Romualdo l’eremita

Poppi, Eremo di Camaldoli san romualdo (4)Dopo l’anno Mille, superata la paura della fine del mondo, nasce la voglia di cambiare le cose. Lo sviluppo della città, i servi della gleba vanno dalla campagna al centro in cerca di un nuovo lavoro, nasce così l’artigianato. Ma anche nel contado, i lavoratori della terra avanzano i loro diritti ottenendo l’enfiteusi, cioè la cessione di terre incolte a condizione di migliorarle. La nascita della Cavalleria medievale e delle grandi scuole monastiche, delle grandi città marinare: Amalfi, Venezia, Genova e Pisa ed altro ancora. Ma la decadenza morale con la ricerca dei privilegi economici rimane, allora come oggi. Nella Chiesa simonia e concubinato la fanno da padroni, inoltre nel 1054 i cristiani d’Oriente si distaccano definitivamente da Roma, nel 1059 inizia la questione delle investiture mentre alla fine del secolo avviene la Prima Crociata. A fronte di questo degrado spiccano delle figure di Santi che provengono nientedimeno che dalla Romagna. Uno è San Romualdo e uno San Pier Damiani. San Romualdo (951/1027) nasce a Ravenna, da una famiglia nobile ormai decaduta, lascia la sua casa e inizia una serie di peregrinazioni lungo l’Appennino con lo scopo di riformare i monasteri e gli eremi. Converte l’imperatore Ottone III che lo nomina abate di Sant’Apollinare in Classe, ma lui rifiuta non vuole altro che essere un povero eremita, in questo e nel peregrinare ricorda un poco San Francesco ma è un po’ più aggressivo: tenta di strangolare un abate che si è comprato una carica. Fonda numerosi eremi, l’ultimo dei quali é Camaldoli, centro di preghiera e di cultura ancora oggi, nelle Foreste del Casentino. Tenta di evangelizzare il Nord Europa ma il progetto non gli riesce. La sua vita si conclude in un monastero fondato da lui: quello marchigiano di Val di Castro dove muore nel 1027. Nella pinacoteca di Ravenna vi è una bella tela del Guercino, vi è raffigurato un monaco vestito di bianco con alle spalle un angelo che picchia il demonio è: San Romualdo. San Pier Damiani scrive la vita di Romualdo qualche decennio dopo la sua morte, punteggiandola di episodi assai strani, pare che il diavolo fosse sempre pronto a tormentarlo e non riuscendo a corromperlo faceva in modo di guastare i suoi monaci: “Dovunque il Santo si recasse, (il demonio) istigava contro di lui l’animo dei suoi discepoli”. I tempi erano duri e gli uomini avidi e brutali, quindi non c’è da meravigliarsi se qualche monaco, si mise in testa di uccidere Romualdo, arrivando a pensare “all’omicidio devozionale”: uccidere il Santo per ottenerne le reliquie. Sull’isola del Pereo, si trovava tra due bracci meridionali del fiume Po e cioè tra il Po di Primaro a nord il Po di Badareno, nella zona dove oggi sorge il paese di Sant’Alberto, a dieci chilometri circa da Ravenna, Romualdo fonda un eremo e sempre qui, dove oggi sorge la frazione di San Romualdo, l’imperatore Ottone III edifica un monastero, per inviare monaci in Polonia, intitolato a S. Adalberto, vescovo e martire polacco. Romualdo, come la maggior parte dei Santi, mette paura ai potenti perché li esorta a una vita di rettitudine, ma chi ha il potere non può farlo anche se vorrebbe. Innumerevoli i miracoli effettuati dal Santo sia per il corpo che per la mente, inoltre ha che fare con miracoli con in mezzo degli alberi, tra cui anche una quercia, quasi come se Romualdo si ispirasse agli antichi druidi. Guarisce un prete dal mal di denti. Un faggio, sovrastante la sua cella abbattuto cade nella direzione opposta. Un contadino travolto dalla caduta di una quercia, rimane illeso. Romualdo guarisce un pazzo con un bacio e salva un ammalato grave con un po’ d’acqua. Un pezzo di pane benedetto da Romualdo risana una donna impazzita e libera un ragazzo dal demonio. Il diavolo sempre arrabbiato con lui, lo minaccia di morte, poi gli appare in forma di un cane dal pelo rosso che tenta di disarcionarlo, ma il Santo lo soverchia sempre. Romualdo fu viaggiatore in vita e in morte, infatti il suo corpo custodito sotto l’altare a Val di Castro fino al 1481, fu trafugato dai ladri che lo volevano portare a Ravenna. Scoperto il furto, le ossa del santo furono trasferite a Fabriano nella chiesa di San Biagio, dove riposano tuttora.
immagine: San Romualdo a Camaldoli

