un tripudio di rosso vivo Boldini si ritrae al centro della scena. Di fianco è esposto : “Ritratti dalla borsa”di Degas, uomini in nero, colore simbolo della borghesia. Negli autoritratti Boldini si ritrae con lo sguardo intenso e l’aspetto piacevole ben diversamente appare quando è ritratto da Degas: sguardo vacuo e portamento tronfio. Al piano superiore  troviamo due diverse immagini di Giuseppe Verdi, entrambe dalla tecnica eccellente. Il ritratto di Verdi a pastello è talmente famoso, che ormai si identifica col grande musicista più del Rigoletto. E poi arrivano le donne, una carrellata di bellezza, di vivacità, di spettacolo,donne scollacciate, dai vestiti alla moda, come ad esempio: “La contessa Speranza” dall’abito nero con la scollatura abissale, colta mentre si infila al volo una corta pelliccia. Ciò che più colpisce nei ritratti delle donne a figura intera sono i vestiti, resi mirabilmente più che nelle foto di moda odierne, svolazzanti, gonfi, ondeggianti par di sentirne il fruscio… ma come sono eleganti! Un po’ irriverente, mi pare, la posizione del dipinto:“Il cardinale Guido Bentivoglio” di van Dyck, rara sinfonia di rossi, fra i ritratti di due seducenti  e discinte donne in rosso scuro di Boldini. I ritratti di queste meravigliose donne sono lo specchio di una società decadente dove il pudore più non esiste. Il mito narra che quando il pudore non riesce più a frenare gli eccessi, non rimane altro che la nemesi: la vendetta che ripara i torti mediante la punizione dei colpevoli. Da lì a poco scoppierà la Grande Guerra. Dopo la guerra la nuova donna è rappresentata in Mostra da un dipinto di Modigliani del 1918: una figura iconica, antica e triste. La star della Mostra non è una donna ritratta da Boldini, ma da Francisco Goya: “Tadea Arias de Enriquez”  del 1789, la fanciulla acconciata e vestita elegantemente alla moda del tempo, si sta togliendo un guanto, ha lo sguardo fermo, volitiva e affascinante ma senza sguaiataggine, né eccessi.

 

immagine: “La contessa  Speranza” di Giovanni Boldini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 23/03/2015

Quando l’arte è anche un monito della natura

mirroring

A Forlì, uscendo dalla Mostra su Boldini, a pochi passi troviamo l’oratorio di San Sebastiano. La chiesa fu realizzata in stile rinascimentale; ha una pianta a croce greca, con un atrio coperto da una cupola. La prospettiva che la chiesa presenta fa pensare a un intervento di Melozzo da Forlì, fu edificata su modello di Pace Bombace, architetto che appartenne appunto al gruppo di Melozzo. Un tempo sede della confraternita dei Battuti Bianchi, l’edificio è oggi utilizzato per mostre temporanee. Sino al 29 marzo si svolgerà l’esposizione: “Mirroring – rispecchiarsi nella Dea”, il titolo fa pensare che le autrici vogliano rispecchiarsi nella Dea Madre cioè la Natura che etimologicamente significa: la forza che genera. La Dea, perché all’inizio fu il matriarcato, per migliaia d’anni, poi fu il patriarcato e le donne vennero sottomesse. Oggi, i soprusi  continuano come sempre verso i più deboli, bambini, donne e anziani. Uomini e donne sono su un falso piano egualitario, ci sono le leggi, ma è cresciuta l’incomprensione fra i due sessi. Rosetta Berardi ed Alessandra Bonoli sono le protagoniste della mostra. Rosetta ci ricorda la Pineta di Lido di Dante distrutta da un incendio doloso, i suoi alberi sono neri e ramificati come se le radici si fossero capovolte, al posto della chioma dei bitorzoli, sono testimoni muti, ma paiono dire:“Guarda che hai fatto uomo”. In questo contesto i pini si rinnovano, l’oratorio è intitolato a San Sebastiano, questo Santo è sempre raffigurato trafitto da frecce, gli alberi sembrano così strali scagliati su di noi, anche sull’autore dell’incendio, perché il piromane ha fatto del male pure a se stesso, perché gli alberi sono la vita. Alessandra ci fa vedere un mondo di geometrie fortemente simboliche che si ispirano alla natura e alle sue forme. Sono prototipi di grandi strutture originate dalla ricerca sulla struttura aurea, sui numeri di Fibonacci, sulla geometria, è quindi scienza e tecnica; vengono poste in spazi determinati, a contatto col terreno, in modo che ascoltino e interagiscano col luogo. Sono sculture che emettono il sibilo dolce o arrabbiato della Terra oppure sono culle che tentano di farci riposare o ricordare quello che la Dea ci dice e che noi non siamo più capaci di ascoltare. L’autrice auspica l’armonia fra tecnica e natura. La tecnica deve andare al passo con la natura perché essa stessa è natura.

