Baccarini e la sua Bitta: “La Bohéme” romagnola

Baccarini e la sua Bitta: “La Bohéme” romagnola

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 12 Giu 2018, 16:56

Il dramma lirico de “La Bohéme”, di Giacomo Puccini, racconta la vita e le storie d’amore di giovani e poveri artisti. Siamo a Parigi, nel 1830, in una misera soffitta, quattro giovani conducono una vita dove spesso si digiuna, ma ricca d’amore e d’arte. Nell’opera si dipanano delle storie d’amore fra cui quella di Rodolfo e Mimi, che si conclude con la morte di quest’ultima.

Henri Murger scrisse, tra il 1847 e il 1849, “Scène del la vie de bohème”. Un’opera che si snoda attorno alla vita di un gruppo di giovani artisti lontani dalle convenzioni e disinteressati dall’opinione che altri potevano avere di loro, l’ideale bohèmien, un modo di vivere alla giornata. Il mondo degli artisti che vivono in modo anticonformista e libero, che ha Parigi come fulcro, da metà Ottocento a inizio Novecento e che ha dato quel particolare sapore romantico alla città francese. In quegli anni pare che tutto accada a Parigi, eppure in Italia settentrionale c’erano gli “scapigliati” ribelli e anticonvenzionali e in Romagna si dipana una storia d’amore che ha lo stesso allure parigino.

Una trama di quelle lacrimevoli e struggente, a cui si vorrebbe tanto cambiare il finale. Lui Domenico Baccarini (1882/ 1907), detto Rico, nasce a Faenza, il padre ciabattino, la madre che per sbarcare il lunario, vende pizza fritta. Rico è bello, lo sguardo fiammeggiante e ombroso, non doveva avere un carattere facile. Rico è dotato, molto dotato, il disegno, la pittura, la scultura e anche la ceramica, sono magistralmente creati, con linee intense, avvoltolate come serpi, con luci e ombre, linee che si muovono tra il Liberty e il Simbolismo. Se nei disegni in bianco e nero traspare la disperazione e il dolore, le ceramiche policrome sono inneggianti alla bellezza della natura e di bambini colti in atteggiamenti giocosi.

E poi ritratti, tanti ritratti, del suo amore, la Bitta. C’era un ballo, una notte del 1903, a Faenza. In mezzo alla folla, una ragazza bionda e alta, con gli occhi azzurri incrociò lo sguardo di Rico. Era lei Elisabetta Santolini (1884/ 1909), detta Bitta, l’amore scoppiò incendiandoli. La Bitta faceva la filandaia, povera in canna come Rico. Rimase incinta andò a vivere con il suo compagno, a casa dei suoi genitori a Faenza, dando scandalo. Nel frattempo Domenico si aggiudicò la medaglia d’oro per la scultura, a Ravenna “all’Esposizione Emiliano Romagnola di Belle Arti”. Fu in quell’occasione che il busto della Bitta venne acquistato dal Comitato dell’Esposizione, oggi si trova al Museo d’Arte di Ravenna.

La passione tra Domenico e la Bitta finì male, lui gravemente ammalato di tubercolosi, da lì a poco morirà, lei lo abbandona. Una sera del 1906, la Bitta partecipò ad un veglione di Carnevale, ad Imola, qui incontrò Amleto Montevecchi e fu colpo di fulmine. Ancora un pittore, povero e bello, ma non certo bravo come Baccarini. Mentre Domenico, a soli ventiquattro anni stava morendo per tubercolosi, la Bitta partoriva figli a Montevecchi, uno dei quali morì per malnutrizione. La Bitta fu trovata agonizzante su di una panchina a Cervia, un giorno del 1909, era andata al mare per riprendersi in salute. Non ebbe neanche una degna sepoltura, i suoi resti finirono nell’ossario comune.

Un amico di Baccarini disse di lei: “Una femmina con molto sesso ma poco giudizio”. Aveva ragione, la Bitta bellissima poteva sposarsi o essere l’amante di un riccone e vivere negli agi, preferì invece amare molto. Nessuno dei due suoi grandi amori la rese una donna onesta. Né Domenico, né Amleto la sposarono, anche se quest’ultimo a parole la rimpianse per tutta la vita. Qualcuno ha detto… “sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato” e qualcun altro ha scritto… “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende /Amor, ch’a nullo amato amar perdona”.

La breve vita di Baccarini non è stata effimera, fu il riferimento per i coetanei compagni di studio faentini poi accomunati sotto il titolo di “Cenacolo baccariniano”: Ercole Drei, Domenico Rambelli, Francesco Nonni, Giovanni Guerrini e Giuseppe Ugonia, tra gli altri. Le sue opere parlano per lui e la Bitta è diventata immortale. Diverse immagini della Bitta, sono conservate nei musei di Ravenna e Faenza.

Paola Tassinari

Redazione Romagna Futura

Redazione Romagna Futura

Kenneth Clark e la difesa dell’Occidente

Kenneth Clark, Barone di Clark, (Londra 13 luglio 1903-21 maggio 1983) è stato un autore britannico, direttore di musei, uno dei più noti storici dell’arte della sua generazione. Unico figlio di una ricca famiglia scozzese, con radici nel commercio tessile.

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Kenneth Clark frequentò la scuola di Wixenford, il “Winchester College” e il “Trinity College” di Oxford, dove studiò storia dell’arte.