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22/02/2016

La Pietà di Bellini

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“Lo chiamavan drago gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago”. Cantava Giorgio Gaber,  chissà se gli abitanti del rione Giambellino , sapevano che Giambellino era esistito veramente e che era un mago e un drago col pennello e col colore. Giovanni Bellini (Venezia 1430-1516), noto anche con il nome di Giambellino, è uno dei principali innovatori della pittura veneziana, introduce a Venezia l’arte  rinascimentale. Figlio del pittore Jacopo e fratello di Gentile, pittore pure lui e famoso per il Ritratto del sultano Mehmet II, un olio conservato a Londra, che raffigura, in posizione di tre quarti, il celebre sultano e reca la data 1480. Tale ritratto è stato spesso oggetto di curiosità: Marcel Proust, lo cita in un suo romanzo, inoltre è stata notata la somiglianza del sultano con uno dei personaggi della lunetta di “Gesù fra i dottori nel tempio” di Marco Palmezzano, conservata a Brisighella . Ma torniamo a Giambellino, che fa parte della più importante famiglia di pittori di Venezia di quell’epoca, tra l’altro imparentata anche con Andrea Mantenga che sposò una sorella di Giovanni Bellini. Il padre era stato allievo di Gentile da Fabriano e nella sua pittura sono chiaramente ravvisabili gli elementi stilistici tardo gotici. Giovanni Bellini partendo da questi elementi tordo gotici, riesce a fare una sintesi originale con il senso della spazialità rinascimentale appreso dal Mantenga. Ma ciò a cui approda Giambellino non è la secchezza e la durezza delle linee   proprio del Mantegna, bensì egli crea con la luce ed il colore, semplicemente i piani si staccano tra loro perché hanno un diverso grado di luminosità. Figure chiare su sfondi scuri o viceversa, in modo che l’occhio  sia naturalmente portato a percepire ciò che è avanti o indietro per il semplice fatto che cambia il tono del colore. Da ciò ha inizio la grande pittura veneziana, una pittura fatta di colore e di luce, che verrà poi proseguita da Giorgione e da Tiziano. Le Madonne di Bellini sono pervase di dolcezza e tenerezza, immerse nell’ambiente. Bellini attualizza anche l’antica immagine bizantina del Cristo in pietà. Nella città lagunare le icone di Cristo erano una presenza familiare nelle case e nei conventi ed erano dunque ben conosciute dagli artisti. “La Pietà” o “Cristo in pietà sorretto da quattro angeli” capolavoro del Giambellino e della pittura veneta quattrocentesca è l’opera principale del Museo della Città di Rimini. E’ un dipinto a tempera su tavola, databile al 1470/1475 circa. La datazione di tale opera è oggetto di un dibattito controverso: vi è la testimonianza di Vasari che attribuisce la commissione al signore di Rimini Sigismondo Malatesta il quale però morì nel 1468, il che non combacia con la datazione accordata dalla critica. Occorre anche sottolineare che Vasari può essersi sbagliato, in quanto parla di una Pietà con Cristo sorretto da due angeli mentre nella tavola odierna gli angeli sono quattro e talmente belli e intensi che non passano inosservati. Il proprietario sarebbe stato un tal Raineiro consigliere di Pandolfo IV Malatesta che lasciò la “Pietà” in eredità nel 1499 per la cappella di famiglia in San Francesco a Rimini poi trasformata in Tempio Malatestiano. Oppure la tavola potrebbe provenire dall’oratorio di Sant’Antonio che sorgeva nei pressi di tale chiesa. Il corpo di Cristo reclinato e afflitto dalla morte seduto sulla lastra tombale viene sorretto da quattro angeli pacati, e malinconici, sembrano dei bambini con le loro vesti colorate, se non fosse per le loro ali simili a quelle delle farfalle. Il volto di Gesù esprime un dolore sereno, il corpo è luminoso, presenta la ferita al costato da cui scende il sangue sino a raggrumarsi sul biancore del perizoma. Un angelo ne raccoglie la mano osservando tristemente il foro dei chiodi, un altro tenta di sorreggerlo ed un altro inspiegabilmente, anche un po’ impertinente, se ne sta a braccia incrociate. Gli angeli non piangono, non si disperano, sembrano riflettere. Il tutto esplode in avanti dall’oscurità del fondo, come se nella morte di Cristo ci sia già la luce della  Resurrezione, e gli angeli coi loro atteggiamenti lo affermano con certezza.

immagine: Pietà di Giovanni Bellini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 05/10/2015

