Alberico sconfisse i bretoni che avevano messo a ferro e fuoco Cesena e l’Italia per il primato della Francia

Alberico sconfisse i bretoni che avevano messo a ferro e fuoco Cesena e l’Italia per il primato della Francia

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 19 Lug 2018, 16:35

Alberico nasce a Barbiano nel 1344, fa parte di una famiglia romagnola discendente dai Carolingi e imparentata con i signori di Carrara, Ravenna e Faenza. Apprende l’arte militare nella compagnia di ventura dell’inglese “Giovanni Acuto”. Poi forma una sua compagnia chiamata Compagnia di San Giorgio. L’esercito di Alberico conobbe subito una grande fama. Così quando le milizie mercenarie bretoni dell’antipapa Clemente VII si misero in marcia verso Roma per metterlo a capo della chiesa, papa Urbano VI lo chiamò a schierarsi in difesa di Roma.

Il cardinale Roberto di Ginevra, antipapa Clemente VII, aveva contribuito alla ricostruzione dello stato pontificio quale legato in Romagna (1376-1378). Quando fu eletto nel 1378 dalla fazione dei cardinali francesi, ribelli ai loro colleghi che avevano eletto poco prima Urbano VI. L’elezione di Urbano, significava la volontà della Santa Sede di rimanere in Roma, dove si era stabilita pochi mesi prima, abbandonando Avignone, i cardinali francesi però volevano ritrasferire la sede pontificia ad Avignone per fare i loro interessi.

Clemente VII iniziò subito la lotta contro Urbano VI, per prendere possesso di Roma, incamminandosi col suo esercito mercenario verso Roma. La battaglia tra Alberico e le milizie bretoni avvenne a 12 miglia a nord di Roma il 30 aprile 1379. Al termine della battaglia, Alberico, vittorioso, entrò trionfante in Roma. Urbano VI, rese grazie a Dio della vittoria recandosi incontro dal vincitore a piedi nudi, lo fece Cavaliere di Cristo e gli conferì solennemente un grande stendardo bianco attraversato da una croce rossa con il motto “LI-IT-AB-EXT” ( l’Italia liberata dai Barbari).

Non bisogna però mai festeggiare troppo le vittorie, perché quella di Urbano VI fu di breve durata. Persa la battaglia, Clemente VII si ritirò con le sue truppe ad Avignone, qui instaurò una nuova Curia e diede di nuovo battaglia. Da questo momento incominciò il grande Scisma d’Occidente, con cui si intende la crisi che per quasi quarant’anni, dal 1378 al 1417, lacerò la Chiesa occidentale, con il papato diviso in due obbedienze, quella romana e quella avignonese. La situazione si complicò quando la stessa Cristianità si divise in due: infatti con Clemente VII si schierarono la Francia, il Regno di Napoli, la Savoia, i Regni della Penisola Iberica, la Sicilia e la Scozia.

Ad Urbano VI, invece, rimasero fedeli l’Imperatore Carlo VI, l’Italia centrale e settentrionale, l’Inghilterra, l’Ungheria, la Germania settentrionale ed i Regni Scandinavi. Urbano scagliò la scomunica contro Clemente, che rispose con la medesima arma e si continuò nello sconquasso generale, ogni parte convinta dell’autorità e della legittimità del proprio Papa, si arrivò ad avere ben 3 Papi a governare la Chiesa, anche se in realtà non è così, infatti il Papa è sempre uno e gli altri due erano quindi antipapa.

Alberico morì presso Perugia nel 1409, la Romagna lo ricorda con il Palio di Alberico a Barbiano. Inoltre Alberico da Barbiano fu anche un incrociatore della Regia Marina, battezzato così proprio in onore del condottiero. Clemente VII fu tristemente noto come il boia di Cesena, perché i suoi “brettoni” avevano messo a ferro e fuoco la città romagnola. Fu per ordine del cardinale, futuro antipapa, che le milizie bretoni che lo sostenevano, furono accolte nella città. In cambio dell’accoglienza ricevuta, le truppe depredarono la popolazione, seminando violenza in città e nelle campagne.