immagine: foto del  catalogo della mostra, un pino di Rosetta Berardi adornato da una scultura di Alessandra Bonoli

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 23/03/2015

L’arte vera tragli scarti

Leonardo,_san_girolamo

Cesena è anche nota come città dei Tre Papi, sebbene solo due siano di origine cesenate, il terzo fu  vescovo di Cesena ma era originario di Gravina in Puglia. Due secoli fa, nel 1814, papa Pio VII di origine cesenate, soggiornava nella sua città natia. Pio VII dopo la sua elezione subì gli abusi di Napoleone che, incoronato imperatore, aveva incorporato all’Impero gli Stati Pontifici. Pio VII rispose con la scomunica, fu così fatto prigioniero e condotto a  Fontainbleau. In seguito alla disastrosa campagna di Russia di Napoleone e al suo esilio all’Elba , Pio VII rientrava a Roma fermandosi a Cesena. Dopo i “cento giorni” di Napoleone e la sua definitiva prigionia, Pio VII poté dedicarsi al governo della Chiesa. A lui si deve il ripristino della Compagnia di Gesù e un nuovo impulso all’attività missionaria. L’accoglienza di Cesena a Pio VII fu grandiosa, un grande arco trionfale venne innalzato, mentre la carrozza del Papa, staccati i cavalli   venne trainata da 200 persone. Il Pontefice riceve i marescialli delle potenze straniere e colloquia con Gioacchino Murat. Il Primo maggio apre il mese mariano alla Madonna del Monte, mentre due giorni dopo riceve Maria Letizia Ramolino Bonaparte, madre di Napoleone, e il cardinale Joseph Fesch, zio dell’imperatore. Vediamo un po’ chi era il cardinale Joseph Fesch. Era nato ad Ajaccio nel 1763 e nel 1785 divenne sacerdote. Pochi anni più tardi, preso dal fuoco della Rivoluzione Francese, si liberò dell’abito talare e si dedicò ad affari redditizi ma oscuri, probabilmente trafficava per impossessarsi di qualcosa a cui non sapeva resistere. Poi vi dirò cosa lo prendeva alla gola. Bonaparte che era anche un genio politico ordinò allo zio di rientrare nella Chiesa rendendosi utile, Fesch, non si sa se volentieri o meno, riprese la tonaca e il nipote gli spianò una carriera sfolgorante. Divenne quasi subito cardinale, mentre le onorificenze più prestigiose gli piovevano addosso. Poi tutto cambiò, Pio VII fu imprigionato, Fesch dichiarò la sua totale  docilità al Papa di Roma. L’ira dell’Imperatore fu grande e si trasformò in una persecuzione implacabile. Vessazioni che Fesch, sopportò  serenamente a Roma nel suo palazzo stracolmo di opere d’arte, forse l’unico amore del cardinale. Fesch  giunto in Italia nel 1796  apprezzò talmente tanto l’arte italiana, da iniziare una collezione di opere di artisti come: Bernardo Daddi, Lorenzo di Credi, Giovanni Bellini, Sandro Botticelli, Perugino, Tiziano, Veronese e altri ancora. Il Museo Fesch è situato ad Ajaccio e custodisce una enorme collezione di opere d’arte, comprendente dipinti, sculture, mobili, oreficerie e oggetti per uso liturgico. La raccolta di dipinti italiani è la seconda in Francia, dopo quella ospitata al Museo del Louvre. Pare che il cardinale Fesch avesse una collezione di 17000 dipinti di cui alla sua morte ne restarono poco più di 1000, quelli che andranno al museo di Ajaccio. Al cardinale capitò un evento che dire fortunato è dire poco: il San Girolamo di Leonardo da Vinci appartenuto ad Angelica Kaufmann (1741/1807) una pittrice svizzera, era andato perduto, lo ritrovò proprio il cardinale Joseph Fesch. Il prelato era drogato d’arte, girava come un disperato fra rigattieri, mercanti ed antiquari col terrore che qualcuno si aggiudicasse un capolavoro al posto suo. Naturalmente lo stare in Italia era una pacchia per lui, forse qualche opera se la sarà pure  trafugata. La sua passione fu coronata dal sogno che magari abbiamo fatto tutti, quello di comprare una crosta a poco prezzo e scoprire poi che è un capolavoro. In uno dei suoi giri il cardinale scoprì da un rigattiere una tavola tagliata con un leone, la comprò. A casa non si capacitava di cosa avesse fra le mani. Tornato dal rigattiere vide che questi aveva usato una tavola dipinta per fare un sedile, sconcertato comprò a poco prezzo la sedia. Ritornato a casa si rese conto che le due tavole combaciavano e vi riconobbe il San Girolamo appartenuto alla Kaufmann, che lui conosceva bene in quanto era spesso nel salotto della donna. Il dipinto del San Girolamo venne acquistato nel 1845 da Pio IX dagli eredi del cardinale e destinato da allora ai Musei Vaticani.