Santa Maria delle grazie

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Il Santuario di Santa Maria delle Grazie di Fornò, sorge nella campagna tra Forlì e Forlimpo­poli, per accedervi occorre percorrere un viale fra due fila di alberi alti e sinuosi e si arriva a questa chiesa rotonda  e imponente, dai mattoni chiari e regolari, percorsa, in alto, da fasce decorative che alternano il monogramma della Vergine con la cifra  IHS, attributo iconografico di S.Bernardino, di cui l’ideatore del Santuario era devoto, ma potrebbe semplicemente essere raffigurata una maternità simbolica in quanto la scritta IHS significa Gesù. Entrandovi  si trattiene il respiro: il presbiterio è chiuso da una mu­ratura cilindrica, che pare il tronco di un albero, mentre il soffitto in travi di legno disposte a raggiera sembra un intrico di rami.  Struttura originale e simbolica, ma fragile, dopo cinquant’anni già stava crollando, fu papa Giulio II, ritratto negli affreschi all’interno della chiesa, a fare il primo restauro. Pietro Bianco da Durazzo, un pirata fattosi monaco, un eremita vestito di bianco, arriva a Forlì nel 1448, uomo di profonda devozione, solitario, gira scalzo, è parco nel mangiare, non tocca il denaro, eppure costruì il Santuario col convento e il campanile, doveva essere assai determinato ma il denaro dove lo trovò per una commissione così importante? La chiesa custodiva unʼimponente statua (altezza cm 174)di Madonna col Bambino eseguita attorno al 1454 da Agostino di Duccio; è in marmo bianco divisa in quattro blocchi, semplice, quasi una Kore (statua votiva tipica della scultura greca arcaica) un capolavoro che cattura lo sguardo e l’anima, ricorda la calma piatta delle meravigliose Madonne di Piero della Francesca. Il coevo rilievo marmoreo, che rappresenta la Santissima Trinità, sempre di Duccio, riprende la composizione del celebre affresco di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze. Al centro dell’altare c’è la sacra icona, portata a Forlì da Pietro: la Madonna delle Grazie e della Misericordia, regge con le mani una mandorla con lʼimmagine di Gesù che ha nella mano il globo, in basso Pietro inginocchiato, non è l’originale in quanto il dipinto fu trafugato non molti anni fa. Nelle cappelle laterali sono collocate pale d’altare, tra cui Sant’Agostino nello studio, un olio su tela, dove il Santo ha lo sguardo rivolto al cielo, indossa un sontuoso piviale, è effigiato con i suoi attributi tradizionali: i libri, il pastorale e la mitria, con accanto due bei putti. Ci sono due acquasantiere, forse di Duccio, di delicata bellezza. La chiesa di santa Maria della Misericordia fu edifi­cata, come indica lʼiscrizione sopra la porta dʼingresso del protiro, nellʼanno del Giubileo 1450. La lunetta affrescata proprio sopra l’iscrizione è molto bella, anche se quasi distrutta: una Resurrezione in cui Cristo è ormai del tutto scolorito, si vedono solo i soldati che dormono “stravaccati” e ricorda in qualche modo la celeberrima Resurrezione di Piero della Francesca. Pietro era forse era un pirata, che pentitosi usò i tesori accumulati per costruire il più bel simbolo al mondo per la Madonna e il Figlio, ma è più probabile che fosse un monaco orientale, giunto sulle nostre coste per salvarsi dai turchi. Costantinopoli stava crollando sotto i colpi delle armate turche, persino Giovanni VIII Paleologo,l’imperatore orientale, era venuto in Italia, disperato, a chiedere aiuti militari ma nel 1453, la “seconda Roma”, cadde. Gli ortodossi cercavano aiuto in occidente e le corti italiane erano affascinate da questi monaci così sapienti che conoscevano il greco e avevano tanti manoscritti di autori a loro sconosciuti. Non era la prima volta che ondate di monaci ortodossi scappavano da Oriente per salvarsi. Nel periodo iconoclasta (VIII secolo) migliaia di monaci basiliani (si ispiravano alla regola di San Basilio Magno) arrivarono sulle nostre coste portando sapienza e tecnica, fu uno di loro, Pantaleone, che nel XII secolo ideò e costruì il famoso mosaico dell’Albero della Vita di Otranto… trecento anni dopo un altro sapiente monaco orientale lasciò il suo “albero” a Forlimpopoli. Il Santuario per particolarità, unicità e bellezza potrebbe far parte del Patrimonio Unesco.

 

immagine :Santuario di Fornò

articolo già pubblicato il giorno 20/07/2015 sul quotidiano “La Voce di Romagna”

 

 