Esasperati i cesenati si ribellarono, uccidendo qualche centinaio di soldati bretoni. La risposta del cardinale non si fece attendere, dapprima finse di comprendere il punto di vista dei cesenati, ma nel frattempo mandò a chiamare il condottiero Giovanni Acuto, che era di stanza a Faenza, con i suoi mercenari inglesi. L’esercito ingaggiò un conflitto con i cesenati che erano disarmati perché rassicurati dalle parole del cardinale, che invece volle fermamente che gli abitanti sconfitti venissero trucidati.

I soldati non uccisero solo uomini, ma anche donne e bambini, pare fossero macellate circa cinquemila persone. Le truppe bretoni rimasero fino ad agosto continuando nei loro saccheggi. Cesena ricorda il misfatto nella toponomastica con la Piazzetta Cesenati del 1377.

Paola Tassinari

Redazione Romagna Futura

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Gli ex voto sul Monte

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L’imponente complesso dell’abbazia di Santa Maria del Monte, è uno dei nomi con cui comunemente si indica la Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, sorge sul colle Spaziano, a Cesena. La Basilica è a pianta rettangolare, ad unica navata, con sette cappelle laterali; la navata e il  presbiterio sono su livelli differenti, collegati fra loro da uno scalone centrale, affiancato da due laterali discendenti verso la cripta. La cupola fu  opera di Francesco Morandi detto il Terribilia, chiamato così dopo la costruzione dell’Archiginnasio a Bologna, che ornò con finestre dai terrificanti mascheroni antropomorfi e animaleschi. La decisiva trasformazione della Basilica di Santa Maria del Monte nel corso del sec. XVI, non fu determinata solo da esigenze architettoniche, ma anche per sancire fermamente il culto alla Madonna (le spoglie del patrono San Mauro furono traslate da questa abbazia alla cattedrale). Il fabbricato comprende la chiesa e il  monastero con due chiostri. Nella navata ogni cappella è abbellita da varie decorazioni, anche pittoriche, tra cui una “Annunciazione” di Bartolomeo Coda e una bella pala di Francesco Francia: “Presentazione di Gesù al Tempio”. Lungo tutto il fregio della navata, in una fascia continua, gli affreschi di Girolamo Longhi, quattordici scene della Vita di Maria, intercalate da angeli, profeti e sibille. Dietro l’altare maggiore vi è un bellissimo coro ligneo con rappresentazioni di personaggi biblici o allegorici. Il patrimonio unico e speciale conservato nella basilica è rappresentato dalla raccolta degli ex voto alla Madonna. Si tratta di oltre 690 tavolette dipinte in varie epoche, raccolte in 14 bacheche. Gli ex voto che potremmo definire naif, presentano scenari diversi, salvataggi da cavalli imbizzarriti, da nubifragi, incarcerazioni, alluvioni, incendi, cadute, travolgimenti da alberi, rovesciamenti di carri, inondazioni, cadute dalla scala e poi tanti ammalati e morenti, innumerevoli scenette di catastrofi con cui si chiede grazia. Alcuni un po’ infantili di mano inesperta, altri ben dipinti, vi si riconosce il pennello di un artista, ma tutti ugualmente importanti per capire un po’ di più la storia e le vicissitudini dell’epoca. Si va dalla malattia di un uomo del Quattrocento, a un incidente tra una Vespa e un’automobile; a Cesena, questa tradizione è iniziata nel XV secolo e continua ancora oggi. Ex voto è una locuzione latina, si potrebbe tradurre“da promessa fatta”, dono offerto, in questo casa alla Madonna, per grazia ricevuta o in adempimento di una promessa fatta, indipendentemente dal risultato sperato. Vi sono ex voto riconducibili a fatti avvenuti, altri dalla  descrizione oscura. Uno raffigura la comunità di Cesena in festa, che accoglie il Papa in visita alla città, che va loro incontro. L’evento raffigurato è la recente visita del Pontefice alla Romagna e alla città di Cesena ove soggiornò, nel monastero benedettino. Un altro dipinto raffigura gli internati in un campo di concentramento dell’ultima guerra mondiale. Un altro presenta una carrozza mentre precipita, con tutti gli occupanti, nel porto canale di Cesenatico davanti alla chiesa parrocchiale. Poi l’immagine di  una sala operatoria in cui è in corso un intervento chirurgico. Sullo sfondo le “due torri” identificano il luogo con Bologna. E poi una palla di cannone centra una casa e sfiora una donna che sta per chiudere una finestra. O ancora, due velieri finiscono contro gli scogli e stanno per inabissarsi. Alcuni uomini cercano di guadagnare la riva su delle scialuppe mentre altri due, sulla riva, attendono l’arrivo dei compagni. Veri e propri sguardi su un passato più o meno remoto, molte pagine della storia locale sono state scritte grazie alle immagini giunte fino ai giorni nostri. C’è anche l’ex voto dedicato al famoso ciclista Marco Pantani. Il campione si erge sulla bicicletta con la maglia e la bandana rosa in testa, si volge indietro a guardare la Madonnina che veglia su di lui, con questa scritta: “Perché non cadiamo nell’abisso della disperazione, perché non affondiamo nelle sconfitte, Dio ci ha messo nel cuore il sentimento dell’amicizia. Agosto 2001”