 

immagine: San Girolamo di Leonardo

articolo giàpubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 09/03/2015

 

Il Francia di Romagna

258La “Presentazione di Gesù al tempio e Purificazione della Vergine” è un olio su tavola che si trova nell’Abbazia di Santa Maria del Monte a Cesena, è il capolavoro del bolognese Francesco Raibolini detto il Francia (1450/1517). Dopo aver lavorato come orafo, iniziò a studiare pittura presso la bottega di Francesco Squarcione. Influenzato inizialmente dall’opera di Lorenzo Costa e Ercole de’Roberti, il Francia ebbe poi modo di conoscere lo stile di Perugino e Raffaello, addolcendo le sue linee. Vasari riferisce che Francesco smise di dipingere dopo aver visto “L’estasi di Santa Cecilia” di Raffaello, dipinto che lo stesso Raffaello, amico del pittore, gli aveva inviato a Bologna. Sembra addirittura che la depressione causatagli dal riconoscimento che egli non sarebbe mai stato in grado di realizzare un tale capolavoro lo portò presto alla morte. La bellissima tavola di Cesena, presenta il sacerdote Simeone, riccamente vestito da un manto rosso/oro decorato con figure di Santi, mentre sta porgendo le mani al Bimbo ignudo che si volge alla Madre, vestita di rosso con un manto verde/blu, a fianco San Giuseppe con due colombe in mano, è l’offerta per il tempio, è un obolo povero, i ricchi donavano un agnello. Accanto a Giuseppe è Sant’Anna, una profetessa molto vecchia che non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. La presunta figura femminile che regge tra le mani un libro, a destra, non è ancora stata identificata, ma potrebbe essere il committente perciò un priore benedettino. Dietro alle figure una costruzione finemente decorata, mentre il pavimento è a grandi piastrelle colorate. Lo schema compositivo è classico, l’atmosfera è gentile ed estatica, ricorda molto lo stile di Raffaello. Il tema della presentazione e purificazione al tempio si festeggia liturgicamente  il 2 febbraio, in memoria del giorno in cui Maria, in ottemperanza alla legge, si recò al Tempio di Gerusalemme, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, per offrire il suo primogenito e compiere il rito legale della sua purificazione. Il Vecchio testamento recitava: “Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatré giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. Ma, se partorisce una femmina sarà immonda due settimane come al tempo delle sue regole; resterà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue”. La cerimonia della purificazione si svolgeva così: giunta la donna al tempio il sacerdote di turno l’aspergeva con sangue e recitava su di essa alcune preghiere; quindi seguiva l’offerta stabilita per la purificazione e il pagamento dei cinque sicli per il riscatto del primogenito, che apparteneva a Dio. Memoria di questo rito si ritrova  nelle campagne di qualche decennio fa. Quaranta giorni dopo il parto, si andava alla chiesa, il prete con preghiere porgeva una candela, solo dopo le donne potevano entrare in chiesa. Durante la quarantena non si dovevano fare lavori pesanti e c’erano divieti nel cibo. L’incontro del Bambino con il vecchio Simeone esprime simbolicamente il passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento. La festa liturgica, un tempo, per