La placida quiete della Faenza Neoclassica

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Faenza può considerarsi la città del pittore piemontese Felice Giani. Con un giro turistico mentale possiamo  iniziare da palazzo Laderchi, in corso Garibaldi, oggi sede del Museo del Risorgimento e della Società Torricelliana, dove l’artista dipinse nel salone delle feste “Storie di Amore e Psiche”. Passeremo poi alla  Galleria dei Cento Pacifici, nel XVIII secolo era consuetudine realizzare un collegamento fra i palazzi comunali ed i teatri. Così fu anche per il Teatro Masini e per Palazzo Manfredi tramite questa elegante galleria decorata dal Giani, in collaborazione con il quadraturista Serafino Barassi e con Antonio Trentanove per le grandi statue, lo stesso artista che ha realizzato l’imponente corona di cariatidi che delinea il loggione del teatro. La sala un tempo era destinata alla riunione dei Cento Pacifici, i quali erano una compagnia di  saggi cittadini a garanzia della pace e a difesa della città. Furono una magistratura ufficialmente riconosciuta, a loro, Faenza deve il sedarsi di molti dissidi fra le parti storicamente avverse, invece a Ravenna durarono le lotte fra i Rasponi e i Lunardi, a Forlì tra i Numai e i Morattini, a Imola tra i Sassatelli e i Vaini. Lungo via Mazzini, vi è Palazzo Gessi. Nel 1813, in occasione delle nozze tra il conte Gessi e la marchesa Bolognini, le sale del primo piano furono in gran parte decorate da Felice Giani che creò un altro dei suoi capolavori. Qui fu ospitato papa Pio VII, di ritorno dall’esilio, e nel 1815  il sovrano Carlo IV di Spagna con la famiglia reale. Altri palazzi presentano i lavori del Giani ma noi ci dirigiamo all’ultima tappa. Palazzo Milzetti, in via Tonducci, il più importante palazzo neoclassico della regione, museo nazionale, con i decori del Giani e l’architettura di Giuseppe Pistocchi. Straordinario edificio, con gli interni dipinti a tempera da Felice Giani e i suoi aiutanti, i colori brillanti si sposano alle tinte pastello degli stucchi creando un capolavoro di raffinatezza. Il Palazzo è un esempio unico e integro sul Neoclassicismo, presenta una decorazione continua, leggera e luminosa; se la Sala delle Feste è meravigliosa, il bagno ottagonale è un capolavoro assoluto. Nel 1817 passò ai conti Rondinini, a loro si deve la realizzazione del giardino con la “capanna rustica”, che oggi è visitabile a qualsiasi ora, in quanto si trova nello spiazzo del Circolo dei ferrovieri.

 

 

 

immagine:Felice Giani, Palazzo Milzetti, Faenza

articolo già pubblicato sul quotidiano:”La Voce di Romagna” il giorno 27/07/2015

La Flagellazione ha un legame con la Romagna?

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Piero della Francesca nacque a Sansepolcro nel 1415-20 dove morì nel 1492. Si formò a Firenze insieme a Domenico Veneziano. Le sue prime opere hanno una struttura prospettica rigorosissima, a cui aggiungerà in seguito la luce, una nebbia luminosa che rende le sue opere come “sospese” fra il cielo e la terra. “Il monarca della pittura” lo definì l’amico conterraneo e matematico Luca Pacioli. Piero fu pittore, umanista e matematico, fu uno dei cardini del Rinascimento, la sua pittura è fatta di armonia, luce, geometria e mistero. Intorno al 1451 il pittore arrivò a Rimini dove lavorò nel Tempio Malatestiano all’affresco col ritratto di Sigismondo Malatesta. Qualche anno prima Piero si era fermato a Ferrara, forse nel 1444/45, e al ritorno fece sosta anche a Rimini, dove potrebbe avere incontrato il Signore di Cesena: Novello Malatesta. Ci fermiamo in questi anni per indagare sulla misteriosa tavola di Piero:“Flagellazione di Cristo”, oggi nella Galleria Nazionale di Urbino, di cui non si ha datazione, una proposta degli esperti è dal 1444 in poi, né provenienza, né interpretazione del soggetto. L’opera presenta in primo piano una scena di vita cittadina quattrocentesca, con tre enigmatici personaggi, sullo sfondo un’architettura finemente decorata dove c’è il supplizio di Cristo. Se prendiamo in considerazione che la figura maschile in primo piano, vestita di rosso, simbolo di martirio, con i capelli biondi che formano quasi un’aureola, i piedi  scalzi e posto in modo analogo a Cristo, sia Oddantonio di Montefeltro, ecco che si paragona il destino di Oddantonio, ucciso diciassettenne in una congiura nel 1444, a quello di Gesù. Oddantonio era il fratellastro e predecessore di Federico, quest’ultimo non sarebbe mai divenuto duca di Urbino senza la morte del legittimo erede. Novello Malatesta era cognato di Oddantonio, aveva sposato sua sorella Violante, fanciulla avvenente, molto religiosa e legata al fratello. Novello aveva affetto e un grande ascendente sul più giovane Oddantonio. Violante assistette all’assassinio del fratello, ne fu talmente sconvolta che fece voto di castità perpetua. Forse è possibile che la tavola della “Flagellazione”sia stata richiesta a Piero, nel 1444 o poco dopo, da Novello Malatesta e sua moglie Violante a commemorazione perpetua di Oddantonio e in seguito la tavola sia stata asportata da Cesena.