immagine: ex voto

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 21/09/2015 

 

LA GRANDE SELVA CESENATE

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Cesena e i suoi dintorni furono abitati fin dall’età neolitica, le ipotesi sulle origini del suo nome sono varie, la più probabile è che derivi dal latino caesa, tagliata, che fa riferimento alla presenza sul territorio di una grande selva abbattuta. Il primo nucleo abitativo di Cesena sorge con ogni probabilità per opera degli Umbri intorno al VI-V secolo a. C. Sopraggiungono poi i Galli di cui  rimangono tracce nella lingua e nell’economia (allevamento e ortofrutta) altro non rimane, in quanto i Celti  costruivano capanne, non ponti e murature e non usavano la scrittura. Cesena entra   nella storia con la dominazione romana, avvenuta insieme alla conquista della Valle del Savio tra il III e il II secolo a.C. Ma vediamo un po’ la storia della selva “caesa” e dell’arrivo dei Romani. Secondo alcuni  storici la Selva Litana era compresa tra il Rubicone e il Po e i lavori di disboscamento, necessari per l‘apertura della via Emilia (in epoca romana) l’avrebbero distrutta. Livio, lo storico romano, racconta di una enorme foresta, chiamata Litana dai Galli, attraverso la quale Postumio Albino, console romano, voleva farvi passare l‘esercito. Negli alberi di quella foresta i Galli praticarono tagli in modo da lasciarli dritti, ma che cadessero al minimo urto. Postumio aveva circa venticinquemila uomini, nel momento in cui l’esercito entrò nella foresta, i Galli diedero una spinta agli alberi tagliati. Questi crollarono l‘uno sull‘altro, seppellendo le legioni. I Galli che erano appostati tutti intorno alla selva, massacrarono chi riuscì ad uscire dal bosco. Postumio cadde lottando e i Galli usarono la sua testa per farne una coppa per libare agli dei. Era usanza per i Celti decapitare il nemico valoroso, ripulirne la testa, svuotarla, ornarla di oro e usarla come contenitore sacro, forse per le pozioni  taumaturgiche dei Druidi. La Selva Litana sarebbe stata attraversata anche da Giulio Cesare. Ai tempi di Cesare però gran parte di questa selva era stata già abbattuta; malgrado ciò nella parte rimasta Cesare sembra si sia smarrito. Gambettola, distante da Cesena circa dieci  chilometri, un tempo si chiamava “Bosco” ciò  deriva probabilmente dalla Selva Litana, ovvero del  “bosco sacro” dei Galli. Naturalmente non si sa con sicurezza dove fosse la Selva Litana, uno studioso reggiano ipotizza che la battaglia nella Selva Litana sia stata combattuta vicino a Reggio Emilia stabilendo un interessante collegamento tra San Donnino ed il culto delle teste tagliate dei Galli.Donnino era un martire cristiano morto durante le persecuzioni  nel 304 d.C. circa. Era un militare al servizio dell‘imperatore, quando scoprirono che era cristiano fuggì, ma fu raggiunto e gli fu tagliata la testa con una spada. La leggenda narra che San Donnino raccolse la propria testa e la depositò nel luogo dove ebbe la sepoltura. Viene raffigurato con la palma del martirio, in abito militare, con il capo tronco fra le mani, a volte con un cane; questa devozione deve essere antica, poiché è attestata da un racconto della passio, secondo il quale il Santo guarì un idrofobo, dandogli da bere acqua e vino, dopo averla benedetta e aver invocato il Signore. Decifrando la storia di Donnino, possiamo scrivere di una decapitazione con seguente raccolta della testa che diviene reliquia taumaturgica. I Druidi erano ritenuti dei “santoni” con conoscenze sulla natura sterminate, non è impossibile che conoscessero davvero un antirabbico, non è ancora accertato scientificamente ma  pare che la rosa canina si chiami  così  perché l’infuso delle sue radici curerebbe la rabbia. Il culto di Donnino è legato al territorio di Fidenza (Parma),di cui è patrono… ma c’è un Donnino anche in Romagna. L‘antica Fiera di San Donnino, risale al 1849, caduta in disuso circa mezzo secolo, si svolgeva a Rocca San Casciano. La fiera era dedicata in particolare al mercato di bestiame e di prodotti agricoli. Da qualche anno il paese fa di nuovo festa intorno all’antica abbazia di San Donnino in Soglio, cercando di valorizzare i prodotti  di tutto l’Appennino forlivese, come avveniva  un tempo, quando affluivano merci, bestiame e persone da tutta la Romagna Toscana.  