decreto di Giustiniano, era giorno festivo in tutto l’impero d’Oriente, successivamente lo divenne anche in Occidente. Il rito della benedizione delle candele, di cui si ha testimonianza già nel X secolo, si ispira alle parole di Simeone:“I miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti”. Da questo significativo rito è derivato il nome popolare di festa della “candelora”. Questa festa fu istituita forse in opposizione ai Lupercalia dei Romani, evento che era col tempo divenuto sfrenato  e immorale. La candelora è legata verosimilmente anche alla festa celtica di Imbolc che prevedeva alle prime avvisaglie della primavera di festeggiare il ritorno della luce con grandi fuochi, lumini e candele.
immagine: Presentazione al Tempio del Francia

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 09/02/2015

Il Regisole, teoderico a cavallo… fino a Pavia

a3666f9065cf96fbc7f58f7c8a8eeb00Cosa è il Regisole e quale l’origine di tale strano nome? Doveva trattarsi di un’opera tardo antica in bronzo dorato, eseguita con la tecnica a cera persa, come i Bronzi di Riace per intenderci; quasi certamente si trovava a Ravenna e rappresentava Teodorico a cavallo, probabilmente in posa trionfale, forse echeggiava il mosaico, asportato per damnatio memoriae, ma ancora se ne intravede l’ombra, di Sant’Apollinare Nuovo. Fu uno dei modelli a cui attinsero gli scultori del Rinascimento per far rinascere l’arte del monumento equestre. La statua aveva una mano innalzata come il Marc’Aurelio e il cavallo teneva una zampa sollevata per evidenziare il dinamismo. Per quanto riguarda il nome, tre sono le ipotesi più accreditate: alcuni sostengono che la parola sia legata al personaggio con la mano alzata intento a “reggere” il sole, altri all’effetto del bronzo dorato che riflette i raggi del sole, mentre qualcuno pensa che Regisole significhi “regisolio” cioè trono regale. Molto più intricato sapere come la statua equestre sia finita a Pavia, collocata davanti alla cattedrale, diventando uno dei simboli della città, emblema pure sul sigillo d’argento del Comune; da Ravenna si è spostata a Pavia… ma come ci sia arrivata nessuno lo sa. Numerose e controverse sono le ipotesi avanzate dagli studiosi, alcuni ritengono che i pavesi in lotta coi bizantini sottrassero a quest’ultimi il Regisole, altri credono che la statua equestre fosse sempre appartenuta a Pavia, ma potrebbe essere anche la statua di Teodorico a cavallo che Carlo Magno si portò a Aquisgrana e che scomparse subito dopo. Viene da pensare che la città di Ravenna, dopo la morte di Carlo Magno, si sia riappropriata del manufatto e poi l’abbia perso di nuovo guerreggiando coi pavesi. Quello che è fuori da ogni dubbio è che il Regisole a Pavia colpì l’immaginazione di illustri ospiti della corte viscontea: Francesco Petrarca ne parla in una lettera al Boccaccio, Leonardo Da Vinci l’ammira nel 1490, durante un viaggio a Pavia in compagnia di Francesco di Giorgio Martini. Nel 1796 il Regisole fu distrutto dai giacobini pavesi che riconobbero in esso uno dei simboli della monarchia. Sparì quindi dal contesto urbanistico e storico di Pavia fino a quando il Comune commissionò allo scultore Francesco Messina, verso la metà degli anni ’30, una nuova statua equestre basata su raffigurazioni antiche.