 

immagine: “Flagellazione” di Piero della Francesca

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 15/06/2015

 

La quiete rinascimentale del piccolo Pianetto

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Pianetto è un piccolo paese, a due chilometri da Galeata, una manciata di case, un ambiente antico e quieto raccolto attorno al complesso rinascimentale del convento, della chiesa e del museo, sullo sfondo i resti della rocca appartenuta agli Abati di S. Ellero, resti che si ergono come sentinelle protettive del silenzio e del vivere “lento”. Appena usciti dal Museo Mambrini, pochi passi conducono al  bel chiostro col pozzo al centro, per arrivare all’adiacente Chiesa dei Miracoli. Fu edificata nel 1497 per un miracolo avvenuto in una casa del paese, dove una tavoletta raffigurante la Madonna e Santi fu vista piangere e versare dal seno gocce simili al latte. La chiesa ha linee rinascimentali, ma entrando si resta un po’ sorpresi, la navata unica ha un tempietto che invade come un braccio proteso lo spazio, è il luogo in cui è venerata la tavoletta del miracolo. Questa cappella domina pure l’abside e poi i drappi, i vecchi candelabri, le cassettine un po’ arrugginite per le offerte, rendono questo spazio come sospeso nel tempo. Nelle pareti laterali della chiesa vi sono gli altari, cinque per parte, che conservano pregevoli opere come “La Visitazione” (1599) di Giovanni Stradano, dove  sono rappresentate la Madonna ed Elisabetta ambedue incinte, unico esempio del genere oltre alla Madonna del Parto di Piero della Francesca. In fondo alla navata, a sinistra, c’è un affresco, rappresenta il miracolo assai originale di una partoriente. La donna è stesa a letto, dolorante, accanto due donne anziane, forse levatrici, a fianco un asino con la cavezza si sta abbeverando, un uomo gli spinge il capo verso la fonte e un frate sta osservando. Una scritta, non integra, spiega che ad Arezzo una donna non riusciva a partorire, ma cinta con la cavezza di una bestia partorì subito. Presso Pianetto si insegnò pure teologia ai chierici dell’abbazia di S.Ellero, erano monaci irrequieti, come testimoniano alcuni rimproveri scritti, erano anche invisi alla popolazione.  Nel 1424, accadde un episodio singolare, giunse un capitano dei Visconti di Milano, con l’esercito. Il podestà di Galeata consegnò la rocca senza combattere, per ricevere in cambio un tornaconto personale. Il condottiero dei Visconti ebbe a schifo la viltà del podestà e lo imprigionò nella rocca, dove morì di fame, schernito dai soldati che gli lanciavano per cibo delle carte con delle bisce dipinte.

immagine: affresco col miracolo della partoriente e la cavezza

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 08/06/2015

Ultimi giorni di Bel Paese

Fortunato Depero  “Guerra, Guerra!”