immagine: San Donnino

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 24/02/2014

IL VERO FISCHIO DI CESENA

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Il legame fra Cesena e San Giovanni affonda le radici nei secoli. Fin dal Medioevo è testimoniata la devozione a questo santo, che è patrono della città insieme alla Madonna del Popolo. Secondo alcune tradizioni, per altro non suffragare da fonti storiche, a Cesena il culto di San  Giovanni Battista sarebbe  arrivato, tramite un gruppo di fiesolani nel Medioevo. In onore a San Giovanni, si ripete da secoli, attirando tanti visitatori, la grande fiera di Cesena che coincide con l’inizio dell’estate. Sono soprattutto due  prodotti della terra a contraddistinguere l’appuntamento di fine giugno: la lavanda e l’aglio. Venduti l’una in grandi mazzi odorosi, l’altro in lunghe ghirlande. La loro presenza è legata a suggestive tradizioni agresti e credenze popolari, che in qualche modo sopravvivono ancora. Per le casalinghe del passato San  Giovanni era l’occasione per far provvista delle profumate spighe, capaci di debellare le insidiose tarme nemiche dei panni riposti  negli armadi. E l’aglio, oltre che prezioso ingrediente in cucina, rappresentava il rimedio per alcune  malattie diffuse nelle campagne, oltre che essere amuleto contro vampiri e malocchio. Un antico profumo di incantesimo e stregoneria  permea la notte  di San Giovanni, è la notte  più breve  dell’anno. Secondo una  soave credenza, in questa notte, fra il 23 e il 24 giugno, le fanciulle in età da marito avevano la possibilità di vedere, nei sogni, l’uomo che avrebbero sposato: bastava che si bagnassero gli occhi con la rugiada.Ma la tradizione più bella di questa fiera è  il fischietto di San Giovanni, di colore rosso, a forma di ochetta, il colore è determinato dal fatto che rappresentava un dolce omaggio per la “filarina”. Il fischietto in terracotta raffigurava normalmente forme di uccelli. Il primo stampo del fischietto di Cesena era quello di un gallo, tipico simbolo romagnolo. Però il gallo era ed è anche l’emblema di Forlì. Urgeva trovarne un altro per Cesena. Ed ecco la piccola oca, in omaggio alla Val d’Oca, rione del centro cittadino così chiamato perché anticamente era una zona paludosa popolata da oche. Bei tempi andati, quando in queste  feste di paese il ragazzo regalava alla sua bella il  fischietto di zucchero rosso…  con tutti i sottintesi nascosti.

immagine: bancarella coi fischietti di Cesena

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”