immagine: Regisole di Francesco Messina

articolo già pubblicato sul quotidiano “la Voce di Romagna” il giorno 09/02/2015

 

 

Ebe e le sue sorelle

EBE

Incede leggera come un frizzante vento di primavera, par che s’involi fra i fruscii della veste trasparente, il nastro sui capelli raccolti che paiono biondi anche se sono in marmo, alza il braccio tenendo in mano un’ampolla, nell’altra mano ha già pronta la coppa, dorata come la collana che ha al collo, che esalta il seno nudo, acerbo e impertinente: è l’Ebe di Forlì. Figlia di Zeus e di Era, nella mitologia greca è la divinità della gioventù, era la coppiera, preparava e serviva il nettare che permetteva agli dei di rimanere immortali. Si narra, in uno dei pochi episodi che la riguardano, che Eracle, per divenire immortale, dovette sposarla. Durante uno dei suoi servizi Ebe cadde malamente, mostrando a tutti le sue parti intime. Le divinità scoppiarono a ridere così Ebe si rifiutò di servirli, mai più. Al posto di Ebe subentrò Ganimede un giovane amato da Zeus con tutti i sottintesi connessi. Della famosa statua di Antonio Canova esistono quattro versioni: ce ne è una anche a Forlì, nei Musei di San Domenico. Questa scultura venne commissionata nel 1816 dalla contessa Veronica Zauli Naldi Guarini per decorare una sala del palazzo di famiglia, Palazzo Torelli Guarini, situato in corso Garibaldi 94, a Forlì. Nel 1887, esattamente cinquant’anni dopo la morte della contessa, gli eredi Guarini vendettero la splendida scultura all’amministrazione comunale della città. Al tempo, l’acquisto avvenuto con denaro pubblico e considerato improduttivo, creò un grande scandalo soprattutto nelle file dei socialisti, i quali chiesero la cessione dell’Ebe a prezzo di realizzo. Fortunatamente   ciò non avvenne e la scultura nel 1888  fu esposta nella pinacoteca civica. L’Ebe forlivese è la stessa fanciulla che Canova aveva già riprodotto in altri 3 esemplari, ognuno dei quali si differenziava dagli altri per qualche variante che lo rendeva unico. La prima Ebe fu scolpita nel 1796 per il senatore Albrizzi di Venezia; la seconda nel 1801 per l’imperatrice Giuseppina, fu acquistata dall’imperatore delle Russie, oggi all’Hermitage; la terza nel 1814 per lord Cawdor. L’opera fu creata da Canova per essere ammirata da ogni lato, per questo il basamento di legno su cui poggiava fu dotato di un meccanismo che permetteva la rotazione. Non era facile ottenere una scultura da Canova, anche se si aveva il denaro sufficiente, ma di Forlì era il segretario particolare di Antonio Canova: Melchiorre Missirini, che avrà fatto sicuramente da tramite. E’noto che possedere una statua di Antonio Canova, fra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, era come ottenere una patente di nobiltà. Fu così che l’affascinante contessa nel 1816 acquistò la scultura. La contessa, rimasta vedova presto, si risposava a Firenze nel 1818, col conte Guicciardini ed il Canova inviava la statua a Firenze. L’Ebe arriverà a Forlì, solo nel 1841. Nonostante la bellissima ed esaustiva Mostra tenutasi a Forlì sul Canova, non molto tempo fa, non molti sanno che nella città ci sono altri capolavori dell’artista di Possagno. Per Forlì, Canova creò tre capolavori. Come abbiamo già visto la famosa scultura della contessa, ma prima vi era stata la richiesta a Canova, da parte del ricchissimo banchiere di Forlì Domenico Manzoni, della “Danzatrice col dito al mento”. La statua è pronta nel 1814, ma resta per tre anni nell’atelier del Canova, in quanto Domenico Manzoni è vittima di un efferato delitto nel maggio del 1817, mistero che rimane tutt’oggi insoluto. La vedova, causa difficoltà economiche, vende la scultura nel 1830 ad un principe russo e oggi, nonostante ricerche la scultura risulta introvabile. La vicenda verrà nobilitata da Canova nella bellissima  stele funeraria a Domenico Manzoni, ancora conservata nella chiesa della Santissima Trinità. La stele raffigura il mesto dolore di una donna con la testa appoggiata alla mano, piena di sofferenza ma allo stesso tempo di dignità. Canova riesce a far sentire l’urlo represso della donna. Inoltre tramite Melchiorre Missirini, per donazione, è pervenuto alla città di Forlì, un prezioso taccuino dell’artista con disegni nei quali spesso è possibile ravvisare lavori poi concretamente realizzati.