Sino al 14 giugno il Museo d’Arte di Ravenna ospita la mostra “Il Bel Paese. L’Italia dal Risorgimento alla Grande Guerra, dai macchiaioli ai futuristi”, a cura di Claudio Spadoni. La visita è introdotta dalla frase di Dante “bel Paese là dove il sì suona” (Inferno, XXXIII).  Il Poeta la scrive come invettiva contro l’Italia bella sì, ma violenta. Si inizia col dipinto: “Veduta fantastica dei principali monumenti d’Italia” (1858) di Petrus Henricus Theodor, il pittore colloca fra mare e monti, la Lanterna di Genova, San Marco di Venezia, il Duomo di Milano, le Torri di Bologna, e poi sempre più giù per arrivare al Vesuvio. Ci sono poi le tele che ritraggono i momenti della guerra, l’assalto a Porta Pia, Garibaldi all’assalto di Roma, una bella vivandiera e momenti di riposo in caserma, i colori sono brillanti, le scene luminose, la guerra non pare tanto brutta. Molte vedute riguardano i monti, due molto evocative, realizzate con pastelli su carta, sono di Gaetano Previati, pittore ferrarese, simbolista e divisionista, rappresentano il Resegone e il San Martino, monti lombardi citati nei Promessi Sposi dal Manzoni. Si può poi ammirare un’immagine  del sobborgo di Porta Adriana a Ravenna del 1875, di Telemaco Signorini, pittore macchiaiolo, e notare così quanto fosse povera e desolata la città, le donne con la testa e le spalle coperte da scialli neri, una al centro della strada a piedi nudi con una fascina sulla testa. L’opera “Balcone del Palazzo Ducale” del 1881 è una gioia per gli occhi, è del veneziano Giacomo Favretto, uno dei più importanti maestri dell’Ottocento italiano; pittore che ebbe enorme successo nonostante la breve vita. Troviamo anche un dipinto che raffigura la mondanità, è del pittore ferrarese Aroldo Bonzagni, artista che rappresenta il reale con molta ironia: su uno sfondo rosso avanzano donne superbe e damerini impomatati, Bonzagni rende tangibile la loro arroganza. Una tela del pittore francese Jean-Victor Schnetz raffigura il lancio delle violette, al carnevale romano, fra ragazzi e fanciulle. Forse un antico ricordo della festa romana che si teneva alla fine di febbraio in onore di Attis, dal cui sangue per amore nacquero le viole. In Francia, ancora oggi si trovano i fiori di viole zuccherati, che i ragazzi donano alle loro innamorate per San Valentino. “I grassi e i magri” luminosa tela di Enrico Lionne esponente del Divisionismo romano. In un prato all’aperto ricchi signori ben panciuti mangiano accanto a tavole imbandite, mentre due suonatori magri stecchiti cercano di raggranellare qualcosa allietandoli. Sorrido fra me, oggi in occidente  la magrezza è un pregio inestimabile, paradossalmente sono i poveri a essere grassi in quanto mangiano molta pasta che costa poco, ma ingrassa. Poi una serie di ritratti di donne belle come Madonne, popolane sì, ma fiere, tra cui il ritratto di Vittoria Caldoni, figlia di un vignaiolo di Albano che a quindici anni venne scoperta per la sua bellezza. Divenne nota in tutta Europa, posando per i più noti pittori, incarnando l’ideale della bellezza popolare italica. Queste ragazze le ritroviamo coi loro lavori umili e faticosi: “La sbianca” del monzese  Eugenio Spreafico, le fanciulle dopo aver lavato i teli li stendono sull’erba per farli sbiancare. Oppure “Le gramignaie al fiume”, del macchiaiolo fiorentino Nicolò Cannicci, del 1891. Le gramignaie erano giovani donne che per combattere la miseria, raccoglievano nei mesi di febbraio-marzo la gramigna, poi pulivano le piante al fiume stando a piedi nudi nell’acqua gelida e infine le vendevano come medicinale per le bestie. Finite le scene poetiche del verismo macchiaiolo, troviamo i futuristi. Un collage di Fortunato Depero dal titolo “Guerra, Guerra!” del 1915, mostra al centro della composizione astratta una foto di un giovane rabbioso col pugno alzato. I futuristi volevano che l’Italia entrasse in guerra, e guerra fu, volevano spaccare tutto, non salvare niente perché tutto era marcio. Rabbrividisco con modalità diverse sta accadendo anche oggi. La mostra termina con la pacata immagine del metafisico Giorgio De Chirico e una mirabile sinfonia di rossi di Felice Casorati.

 

immagine: “Guerra, Guerra!” di Fortunato Depero

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno25/05/2015

Capolavori da Museo

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Il Museo Della Città di Rimini, è ospitato dal 1990 nella sede del Collegio dei Gesuiti. Attualmente si compone di circa 40 sale in cui sono esposte circa 1500 opere. Il cortile ospita il lapidario romano, al piano terra si può visitare la prima parte della Sezione Archeologica dedicata alla Rimini  imperiale. Tra il primo e il secondo piano si trova la Pinacoteca che segue un percorso cronologico.   Una serie di capolavori si trova al primo piano nella sala del Trecento con tavole di giotteschi, tra cui spicca Giuliano da Rimini. In un’altra sala della pinacoteca vi è poi un gioiello: “La Pietà” di Giovanni Bellini del 1500 circa che da solo vale la visita al Museo: grazia, dolcezza e armonia vibrano nell’opera del pittore veneto. Questa piccolissima introduzione era dovuta per chi non ha mai visitato il Museo che è ricchissimo di perle, io vi parlerò solo di due opere: il grande mosaico bianco/nero delle barche e quello policromo del pastore con la testa di Anubi. Il mosaico a tessere bianche e nere raffigura le imbarcazioni che rientrano al porto di Rimini attorniate da pesci e delfini, con l’ingresso al porto dove c’è l’addetto al faro, che alimenta il fuoco e l’equipaggio come lavora! Nella via Tempio Malatestiano, sono stati ritrovati i resti antichi di una grande domus, sotto Palazzo Diotallevi, scoperta nel 1975, fu costruita fra il II e il I secolo  a. C. e ristrutturata intorno alla metà del II secolo d. C. è da questa domus che proviene il mosaico delle imbarcazioni, forse di proprietà di un ricco imprenditore marittimo. Ciò fa pensare ad una vocazione naturale per il mare da parte dei riminesi, ad un boom economico già  nel I/ II  secolo a. C.,  una Rimini antica  al centro delle rotte commerciali, che mantenendo le sue tradizioni si è “inventata” negli anni  ‘60 un altro boom: la spiaggia e le vacanze per tutte le tasche. Dei mosaici a tessere bianche e nere fa parte anche la raffigurazione di Ercole che ha in mano oltre alla clava una coppa nel gesto di brindare. Secondo la leggenda Ercole era il “protettore” più antico di Rimini. Da Piazza Ferrari sui resti di una ricca domus imperiale, provengono varie suppellettili di pregio, tra le quali si segnala un completo corredo medico con mortai, contenitori per medicinali e numerosissimi strumenti chirurgici in ferro e bronzo, sembra che Rimini anticamente ospitasse molti medici ma anche un sottobosco di maghe e fattucchiere. Da questa domus  proviene lo splendido mosaico di Orfeo attorniato da animali (Orfeo è l’incantatore della Natura). Il mosaico del pastore con la testa di Anubi/cane, attorniato da  animali, mi ha colpito tanto, proviene da una domus vicino all’Arco d’Augusto, forse è testimonianza di un nuovo gusto egiziano per la religione, le mode esistevano anche nell’antichità;  ma il pastore potrebbe essere Orfeo, il culto di Orfeo era assai sentito, lo testimonia il mosaico della domus del chirurgo e una piccola scultura di Orfeo citaredo che si trova sempre ai Musei Civici. Se il pastore è Orfeo e la testa non è di Anubi, la raffigurazione potrebbe allacciarsi  ad Ercole, in quanto Ercole e Orfeo sono gli unici dei che sconfiggono Cerbero, il cane a tre teste vorace demonio a guardia dell’Ade. Ercole non lo uccide lo affronta e arriva quasi a strangolarlo, poi lo riporta al suo posto di guardia. Orfeo scende nell’Ade per riportare in vita Euridice, incomincia a cantare dolcemente e Cerbero diviene  buono come un agnellino. Comunque è sorprendente che su una stessa zona fiorisse bellezza, già nel I/ II sec. a. C. e sopra vi sorgesse più tardi Palazzo Diotallevi  i cui proprietari possedevano una ricca collezione d’arte, come se la bellezza si rincorresse. Audiface Diotallevi (morto nel 1860) fu l’ultimo Sindaco di Rimini sotto il Governo Pontificio e fu anche uno dei fondatori della Cassa di Risparmio. Diotallevi aveva una importante collezione di dipinti, provenienti in massima parte dagli arredi artistici delle chiese riminesi soppresse da Napoleone nel 1797. Tra le opere la pala: L’Incoronazione della Vergine di Giuliano da Rimini, oggi ritornata ai Musei Civici della città e La Madonna Diotallevi di Raffaello Sanzio oggi conservata  al Bode Museum di Berlino.