Fortemente influenzato da John Ruskin, il critico d’arte, poeta e scrittore inglese del Romanticismo

Protetto da uno dei più influenti critici d’arte del tempo, Bernard Berenson.

Diventò rapidamente uno dei più autorevoli critici dell’arte britannica.

Nel 1933 all’età di 30 anni, fu nominato Direttore della National Gallery.

Il più giovane a ricoprire questa carica.

Un Barone che vestiva sempre in modo impeccabile, che non solo aveva ereditato una fortuna, ma l’aveva sempre accresciuta comprando e vendendo opere d’arte.

 

Venne nominato Sir e poi Lord, pochi storici dell’arte sono stati così omaggiati e allo stesso tempo invisi come lui.

Kenneth Clark sapeva capire e soprattutto sapeva trasmettere la sua conoscenza in modo semplice.

Aveva capacità di giudizio, non solo sull’arte, ma anche sulla vita e sull’individuo, di cui aveva punti fermi.

Senza nessun dubbio, per questo era poco amato, perché in un mondo relativo dove non ci sono più punti fermi, Kenneth Clark, calmo, eutrapelico, sicuro di sé ti snocciolava l’etica e da vero moralista ti diceva chiaro e tondo…è così!

Clark fu un docente infaticabile sia in ambienti accademici che in trasmissioni televisive.

La sua competenza fu quella di rendere accessibile una materia complessa e profonda, in modo tale che fosse apprezzata da un pubblico più ampio.

Nel 1969, presentò per la BBC, Civilisation: A Personal View.

Una serie di video conferenze, sulla storia della civiltà occidentale vista attraverso la storia dell’arte.

Civilisation è stata trasmessa, oltre che in Italia, anche negli Stati Uniti, ottenendo grande successo.

Ritagliando a Clark un profilo internazionale.

Civilisation fu ideata in contrappunto alle crescenti critiche della Civiltà Occidentale, al suo sistema di valori e ai suoi eroi.

Nell’esordio, Clark riferisce una citazione di Ruskin.

“Le grandi nazioni scrivono la loro storia in tre libri, quello delle loro azioni, quello delle loro parole e quello della loro arte, non uno di questi libri può essere compreso se non abbiamo letto gli altri due, ma dei tre l’unico affidabile è l’ultimo”.

Nel 1955, Clark acquistò il Castello di Saltwood nel Kent.

Barone di Saltwood, che in inglese si può tradurre con “legna/salata”.

Ciò fa pensare al fuoco per riscaldare ma anche a quello della passione e, pure alla legna come materia prima per l’artigiano, legna legata alla conoscenza teorica e pratica.

Esiste una forte somiglianza tra il sostantivo “scienza” e “legna”, in tutte le lingue celtiche.

Il significato di legna si può metaforicamente traslare al legnare, con senso di bastonare.

Non sto poi a lucrare sui significati molteplici del sale, “avere sale in zucca”, significa avere saggezza e buon senso, quindi il titolo di barone di Saltwood si può simpaticamente tradurre, adattandolo a Clark: la scienza e la passione del legno, che uniti alla saggezza e al buon senso del sale, legnano il nichilismo e il relativismo.

L’autorevolezza di Kenneth Clark, noto critico dell’arte inglese, è definita dalle sue onorificenze.

Nel 1938 fu ordinato Cavaliere Commendatore del Molto Onorevole Ordine del Bagno (KCB), ordine cavalleresco britannico.

Nel 1959, Kenneth fu insignito dell’Ordine dei Compagni d’Onore. 

Ordine Cavalleresco vigente nel Regno Unito e nel “Commonwealth”, di cui fa parte anche la sovrana Elisabetta.

Nel 1976 Kenneth fu nominato per l’Ordine al Merito.

Un’Ordine che dà riconoscimento per meriti speciali nel campo scientifico, artistico, letterario, militare e culturale.

Oggi, oltre alla regina Elisabetta II, solo ventiquattro membri viventi sono insigniti del titolo.

Nel 1959, Kenneth ricevette L’Ordine al Merito della Repubblica Austriaca o Gran Decorazione d’Onore.
                                                                                                                                     Paola Tassinari