immagine:Ebe di Canova, Musei Civici Forlì

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 26/01/2015

 

 

 

 

Domenico Manzoni: un delitto senza colpevoli

0020

Domenico Manzoni, patriota, amante dell’arte o maneggione, nasce a Faenza nel 1775. E’ un acceso giacobino, è caratterizzato da intransigenza nella difesa dei valori repubblicani, tanto da essere condannato in contumacia al ritorno degli austriaci papalini, dopo l’intermezzo della Rivoluzione francese. Si rifugia a Forlì dove ottiene alte cariche, è affiliato alla Loggia massonica Reale Augusta e prosegue la sua attività di carbonaro nei primi tempi della restaurazione. Poi si arricchisce col commercio di granaglie e con speculazioni bancarie, accumula un enorme patrimonio. Non è amato dal popolo che lo incolpa di affamarlo aumentando il prezzo delle derrate alimentari né dagli amici cospiratori, che ha abbandonato, che lo accusano di spionaggio. Il 26 maggio del 1817, mentre si sta recando a teatro, viene pugnalato al ventre; muore dopo due giorni. I sospetti ricadono sulla carboneria forlivese ma il delitto resterà impunito.  Manzoni  sarebbe stato vittima di un regolamento di conti interno al mondo della carboneria, rivalità fra le varie logge o forse perché fece i nomi di qualche carbonaro in cambio di privilegi da parte del governo. Nel 1824 un delatore confida alla polizia che Manzoni è stato ucciso dai carbonari Vincenzo Rossi e Pietro Lanfranchi. Il Manzoni commissionò ad Antonio Canova la statua: “Danzatrice col dito al mento” opera che arriva alla famiglia solo dopo la sua morte. La vedova la vende ad un principe russo e poi se ne perdono le tracce. Per capire cosa si è perso è bene immaginarsi la Danzatrice di Canova di Torino nella Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, la fanciulla di marmo ha il capo reclinato, sorretto dall’indice, i capelli raccolti, le vesti lievemente trasparenti e mosse, la giovane ha l’altra mano appoggiata al fianco e al braccio una coroncina di fiori marmorei. Il sepolcro del banchiere sarà donato da Canova alla vedova, il fine e delicato capolavoro si trova nella chiesa della Santissima Trinità a Forlì, dove si conservano anche la tomba del famoso pittore Melozzo da Forlì e il reliquiario tardo cinquecentesco d’argento che contiene la testa di San Mercuriale. Se Manzoni sia stato un delatore o un uomo capace e nobile non si saprà mai, ma il suo nome sarà per sempre legato all’arte, sia perché il suo sepolcro è un capolavoro,  sia perché la “Danzatrice col dito al mento” è anche detta “Danzatrice Manzoni”.