immagine: Mosaico delle imbarcazioni a Rimini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 20/10/2014

Boldini dentro e fuori

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Ardengo Soffici, poeta, scrittore e pittore, forse un po’ di parte, perché a causa della rovina finanziaria del padre si ritrovò dall’agiatezza alla povertà, definiva Giovanni Boldini, che era l’artista dei  super-ricchi, “né un pittore, né un creatore, né un poeta”. Aldo Palazzeschi, il grande e ironico scrittore, confrontava Boldini con Toulouse Lautrec, lo “gnomo di Montmartre”, affermando che l’arte dello “gnomo ferrarese” era facile e decorativa, quanto drammatica e angosciosa quella di Lautrec. I due artisti avevano in comune la bassa statura, Lautrec aveva avuto un incidente appena giovinetto alle gambe che ne aveva impedito la crescita, l’aspetto non piacevole ed erano anche scorbutici. Lautrec era di famiglia ricca, la famiglia di Boldini faticava a sbarcare il lunario, entrambi hanno la perizia virtuosistica del disegno, una linea densa ed espressiva Lautrec, una linea decorativa, seducente, accattivante quella di Boldini. Quest’ultimo è adorato  dal bel mondo, dove si muove agilmente e sebbene piccolo e bruttino è attorniato dalle stesse dame che ritrae, come potete vedere alla Mostra “Boldini lo spettacolo della modernità”,a Forlì, ai Musei San Domenico sino al 14 giugno, le dame sono molto belle e charmant. Quasi spogliate, magre, affusolate, sono donne della modernità, potremmo paragonarle alle donne di spettacolo di oggi. Spettacolo è tutto ciò che attrae lo sguardo, ma ciò che sono realmente queste donne, Boldini non ce lo fa vedere. Non si sfugge allo spettacolo di Boldini, all’influenza dei suoi colori e alle sue linee veloci, scattanti, incredibili. Conosceva tutti i trucchi del mestiere un vero artista della lumeggiatura. Boldini si cimenta nella pittura fin dalla giovanissima età. Nel 1862 è a Firenze dove frequenta i macchiaioli, nel 1867 si reca per la prima volta a Parigi e vi si trasferisce definitivamente nel 1871, dopo un soggiorno a Londra. Riscuote notevole successo nella società parigina per i suoi ritratti. Nel 1919 viene insignito della Legion d’onore, massima onorificenza francese. A 87 anni, due prima di morire, sposa una giornalista trentenne . Ad aprire la mostra: “Scena di festa al Moulin Rouge” dove in un tripudio di rosso vivo Boldini si ritrae al centro della scena. Di fianco è esposto : “Ritratti dalla borsa”di Degas, uomini in nero, colore simbolo della borghesia. Negli autoritratti Boldini si ritrae con lo sguardo intenso e l’aspetto piacevole ben diversamente appare quando è ritratto da Degas: sguardo vacuo e portamento tronfio. Al piano superiore  troviamo due diverse immagini di Giuseppe Verdi, entrambe dalla tecnica eccellente. Il ritratto di Verdi a pastello è talmente famoso, che ormai si identifica col grande musicista più del Rigoletto. E poi arrivano le donne, una carrellata di bellezza, di vivacità, di spettacolo,donne scollacciate, dai vestiti alla moda, come ad esempio: “La contessa Speranza” dall’abito nero con la scollatura abissale, colta mentre si infila al volo una corta pelliccia. Ciò che più colpisce nei ritratti delle donne a figura intera sono i vestiti, resi mirabilmente più che nelle foto di moda odierne, svolazzanti, gonfi, ondeggianti par di sentirne il fruscio… ma come sono eleganti! Un po’ irriverente, mi pare, la posizione del dipinto:“Il cardinale Guido Bentivoglio” di van Dyck, rara sinfonia di rossi, fra i ritratti di due seducenti  e discinte donne in rosso scuro di Boldini. I ritratti di queste meravigliose donne sono lo specchio di una società decadente dove il pudore più non esiste. Il mito narra che quando il pudore non riesce più a frenare gli eccessi, non rimane altro che la nemesi: la vendetta che ripara i torti mediante la punizione dei colpevoli. Da lì a poco scoppierà la Grande Guerra. Dopo la guerra la nuova donna è rappresentata in Mostra da un dipinto di Modigliani del 1918: una figura iconica, antica e triste. La star della Mostra non è una donna ritratta da Boldini, ma da Francisco Goya: “Tadea Arias de Enriquez”  del 1789, la fanciulla acconciata e vestita elegantemente alla moda del tempo, si sta togliendo un guanto, ha lo sguardo fermo, volitiva e affascinante ma senza sguaiataggine, né eccessi.