IL MISTERO DI ARCADIA

Felice Giani

“Et in Arcadia ego” è una scritta riportata in alcuni importanti dipinti del Seicento e oltre. E’ presente nel quadro “I pastori di Arcadia”, (1640 ca.) del pittore francese Nicolas Poussin, in un’opera del Guercino (1620 ca.), e in tre immagini di Felice Giani; quest’ultimo lavorò moltissimo in Romagna, in particolare a Faenza e un olio su tela (1800 ca.), cm 26 x 36, con l’oscura scritta, si conserva alla Pinacoteca di Faenza. Tutti e tre i pittori sono stati spesso considerati degli iniziati ai Misteri. La frase può tradursi: “Anche in Arcadia io”, viene sottinteso il verbo per cui il significato può essere: “Io sono presente anche in Arcadia” oppure “Anche io ero in, facevo parte dell’Arcadia”. L’Arcadia è il mito di una terra campestre e idilliaca, dove uomini e natura vivono in perfetta armonia. Nell’immagine conservata a Faenza, di Giani, più che alla presenza di pastori si può pensare alla raffigurazione di Orfeo e Euridice e la scritta appare su un muro, mentre nel dipinto di Poussin, appaiono, tre pastori che sembrano eroi, e una donna mentre sono in raccoglimento intorno a una misteriosa tomba con l’enigmatica epigrafe. Generazioni di studiosi, ricercatori, interpreti fantasiosi, dilettanti allo sbaraglio hanno fornito una miriade di possibili significati iconologici e di fantasiosi anagrammi. La tesi che lega questi dipinti con la medesima epigrafe, a Rennes le Chateau, è che il sepolcro rappresentato sarebbe la tomba di Cristo, seppellito non in Palestina, bensì a Rennes Les Chateau, dove Cristo, sfuggito al Supplizio si sarebbe rifugiato con la sua compagna Maria Maddalena, dando vita ad una stirpe di sangue reale, “sang real”, ovvero il sangue della discendenza di Gesù, il vero graal, i cui segreti sarebbero stati conservati da una setta, il Priorato di Sion che aveva fra i suoi Gran Maestri, anche artisti famosi come Leonardo da Vinci, che avrebbero poi criptato nei loro dipinti il segreto. Vi è inoltre un’altra ipotesi che indicava come possibile fonte per la tomba del dipinto, un sepolcro rinvenuto negli anni’70, piuttosto antico, fra la vegetazione di una località vicino al paese di Rennes les Chateau. Esistono poi una serie di intricati enigmi, irrisolvibili, che si intrecciano con Rennes le Chateau e l’epigrafe “Et in Arcadia Ego”, tra cui il mistero della Porta Alchemica, (si trova a Villa Palombara a Roma), di cui l’abate Sauniere aveva una raffigurazione, lo stesso marchese di Palombara, amico di Cristina di Svezia, altra appassionata di esoterismo e alchimia, facevano parte di un’Accademia culturale che si rifaceva ai temi dell’Arcadia. Il mistero si infittisce con l’alchimista Francesco Giuseppe Borri, una specie di Cagliostro,   la leggenda racconta che dimorò per una notte nei giardini della villa alla ricerca di una misteriosa erba capace di produrre l’oro; al mattino era già scomparso, ma lasciò dietro di sé alcune pagliuzze d’oro e una misteriosa carta piena di enigmi e simboli magici. Il marchese fece incidere sui muri della villa il contenuto del manoscritto coi simboli e gli enigmi, nella speranza che un giorno qualcuno sarebbe riuscito a decifrarli. Tutto ciò si collega al misterioso manoscritto Voynich, un codice illustrato risalente al XV secolo non ancora decifrato, alla corte “magica” di Praga, all’artista liberty Alfons Mucha per finire con l’enigmatico dipinto del Giorgione: La Tempesta. Questa bailemme sarebbe decifrabile tramite l’opuscolo del Serpente Rosso, un libriccino criptico, che si compone di 13 pagine, svelerebbe tutto l’arcano legato nientemeno che alla favola della Bella Addormentata di Perrault e a tutta una serie di società segrete. Il tredicesimo capitolo del romanzo “Il pendolo di Foucault” di Umberto Eco, che tratta sulla ricerca del sacro graal e la storia dei cavalieri Templari, inizia con la frase: Et in Arcadia Ego… e il noto saggista e scrittore Eco di temi misteriosi e oscuri se ne intendeva.

immagine: Et in Arcadia ego – Felice Giani

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 21/02/2017

 

 

 

 

GLI ARCHETIPI DEL TEMPO

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Nelle aree montuose più impervie, sembra a volte che siano sopravvissute, in età cristiana, reminiscenze magico-religiose pre o proto-storiche, reminiscenze superstiziose mai completamente dimenticate. Senza entrare nel dettaglio si può sottolineare, il paganesimo di questi luoghi, da certi toponimi, come nella zona attorno a Rimini, il caso delle Grotte di Onferno, un tempo Inferno, oppure certe feste, come la Notte delle Streghe a San Giovanni in Marignano, dove sembra abitasse un tempo, Artemisia la strega buona. Questi luoghi erano ritenuti infestati di streghe, inganni e superstizioni fin dal Medioevo. Si può notare, come nel folklore, siano rimasti riti legati alle streghe, alle lamie, ai capri, questi ultimi nella festa di San Martino. Ve ne sono anche che ricordano “l’omo salvatico” e tutti questi personaggi hanno alcuni tratti che si collegano con il tempo atmosferico e con gli astri. L’omo salvatico è una sorta di benigno Yeti, profondo conoscitore e maestro della pastorizia e della lavorazione dei relativi prodotti. Ha un particolarissimo rapporto con le condizioni meteorologiche: esegue sempre il suo lavoro con il sole, la pioggia e la neve, ma fugge terrorizzato quando tira vento, per lui vero e proprio maltempo. Le lamie erano spesso spettri meridiani, ossia comparivano alle due estreme ore della giornata, mezzogiorno e mezzanotte. L’ariete è l’animale /totem della preistoria. Esso fa parte di quella gamma di animali cornuti addomesticati, che erano la ricchezza dei pastori neolitici, assieme al bue o al toro. Questi ultimi affascinano ancora l’immaginario popolare della Romagna, c’è un detto che dice, “I a bu i bu” ( hanno bevuto i buoi) al singolare bo al plurale bu (sembra un linguaggio neolitico), “I bu”, è pure il titolo di una raccolta di poesie di Tonino Guerra. Ma torniamo alla simbologia, in un ambito diverso ritroviamo la medesima rappresentazione, Abramo, fermato da Dio, sacrificò un ariete al posto di Isacco, è forse testimonianza del passaggio dal sacrificio umano a quello animale. Sembra esserci una certa differenza tra l’ariete ed il capro: il primo è emblema di bontà e perfezione, mentre il secondo di lussuria e malignità, fino a figurare il diavolo nel sabba delle streghe. Povere capre sono così simpatiche, puzzano un po’ è vero, ma non mi sembra che per questo possano essere viste come malvagie, mentre gli ovini debbano essere sempre visti come buoni, la differenza non cambia però, perché vengono uccisi e mangiati entrambi. Il capro è anche animale “tragico”. Tragedia significa letteralmente “canto del capro”, pare che derivi dai canti che accompagnavano il sacrificio di questo animale a Dioniso e dalle relative processioni. Infine il corno o le corna sono simbolo di potenza, dotati di corna erano i seguenti dei: il celtico Cernunnos con corna di cervo, gli egizi Hator ed Amon (quest’ultimo con testa d’ariete), la semitica Astarte (Isthar, Iside, Tanit, ecc.).Nei giorni del Carnevale, a Roma si celebravano i Lupercalia, riti di carattere purificatorio con forti tratti pastorali, sotto il patrocinio del dio Fauno, al quale veniva sacrificata una capra per propiziare la fecondità delle greggi. Il culto di Fauno venne in seguito sostituito da quello di un dio, di umile origine, Silvano che in certe raffigurazioni è immagine di Cristo. A queste rappresentazioni si collega l’omo Salvatico la cui leggenda perdura sino al Medioevo. Chiamato anche Green Man solitamente è associato alla Regina di Maggio, legato quindi anche ai riti celtici del 1° Maggio. Dal capro siamo arrivati a questo leggendario Robin Hood o uomo selvatico, il cui agire viene dalla natura, un archetipo che appare nella coscienza umana quando serve. L’omo salvatico non deve essere soggiogato, deve essere solo addolcito dalla sua regina di Maggio. Il Green Man romagnolo, racconta la leggenda, si chiamava Agnolaccio che è il dispregiativo di Agnolo, termine medievale per Angelo, che induce a un accostamento con l’Angelo per eccellenza, ossia San Michele Arcangelo. Sarà un caso che accanto ai Santuari di San Michele sovente vi sia accanto un Santuario dedicato alla Madonna Nera?

