Baccarini e la sua Bitta: “La Bohéme” romagnola

Baccarini e la sua Bitta: “La Bohéme” romagnola

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 12 Giu 2018, 16:56

Il dramma lirico de “La Bohéme”, di Giacomo Puccini, racconta la vita e le storie d’amore di giovani e poveri artisti. Siamo a Parigi, nel 1830, in una misera soffitta, quattro giovani conducono una vita dove spesso si digiuna, ma ricca d’amore e d’arte. Nell’opera si dipanano delle storie d’amore fra cui quella di Rodolfo e Mimi, che si conclude con la morte di quest’ultima.

Henri Murger scrisse, tra il 1847 e il 1849, “Scène del la vie de bohème”. Un’opera che si snoda attorno alla vita di un gruppo di giovani artisti lontani dalle convenzioni e disinteressati dall’opinione che altri potevano avere di loro, l’ideale bohèmien, un modo di vivere alla giornata. Il mondo degli artisti che vivono in modo anticonformista e libero, che ha Parigi come fulcro, da metà Ottocento a inizio Novecento e che ha dato quel particolare sapore romantico alla città francese. In quegli anni pare che tutto accada a Parigi, eppure in Italia settentrionale c’erano gli “scapigliati” ribelli e anticonvenzionali e in Romagna si dipana una storia d’amore che ha lo stesso allure parigino.

Una trama di quelle lacrimevoli e struggente, a cui si vorrebbe tanto cambiare il finale. Lui Domenico Baccarini (1882/ 1907), detto Rico, nasce a Faenza, il padre ciabattino, la madre che per sbarcare il lunario, vende pizza fritta. Rico è bello, lo sguardo fiammeggiante e ombroso, non doveva avere un carattere facile. Rico è dotato, molto dotato, il disegno, la pittura, la scultura e anche la ceramica, sono magistralmente creati, con linee intense, avvoltolate come serpi, con luci e ombre, linee che si muovono tra il Liberty e il Simbolismo. Se nei disegni in bianco e nero traspare la disperazione e il dolore, le ceramiche policrome sono inneggianti alla bellezza della natura e di bambini colti in atteggiamenti giocosi.

E poi ritratti, tanti ritratti, del suo amore, la Bitta. C’era un ballo, una notte del 1903, a Faenza. In mezzo alla folla, una ragazza bionda e alta, con gli occhi azzurri incrociò lo sguardo di Rico. Era lei Elisabetta Santolini (1884/ 1909), detta Bitta, l’amore scoppiò incendiandoli. La Bitta faceva la filandaia, povera in canna come Rico. Rimase incinta andò a vivere con il suo compagno, a casa dei suoi genitori a Faenza, dando scandalo. Nel frattempo Domenico si aggiudicò la medaglia d’oro per la scultura, a Ravenna “all’Esposizione Emiliano Romagnola di Belle Arti”. Fu in quell’occasione che il busto della Bitta venne acquistato dal Comitato dell’Esposizione, oggi si trova al Museo d’Arte di Ravenna.

La passione tra Domenico e la Bitta finì male, lui gravemente ammalato di tubercolosi, da lì a poco morirà, lei lo abbandona. Una sera del 1906, la Bitta partecipò ad un veglione di Carnevale, ad Imola, qui incontrò Amleto Montevecchi e fu colpo di fulmine. Ancora un pittore, povero e bello, ma non certo bravo come Baccarini. Mentre Domenico, a soli ventiquattro anni stava morendo per tubercolosi, la Bitta partoriva figli a Montevecchi, uno dei quali morì per malnutrizione. La Bitta fu trovata agonizzante su di una panchina a Cervia, un giorno del 1909, era andata al mare per riprendersi in salute. Non ebbe neanche una degna sepoltura, i suoi resti finirono nell’ossario comune.

Un amico di Baccarini disse di lei: “Una femmina con molto sesso ma poco giudizio”. Aveva ragione, la Bitta bellissima poteva sposarsi o essere l’amante di un riccone e vivere negli agi, preferì invece amare molto. Nessuno dei due suoi grandi amori la rese una donna onesta. Né Domenico, né Amleto la sposarono, anche se quest’ultimo a parole la rimpianse per tutta la vita. Qualcuno ha detto… “sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato” e qualcun altro ha scritto… “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende /Amor, ch’a nullo amato amar perdona”.

La breve vita di Baccarini non è stata effimera, fu il riferimento per i coetanei compagni di studio faentini poi accomunati sotto il titolo di “Cenacolo baccariniano”: Ercole Drei, Domenico Rambelli, Francesco Nonni, Giovanni Guerrini e Giuseppe Ugonia, tra gli altri. Le sue opere parlano per lui e la Bitta è diventata immortale. Diverse immagini della Bitta, sono conservate nei musei di Ravenna e Faenza.