 

immagine: “La contessa  Speranza” di Giovanni Boldini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 23/03/2015

Quando l’arte è anche un monito della natura

mirroring

A Forlì, uscendo dalla Mostra su Boldini, a pochi passi troviamo l’oratorio di San Sebastiano. La chiesa fu realizzata in stile rinascimentale; ha una pianta a croce greca, con un atrio coperto da una cupola. La prospettiva che la chiesa presenta fa pensare a un intervento di Melozzo da Forlì, fu edificata su modello di Pace Bombace, architetto che appartenne appunto al gruppo di Melozzo. Un tempo sede della confraternita dei Battuti Bianchi, l’edificio è oggi utilizzato per mostre temporanee. Sino al 29 marzo si svolgerà l’esposizione: “Mirroring – rispecchiarsi nella Dea”, il titolo fa pensare che le autrici vogliano rispecchiarsi nella Dea Madre cioè la Natura che etimologicamente significa: la forza che genera. La Dea, perché all’inizio fu il matriarcato, per migliaia d’anni, poi fu il patriarcato e le donne vennero sottomesse. Oggi, i soprusi  continuano come sempre verso i più deboli, bambini, donne e anziani. Uomini e donne sono su un falso piano egualitario, ci sono le leggi, ma è cresciuta l’incomprensione fra i due sessi. Rosetta Berardi ed Alessandra Bonoli sono le protagoniste della mostra. Rosetta ci ricorda la Pineta di Lido di Dante distrutta da un incendio doloso, i suoi alberi sono neri e ramificati come se le radici si fossero capovolte, al posto della chioma dei bitorzoli, sono testimoni muti, ma paiono dire:“Guarda che hai fatto uomo”. In questo contesto i pini si rinnovano, l’oratorio è intitolato a San Sebastiano, questo Santo è sempre raffigurato trafitto da frecce, gli alberi sembrano così strali scagliati su di noi, anche sull’autore dell’incendio, perché il piromane ha fatto del male pure a se stesso, perché gli alberi sono la vita. Alessandra ci fa vedere un mondo di geometrie fortemente simboliche che si ispirano alla natura e alle sue forme. Sono prototipi di grandi strutture originate dalla ricerca sulla struttura aurea, sui numeri di Fibonacci, sulla geometria, è quindi scienza e tecnica; vengono poste in spazi determinati, a contatto col terreno, in modo che ascoltino e interagiscano col luogo. Sono sculture che emettono il sibilo dolce o arrabbiato della Terra oppure sono culle che tentano di farci riposare o ricordare quello che la Dea ci dice e che noi non siamo più capaci di ascoltare. L’autrice auspica l’armonia fra tecnica e natura. La tecnica deve andare al passo con la natura perché essa stessa è natura.

immagine: foto del  catalogo della mostra, un pino di Rosetta Berardi adornato da una scultura di Alessandra Bonoli

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 23/03/2015