 immagine: Green Man

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 28/11/2016

 

 

 

 

PASSEGGIATE IN PINACOTECA

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La collezione Moderna e Contemporanea della Pinacoteca del Mar si è rinnovata, le opere di ‘800 e ‘900 di artisti quali Vittorio Guacimanni, Domenico Baccarini, il fascinoso “nudo di donna” di Klimt, le opere di Schifano, Boetti e Cattelan sono in un nuovo e luminoso percorso. Accanto a queste opere la collezione antica merita sicuramente una visita. Da vedere, la Madonna con il  Bambino e Santi, con le storie di Cristo del XIV sec. del Maestro del Coro Scrovegni, il piccolo  “tempietto” con l’Ultima  Cena e l’Orazione nell’Orto di Giorgio Klontzas, e gli artisti come Marco Palmezzano, Francesco Zaganelli, Bartolomeo Montagna, Lorenzo Monaco, Taddeo di Bartolo, Antonio Vivarini, Paris Bordon ed altri. Baldassare Carrari è ben presente con le iniziali opere ancora un po’ gotiche e dal segno secco e grave come, “La cattura di Cristo”, con un intrico di lance, spade e braghe a righe rosse e bianche per arrivare a quelle più tarde dove i tratti si addolciscono. Notevole la grande tela affollatissima di personaggi di Giorgio Vasari. Mistica la “Madonna che adora il Bambino”, di ambito forse francese, dalle belle mani giunte, gli occhi socchiusi, vestita di velluto e broccato verde e rosso, dipinto che piacque tanto al critico d’arte Federico Zeri. Poi i corpi nudi di varie opere che riprendono le fattezze di San Sebastiano infilzato da frecce, che trafiggono questo Santo che è un po’ “il bel corpo” per eccellenza nella storia della pittura. La grande tela del Guercino, fa la sua figura, con San Romualdo e un angelo che bacchetta il diavolo che sta tentando il Santo. Bella la tela piena di movimento di Cecco Bravo con Apollo e Dafne dai colori contrastanti e stridenti, uniti in una composizione a croce di Sant’Andrea. “La  Sacra Famiglia”, di pittore emiliano con un Bambinone talmente grande che pare di due anni, “Allegoria dell’Abbondanza”, del Maestro di Flora è molto originale con una figura di donna vista da tergo, e bambini che le si avviluppano tutto attorno. E poi naturalmente la star della Pinacoteca, la statua di Guidarello Guidarelli, guerriero e cavaliere morto per una camicia. Nella Pinacoteca c’è questo e molto altro ma io voglio scrivervi di un olio che non avevo mai notato nelle mie precedenti visite. Un dipinto, dalla simbologia strana, rappresenta la “Creazione dell’uomo”, di un pittore veneto del XVII secolo. Ebbene raffigura Dio che scende dall’alto con veemenza portando la scintilla ad Adamo, con accanto una capra, una scimmia, un coniglio e un cane, davvero una simbologia strana, come se Dio avesse voluto dare all’uomo le caratteristiche di questi animali. In origine, la capra era considerata l’essenza stessa della virilità, il simbolo della potenza sessuale maschile. Gli ebrei la usarono come “capro espiatorio”, cioè come mezzo per liberare il popolo dai propri peccati. Per i greci la “tragedia”, significava “canto dei capri”, poiché veniva eseguito da attori mascherati da caproni. I romani celebrarono il caprone nel dio Fauno, protettore delle campagne e delle greggi. Col tempo, e sotto l’influenza della Chiesa cattolica, il caprone è passato a rappresentare il demonio. Il coniglio e la lepre rappresentano entrambi la sessualità ardente; sono simboli lunari, sono emblema indiscusso di fertilità. Il coniglio in genere reca buona sorte, una zampa di coniglio o di lepre veniva considerata un amuleto. La natura della scimmia, è il voler imitare tutto ciò che vede fare, è l’animale più simile a noi e per il cristianesimo è simbolo di sfrenatezza sessuale. Alla figura del cane vengono associate numerose qualità che vanno dalla più totale lealtà, alla più profonda amicizia e caratteristiche come la dolcezza, la sicurezza, l’innocenza e l’altruismo, ma soprattutto il saper dimenticare e perdonare. Nell’antico Egitto, Anubi aveva la testa di un cane (o di uno sciacallo) era il custode del regno dei morti. Si può quindi ipotizzare che l’anonimo pittore veneto riconoscesse nell’uomo, per prima cosa una gran fertilità, poi un po’ di demonio, quindi l’espiazione dei peccati e un po’ di fortuna, e ancora le virtù come l’amicizia, la lealtà e l’altruismo e la capacità di saper perdonare e dimenticare, per poi infine morire.  