immagine: Lastra tombale di Domenico Manzoni, Canova
articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 26/01/2015

Cagnacci romagnoli

Cagnacci_Fiori

 Nella Pinacoteca civica di Forlì con il titolo di “Fiasca con fiori” attribuita un tempo a Guido Cagnacci, vi è un’opera misteriosa, giudicata da Antonio Paolucci  il “Quadro più bello del mondo”  però non si sa chi sia l’autore. Adesso ha un nuovo titolo: “Fiori in una fiasca impagliata”, viene datata al 1625-1630 e attribuita al “Maestro della Fiasca di Forlì”. Di Cagnacci non può proprio essere, il romagnolo aveva uno stile sfumato ed aereo, mentre chi ha dipinto la “Fiasca” viaggiava sullo stile caravaggesco, ma se gli studiosi un tempo lo avevano collegato col Cagnacci qualche congruenza doveva esserci, forse era un suo quadro dipinto sotto la supervisione del suo maestro. Guido Cagnacci nasce a Santarcangelo nel 1601, da famiglia benestante. Si trasferisce con la famiglia a Rimini, ma ha l’animo inquieto, la città non gli basta. Va a Bologna e impara l’arte coi Carracci, da qui forse nasce l’attribuzione della celebre “Fiasca”, non può sfuggire la somiglianza con “Il Mangiafagioli” di Annibale Carracci. Da Bologna decide di andare a Roma,dove condivide l’appartamento col Guercino. A Roma apprende il naturalismo barocco, sfumato “alla francese” di Vouet. Torna a Rimini dove fa una promessa scritta di matrimonio con la Contessa Teodora Stivavi, appena vedova, di nascosto, perché i matrimoni tra ceti diversi a quell’epoca non erano ammessi; furono scoperti, nonostante la Contessa fosse andata all’appuntamento vestita da uomo, lui si rifugiò nella chiesa di S. Giovanni Battista mentre lei fu rinchiusa nel convento e processata dalla congregazione dei vescovi. Da questo evento inizia la diaspora di Cagnacci, fra viaggi, donne e soprattutto intestardito di far valere la sua promessa di matrimonio scritta, non si capisce se follemente innamorato, ma non credo, testardo come un mulo o attratto dal titolo nobiliare, comunque sia era ben bizzarro. Nel 1637 decora la cappella della Madonna del Fuoco a Forlì, ma le commissioni religiose cessano, il pittore da scandalo, è costretto così ad arrangiarsi con soggetti femminili poco vestiti. Viene chiamato alla corte di Vienna dove muore nel 1663. L’arte è sempre mistero e Cagnacci oltre all’enigma della “Fiasca” ce ne regala un altro: “Il Ritratto di giovane frate” che si trova ai Musei Civici di Rimini. Questo quadro ritrae un giovane frate dagli occhi ardenti  che durante gli anni ha subito delle modificazioni , non si sa se per damnatio memoriae o meno. Dietro le sue spalle si trovano pesanti libri di carattere religioso, mentre precedentemente trattavano temi scientifici, inoltre in alto a sinistra appariva il nome del religioso. Raffigurato di scorcio, guarda lo spettatore con accesa intelligenza, davanti a sé un teschio come memento mori, ha una stola con croci che lo fanno abate. Chi era? E perché prima fu ritratto con mezzi e strumenti scientifici, poi cancellati? Possiamo ipotizzare che il frate sia un gesuita, nel 1627 erano già presenti a Rimini, Cagnacci realizzò per la loro chiesa un dipinto che raffigurava i primi Santi gesuiti del Giappone. I gesuiti furono fondati da Sant‘Ignazio di Loyola nel 1540 e divennero molto presto uno dei grandi ordini della Chiesa cattolica. Convinti dell’importanza dell’istruzione, diedero vita a una rete di scuole in tutta Europa, da cui uscirono le menti più fervide. I gesuiti erano ottimi insegnanti: Giuseppe Biancani di  Bologna era un gesuita e un astronomo insegnò matematica a Parma; avversario del sistema eliocentrico, polemizzò con Galileo negando la montuosità della Luna. Suo allievo fu un altro eccellente astronomo ed anche gesuita di Ferrara: Giovanni Riccioli che dedicò il nome del suo maestro al cratere lunare Blancanus nel 1651.  Per tanta sapienza e per la loro grande capacità organizzativa divennero molto potenti e nel corso del Settecento l’ostilità verso di loro fu molto dura e causò  la soppressione dell’ordine nel 1773. Ecco che forse per un dispetto al frate probabile gesuita gli sono stati tolti i simboli della conoscenza scientifica lasciandogli solo quelli teologici. La Compagnia di Gesù fu ricostituita nel 1814 e riacquistò in breve tempo un ruolo centrale nel mondo cattolico.