Paola Tassinari

Redazione Romagna Futura

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Centenario di Francesco Baracca, l’Asso degli Assi

Centenario di Francesco Baracca, l’Asso degli Assi

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 15 Giu 2018, 14:46

 

Lugo, per qualcuno è il centro della Romagna. Il toponimo probabilmente deriva da Lugh, il dio celtico del sole, della luce e del cielo. Vista dall’alto la pianta di Lugo ha il profilo di un aeroplano; la città sorse sull’incrocio di due assi viari, ha perciò la forma di una croce. Forse era dunque destino che a Lugo nascesse Francesco Baracca, il pioniere dell’aria, che per le sue azioni di guerra, fu insignito da una medaglia di bronzo, tre d’argento e infine una d’oro.

Quest’anno, cade il centenario della sua morte. Numerosi sono stati gli eventi organizzati a Lugo, che culmineranno con quello previsto per il 19 giugno, giorno dell’anniversario della morte dell’Asso degli Assi (fu a capo della squadriglia degli assi costituita da grandi aviatori, scelti da Baracca in persona), con l’esibizione nel cielo di Lugo delle Frecce Tricolori. Sempre a Lugo, il 2 giugno, in concomitanza col giorno delle celebrazioni della Repubblica italiana, vi è stato il trasferimento del sarcofago dell’eroe, sino a Piazza Baracca, per l’alzabandiera e i festeggiamenti; in seguito esposto, rimarrà fino al 25 giugno, all’interno dell’Oratorio di Sant’Onofrio.

Baracca, morì nel trevigiano, a Nervesa. Il suo aereo, su cui era dipinto un “cavallino rampante”, fu ritrovato sulle pendici del Montello. In quei giorni era in corso una delle più violente battaglie della Prima guerra mondiale: quella decisiva. Si decise di martellare le trincee nemiche con l’aviazione. Baracca non fece ritorno: morì a trent`anni, il 19 giugno 1918, combattendo per l’unità d’Italia. Il suo corpo fu trovato solo cinque giorni dopo, accanto al velivolo arso dal fuoco. La salma illesa dall’incendio presentava un’unica ferita sulla tempia destra, un foro prodotto da un colpo di pistola; si è ipotizzato che Baracca abbia mantenuto fede a ciò che aveva ripetuto spesso… piuttosto che cadere vivo nelle mani del nemico, mi ucciderò.

Sulla vita di Baracca si conosce ben poco, la madre la contessa Paolina Biancoli, faceva parte dell’altaborghesia, il padre Enrico era un conservatore. Baracca fu uno studente diligente ma non fra i primi, non aveva interesse né per la cultura né per la politica. Eccelse nell’aviazione, ma era schivo e non gli piaceva apparire, nonostante questo divenne molto popolare, addirittura lo fu anche fra gli aviatori nemici.

Il Ventennio osannò Francesco Baracca, paragonandolo all’Ettore omerico, entrambi domatori di cavalli (Baracca fece parte della Cavalleria) entrambi morti per la Patria. Le esequie di Baracca si svolsero il 26 giugno a Quinto di Treviso: l’elogio funebre fu pronunciato da Gabriele D’Annunzio… L’ala s’è rotta e arsa, il corpo s’è rotto e arso. Ma chi oggi è più alato di lui?

Il 28 il feretro giunse a Lugo, fu il re in persona che volle che la salma fosse trasportata direttamente dalla zona di guerra alla sua città natale. Il 30, ebbero luogo i funerali, davanti ad una folla imponente. Subito dopo la morte di Francesco Baracca, si decise per l’erezione di un monumento, la cui progettazione fu affidata allo scultore faentino Domenico Rambelli. Il monumento, fu inaugurato il 21 giugno del 1936 alla presenza del Duca d’Aosta e dei massimi gerarchi del regime. Presenta una maestosa ala che si innalza come gli antichi obelischi egizi, sui fianchi dell’ala sono scolpiti i simboli dei reparti cui Baracca appartenne, la Cavalleria e l’Aeronautica: il cavallino rampante col motto “Ad Maiora” e l’Ippogrifo.

Accanto all’ala, una statua in bronzo rappresenta Francesco Baracca in tuta da aviatore, non in posa eroica, anzi sembra che stia lì con nonchalance, tratto tipico dei lavori di Rambelli, è alta m. 5,70 e issata su un basamento che reca le date e le località delle vittorie dell’aviatore. Sicuramente una pregevole ed originale opera d’arte. Due piccole curiosità. Nel 1923, la madre di Baracca diede ad Enzo Ferrari l’autorizzazione ad utilizzare l’emblema del cavallino rampante, che ancora oggi corre sulle Ferrari. Se avete visto altre sculture di Rambelli, come ad esempio il “Fante che dorme”, a Brisighella, e vi siete chiesti che cosa vi ricordava… Rambelli può considerarsi l’antesignano delle donne ciccione di Ferdinando Botero.

Paola Tassinari

Redazione Romagna Futura

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