immagine: Nudo Gustav Klimt

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 21/11/2016

MARCOLINO PER LA PACE

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Marcolino Amanni (1317/1397) entrò giovanissimo nell’Ordine Domenicano a Forlì, visse in semplicità avendo cura dei poveri e dei bambini. Portava sempre con sé un’immagine della Madonna opera del pittore Vitale da Bologna. Attraverso questa piccola icona il Beato Marcolino avrebbe parlato con la Madonna e la Madonna con lui. Marcolino vestì l’abito a soli dieci anni, non brillò né sulla cattedra, né sul pulpito. La sua azione fu silenziosa e nascosta, la sua predica fu con gli esempi di vita quotidiana. Il suo corpo riposa nella cattedrale di Forlì. La Pinacoteca Civica di Forlì, intitolata a Melozzo degli Ambrogi, ha sede presso i Musei di San Domenico, il complesso è formato da cinque edifici: Palazzo Pasquali, Chiesa di San Giacomo Apostolo, Convento dei Domenicani, Convento degli Agostiniani e Sala Santa Caterina. Qui sono conservate opere strettamente legate a Marcolino: la sua tavoletta con l’immagine della Madonna, il sarcofago rinascimentale e chissà un giorno anche la pala del Guercino. La Madonna della Pace, appartenuta al Santo, è opera pittorica di Vitale da Bologna databile alla meta del Trecento. Vitale da Bologna, il cui vero nome era Vitale degli Equi, è stato probabilmente il più importante pittore bolognese del Trecento, si formò osservando la pittura del grande Giotto, ma fu influenzato anche dalla pittura gotica francese e dalla miniatura. Infatti nella Madonna di Marcolino si ravvisa la bellezza tipica del gotico fiorito, ravvisabile dallo sfondo decorato e dalla dolcezza degli occhi allungati della Vergine. La Madonna della Pace è legata alla “Tabula Pacis” una tavoletta dipinta con un’immagine sacra che un tempo veniva mostrata ai fedeli per il bacio della Pace (oggi si augura la Pace con una stretta di mano). L’icona  dopo un accurato restauro è stata collocata accanto all’arca marmorea del beato Marcolino. La tavola raggiunge così il sarcofago del Santo, nel luogo dove un tempo viveva e pregava. L’arca di raffinata fattura rinascimentale è dello scultore fiorentino Antonio Rossellino 1427/1479,  il cui vero nome era Antonio Gamberelli, ma fu soprannominato Rossellino per il colore dei suoi capelli. Il sarcofago marmoreo simula un edificio formato da pietre, risulta intercalato da pilastrini  decorati con linee, negli archi le immagini dei frati domenicani, fra cui Marcolino, sono ritratte realisticamente. Il coperchio presenta due angeli svolazzanti con cartiglio ed in cima vi è l’Annunciazione: l’arcangelo Gabriele dalle vesti in movimento e la Madonna che quasi nasconde il capo timorosa. Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, a causa di una menomazione all’occhio destro subita in età infantile, fu un pittore ferrarese ritenuto uno degli artisti più rappresentativi del barocco. Nella pala d’altare di Forlì è raffigurato il Santo davanti alla Madonna con Bambino in compagnia di un angelo, colori sontuosi e movimento sono le peculiarità del dipinto che raffigura l’apparizione della Vergine che Marcolino pare avesse di notte stando in estasi. La grande tela fu rubata al tempo delle spoliazioni napoleoniche, fu considerata perduta fino a quando fortunosamente fu recuperata, oggi è a Brera. La fama di Marcolino era diffusa fra la popolazione, i suoi confratelli lo consideravano un “buono a niente”, (un po’ come il nostro detto che dice, è tanto buono che è un… quajòn). Ma il popolo che lo vedeva correre a sedare le numerose risse imponendo ai contendenti di baciare la tavoletta, lo amava. Straordinario è il fervore con la quale i forlivesi seguivano il Beato Marcolino e ancora più straordinario sono le pregevoli opere d’arte, ben tre capolavori unici, che lo riguardano a testimonianza che la bontà è il pregio più bello. I confratelli deridevano la semplicità del Santo, consideravano i suoi miracoli e le sue profezie un caso, ma il popolo lo santificava e alla sua morte, fu tale la gente accorsa, che i frati lo seppellirono di notte, ma la mattina dopo, le persone accorse incuranti dei frati lo disseppellirono. Si parla di 1200 pellegrini in un solo giorno. Avvennero molti miracoli, il suo corpo emanava profumo e per molto tempo fu viva la devozione. 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 07/11/2016