immagine: “La Fiasca” Musei San Domenico, Forlì

Articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 12/01/2015

Il dolore e il sorriso di Giorgio Celiberti in mostra

eventi_5117

Sino all’11/12/ 2015 sarà visibile a Ravenna al Museo Nazionale la mostra “La Passione e il Corpo della Storia” di Giorgio Celiberti. E’ lodevole far dialogare e mettere a confronto le opere antiche con quelle  odierne, anche perché l’arte è sempre un disfare e un rifare. La mostra non è molto grande ma vi è il percorso di Celiberti dagli anni ‘70 ai giorni nostri. Parte dalla svolta dell’artista nata dal dolore. Quando Celiberti arriva nel 1965 in visita  al lager di Terenzin vicino a Praga, dove erano morti 1500 bambini ebrei, rimane scioccato e fulminato dal dolore che l’uomo può creare. “Lager” e “Tabelle” sono lavori grigi  e spenti come cenere, graffiti con delle  X che paiono più che lettere o numeri, croci di Sant’Andrea, seguono i “Fiori” pietrificati e fossili, e  i “Muri” densi e corposi. Con “Finestre porte e stele”, c’è un ricordo  dell’antico, di tombe funerarie che proteggono corpi che ormai possono essere solo in un’altra dimensione. Infine i graffiti in bianco e nero de “La Passione” opera quasi monumentale creata per Ravenna, l’artista spiega che è rimasto affascinato dal Mausoleo di Teodorico, dalle sue porte e finestre e non poteva essere che così, un simbolo del potere che parte con buoni propositi politici per finire in una crocifissione:  Teodorico avvelenato e il suo corpo disperso… sempre e per sempre la pietà è accoppata. Giorgio Celiberti è nato a Udine nel 1929,  interviene ai grandi eventi dell’arte contemporanea. Partecipa giovanissimo alla  Biennale di Venezia del 1948, dove c’erano anche Picasso e Matisse. Si sposta tra Parigi, Londra e Roma.Italo Calvino individua nella sua pittura “il peso doloroso della vita” e non si sbagliava. L’artista era presente all’inaugurazione ed ha avuto parole lusinghiere per la città e i suoi abitanti, mi hanno colpito la sua dolcezza, i suoi occhi cerulei che emanavano un alone di bontà e il suo sorriso, mi sono così incuriosita e mi sono avvicinata. “Maestro, io conoscevo le sue opere, ma non Lei, sono rimasta stupita dal dolore che invade i suoi lavori, mentre Lei invece sorride sempre, mi aspettavo di vederla un po’ abbattuto”. “Nei miei lavori metto il dolore del mondo, lo denuncio, ma poi devo sorridere, sorridere anche per chi non può farlo”. “Maestro le sue parole mi hanno creato il “magone”, ha detto una cosa fantastica trovare la forza di sorridere per chi non può farlo … posso baciarla”?.

immagine: “La Passione” di Giorgio Celiberti

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 20/10/2014