CATTELAN IL FORLIVESE

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E poi un sabato pomeriggio vai alla Galleria d’Arte M.A.F. ( Mondial Art Free, diretta da Marco Morgagni, coadiuvato da sua moglie Yoko) a Forlì, in Corso Mazzini 21, e vi trovi Rosanna Ricci, che ti incanta e ti racconta che a Forlì c’è il Palazzo del Diavolo, ohibò! E non è finita, in quel palazzo vi ha abitato per cinque anni, nientepopodimeno che Maurizio Cattelan! Quel Cattelan tanto famoso, tanto pagato, che oggi vive fra Milano e New York creando ironiche sculture, performance e “scherzi”, il tutto studiato per creare sconcerto nel pubblico, ha iniziato la sua carriera a Forlì.  Se non fosse diventato così famoso sarebbe rimasto lo “scemo del villaggio” o il “pazzo della contrada”, come accade ad altri artisti, anonimi sconosciuti, ritenuti ridicoli, pazzerelli, e in qualche caso costretti a passare qualche giorno al Servizio Psichiatrico. Maurizio Cattelan è la rivincita, la compensazione di tutti loro, è il Marcel Duchamp degli anni Duemila. Cattelan arriva in Romagna perché si innamora di una ragazza di Forlì; qui con la sua immancabile bicicletta, gironzola su e giù, lavora qui e là, facendo anche il becchino. La prima mostra è all’Oratorio di San Sebastiano, a Forlì, espone la sua camera da letto. Le idee dell’artista sono di natura goliardica, molti lo esaltano, altri lo denigrano. Eppure l’arte è anche gioco e divertimento, non so perché oggi la cultura oscilli tra una superba seriosità piena di sé e una satira cattiva, corrosiva, mi piacerebbe che l’arte fosse “eutrapelica”, parola desueta che significa gioia e buonumore, e che è l’arte difficile del far ridere e deridere con lievità. Vediamo un po’ gli “scherzi” di Maurizio. Negli anni in cui viveva a Forlì, tra il 1980/’90, furono rubate in città alcune targhe, quelle che identificano medici, avvocati e altro; queste targhe, con l’aggiunta della scritta: “Non si accettano testimoni di Geova”, vennero trovate al Guggenheim Museum di New York, facevano parte di un’opera di Cattelan. Sempre a Forlì, l’artista denunciò ai carabinieri la scomparsa di una sua opera, corredata da indizi e particolari, l’opera non fu mai trovata anche perché era intitolata: “Invisibile”. Alla Biennale di Venezia del ’93, mette in scena “Lavorare è un brutto mestiere”,   vendendo il suo spazio espositivo a un’agenzia di pubblicità . Ai Caraibi organizzò la “Sesta Biennale” che consisteva in due settimane di villeggiatura gratuita per gli artisti invitati, che non dovevano esporre nulla. Nel 1999 presentò come opera vivente il suo gallerista milanese, appendendolo a una parete con del nastro adesivo grigio, al termine della performance, il gallerista fu ricoverato al pronto soccorso privo di sensi. Destò molto scalpore una sua scultura, che ritraeva Hitler in ginocchio mentre pregava e un’altra opera che esponeva tre bambini-manichini impiccati a un albero di Porta Ticinese a Milano. L.O.V.E. (Libertà, Odio, Vendetta, Eternità), è una grande scultura, posta in Piazza degli Affari di fronte alla sede della Borsa di Milano, con tutte le dita mozzate, eccetto il dito medio, creando così un gesto osceno. Il giorno in cui l’Università di Trento gli ha conferito la Laurea Honoris Causa, Cattelan ha preparato un’installazione che consisteva in un asino imbalsamato dal titolo “Un asino tra i dottori”. La sua opera più nota: “La Nona Ora”,   scultura che raffigura Papa Giovanni Paolo II schiacciato a terra da un grosso meteorite e circondato da vetri infranti, è stata venduta per la cifra record di 886 mila dollari. L’ultima opera è di questi giorni, un water d’oro che i visitatori devono usare; “America”, questo il titolo, è ispirata alla disuguaglianza economica. Questo water lussuoso mi ricorda Luigi XIV, il re Sole, che aveva un artistico trono-gabinetto, seduto sul quale riceveva visite, defecando sempre alla stessa ora, così da permettere ai sudditi, che accorrevano numerosi, di godere della vista e del “profumo“ delle sue feci, che erano considerate come “oro colato”. Allora chi è Cattelan un furbacchione o un genio? Forse è solo un uomo che ridicolizza sempre dippiù i mali della nostra società, la quale invece di ravvedersi fa la stessa cosa dei sudditi del re Sole.  

 immagine: Multiplo Cattelan

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 26/09/2016

 

 

 

 

QUELLE VENERI UN PO’ FOLLI

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La mostra al MAR di Ravenna,“La seduzione dell’antico. Da Picasso a Duchamp, da De Chirico a Pistoletto” sarà visitabile sino al 26 giugno 2016. L’esposizione, a cura di Claudio Spadoni, documenta lo sguardo verso l’antico non solo degli artisti che vi si rivolgono quasi mutuando le grandi opere del passato, alla memoria antica, pescano a piene mani anche le avanguardie trasgressive, rivisitandola con un pensiero nuovo a volte sconcertante o inquietante. Una mostra ricca di protagonisti, De Chirico, Morandi, Carrà, Martini, Casorati, che alla fine della Prima Guerra Mondiale testimoniano il bisogno di un ‘ritorno all’ordine e al rigore’, gli artisti di Margherita Sarfatti e Sironi che invece affermano una melanconia di fondo, le opere del ‘Realismo magico’ estranianti e piene di mistero, il ‘neobarocco’, con Scipione, Fontana e Leoncillo; gli artisti della Pop Art e i rappresentanti dell’Arte Povera, e poi Duchamp, Man Ray, Picasso, Klein, ed altri ancora. Tra le opere esposte anche la famosa riproduzione della Gioconda realizzata da Marcel Duchamp, dissacrata con baffi e pizzetto. La Gioconda era allora all’apice della fama, il 22 agosto 1911, venne scoperto il furto della Monna Lisa, il quadro si riteneva perso per sempre. Si scoprì che un impiegato del Louvre, Vincenzo Peruggia, convinto che il dipinto appartenesse all’Italia e non dovesse quindi restare in Francia, lo rubò uscendo dal museo a piedi con il quadro sotto il cappotto. Comunque, la sua avidità lo fece catturare quando cercò di venderlo, il quadro venne esibito in tutta Italia e poi restituito al Louvre nel 1913 con grande clamore. Marcel Duchamp ridicolizza il pensiero collettivo ed egemonizzante con l’impalpabile leggerezza della sua fulminante ironia. Interessante soffermarsi sulla presenza delle “Veneri”; quella degli stracci di Michelangelo Pistoletto, in questa riproduzione, di una copia antica di Venere vi è già un senso di artificio, più vitalità vi è negli stracci colorati, disuguali, poveri ma allegri. Cosa voleva dire Pistoletto, sarà un po’ difficile saperlo, vi si può scorgere una teatralità dell’apparenza esagerata, una sottile inquietudine, ma anche una sottile vena ironica, soprattutto nella Venere che vi mostra il suo posteriore e vi manda… Qui un materiale povero come gli stracci acquista dignità, alla pari con la Venere. Lo straccio perde quindi un significato di materiale povero, per divenire attraverso la sua manipolazione e trasformazione elemento compositivo, in un’opera d’arte dai significati nobili. Gli elementi insiti dell’opera quindi spaziano dall’idea di riutilizzo a quello di rielaborazione, qui salta il concetto di cultura alta e di cultura bassa. La Venere di Milo a cassetti di Salvador Dalì, dove i cassetti alludono metaforicamente alle zone più profonde e segrete dell’inconscio, l’antica opera greca ideale di bellezza non è più solo un involucro. La Venere blu di Yves Klein, diventa magica perché blu, e cosa ha questo blu, è il blu unico di Klein, l’artista brevettò il suo blu, in pratica Klein è il blu di Klein. La Venere restaurata di Man Ray, aggrovigliata da corde, dove la Venere di Milo, senza braccia e senza gambe viene sommariamente restaurata con dello spago. La Venere di Andy Warhol, ci ripropone la Venere di Botticelli, un’opera talmente famosa che pensiamo di conoscere bene, quasi non la guardiamo più, troppo “popular”, ecco che Andy ci propone di osservarla bene, perché qualcosa di nuovo si può trovare proprio nell’ovvio. Ma cosa sono tutte queste Veneri perché questi artisti insistono su ciò? Erano gli anni ’60/’70, quando l’emancipazione della donna doveva portare a un mondo preferibile, tante speranze, ma come donna, oggi, tristemente mi chiedo… siamo davvero in un mondo migliore? Ci sarebbe ancora tanto da dire, ma non ho più spazio, un solo suggerimento osservate bene il video di Bill Viola e soffermatevi sull’istallazione della barca che va verso l’isola dei morti, chiaro riferimento all’isola dei morti di Arnold Bocklin, il dipinto preferito da Hitler, dove il silenzio e la desolazione immersa in un’atmosfera misteriosa ed ipnotica, è specchio della nostra pochezza.

immagine: Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto

articolo già pubblicato sul quotidiano  “La Voce di Romagna” il giorno 30/05/2016

Il destino della Coppa

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Nel1438, accompagnato da notabili e dignitari, tra i quali il patriarca Giuseppe II e il Cardinale Bessarione, Giovanni VIII Paleologo giunse a Ferrara per il Concilio ecumenico. Le circostanze che portarono il Paleologo in Italia sono ben note, sempre più vulnerabile alla pressione turca, l’impero romano d’Oriente, e la sua favolosa capitale, necessitavano dell’aiuto militare delle potenze occidentali, la cristianità intera era chiamata alla guerra santa contro gli infedeli, e il presupposto per questa crociata unitaria era la riconciliazione della Chiesa cattolica con quella ortodossa, ma l’obiettivo politico-teologico, la scintilla, il Graal come noto, fallì, solo pochi anni dopo Costantinopoli cadde, provocando un’ampia eco per tutto l’Occidente. Piero della Francesca, pittore e matematico italiano, rappresenta questo sogno infranto, nelle sue opere più famose, come la Flagellazione e la Madonna di Senigallia. Nella Madonna di Senigallia il Bimbo ha in mano un anemone bianco, chiamato anche “fiore del vento”, per la fragilità dei suoi petali, è un fiore dal significato melanconico perché richiama l’abbandono, un significato metaforico di fuggevolezza di una cosa bella, per cui il suo simbolismo intrinseco è quasi di rassegnazione ad una fine vicina, di un sentimento bellissimo ma breve. Secondo una tradizione diffusasi dopo il 1453, sul sepolcro di porfido di Costantino era scolpita una profezia, decifrata da Giorgio Gennadio Scolario, che annunciava la fine dell’Impero bizantino quando un imperatore e un patriarca i cui nomi cominciavano con le lettere “Io” avessero regnato allo stesso tempo, la fine dell’Impero e della Chiesa sarebbe stata vicina. Così avvenne, infatti, gli uomini del Concilio, i cui risultati non vennero ratificati, furono l’imperatore Giovanni (Ioannis) e il patriarca Giuseppe (Iosif), la profezia continuava con la disfatta ottomana a opera di una ‘razza gialla’ che avrebbe restituito la città ai cristiani. Costantinopoli, odierna Istanbul è ancora “ottomana”, quest’ultima profezia si fa attendere. Il Graal, il sogno si sposta in Francia, alla corte di Luigi XII, chiamato Padre del Popolo, perché amava la giustizia e l’economia, anche se in vita fu impopolare, forse questo Graal non si avvera mai, perché gli uomini di valore sono solitamente avversati perché più avanti con i tempi, basti pensare che fu molto popolare, in vita, Luigi XI, perché aveva i gusti della moltitudine, venne poi chiamato dai posteri “ragno universale” per il suo cinismo. Luigi XII non ebbe eredi e il nuovo sogno si infranse a Ravenna nella famosa Battaglia del giorno di Pasqua del 1512, quando il “delfino” Gastone de Foix, probabile erede al trono di Francia e discendente di Esclarmonda, muore a Ravenna. Gastone era cugino dei re di Navarra e nipote di Luigi XII poteva portare la pace fra francesi e spagnoli, ma il Graal, con la morte di Gastone, fallisce ancora. Ora la veggenza, la trasformazione, non è più di sangue reale, si decapita il re, siamo nel 1793, la nuova luce è la borghesia illuminata, che si fonda su tre parole: “Libertà, Uguaglianza, Fraternità”. La massoneria dei Doveri e dei Diritti, il Graal ha tanti illuminati personaggi, se non proprio a Ravenna, in Romagna. Per un po’ di anni il libro “Cuore” è il Graal che muove le persone verso ideali di fratellanza e amore, ma dura poco, le Guerre Mondiali sfracellano tutto. Il Graal lo cerca avidamente Hitler che abbagliato dalla sua luce ne viene accecato e causa l’olocausto, la vergogna dell’uomo. Arrivano gli americani, il Graal ora lo hanno loro, tutto diventa americano, ma ancora una volta la luce diviene presuntuosa e si affievolisce. E ora dove è il Graal? E’ forse ritornato a Ravenna, la Porta d’Oriente? Forse il Graal laico riunendosi al Graal religioso, riuscirà a riunire la Chiesa ortodossa a quella cristiana, a pacificare quella ebrea con quella islamica e uomini di buona volontà torneranno ai commerci e agli scambi verso l’Oriente, là dove nasce il sole, oppure si realizzerà la profezia di Costantino, tradotta da Gennadio e cioè con la disfatta ottomana a opera di una ‘razza gialla’ (i cinesi) che avrebbe restituito la città ai cristiani? (fine)

immagine: Madonna di Senigallia Piero della Francesca

già pubblicato sul quotidiano “LaVoce di Romagna” il giorno 09/05/2016

 

Pieve di Tho, la chiesa sull’ottavo miglio

Pieve_del_Tho_FLLa Pieve di San Giovanni in Ottavo ( Pieve del Tho) è ubicata poco oltre al paese di Brisighella. E’ una Pieve molto antica, le sue origini pare risalgano a Galla Placidia (392/450), che l’avrebbe fatta erigere sui resti di un tempio pagano dedicato a Giove Ammone (cioè con elementi sia greci che egizi). Il primo documento scritto che attesta la sua esistenza risale all’anno 909. È detta “in ottavo” perché collocata all’ottavo miglio della strada romana“Via Faventina” che congiungeva Faenza con l’Etruria. Sorge isolata fra il verde, spoglia e severa con un piccolo protiro che la ingentilisce, è costruita in stile romanico con materiale di reimpiego, gli storici considerano l’edificio l’anello dicongiunzione tra le pievi ravennati sorte dal VI sec. e le chiese dei secoli successivi. L’interno a tre navate è suddiviso da colonne di marmo diverse fra loro, forse resti dell’antico tempio. La quarta colonna sulla destra riporta scolpita un’iscrizione con una dedica agli imperatori romani. La provenienza di questa colonna è ignota, alcuni sostengono che essa rappresenta una colonna miliare, altri un segno devozionale agli imperatori citati. Sono comunque nomi di imperatori legati alla dinastia di Galla Placidia, quindi non è illogico pensare che in effetti l’origine della Chiesa sia dovuta all’imperatrice. Galla a Ravenna fece erigere il suo mausoleo denso di simboli religiosi, il numero 8 legato alla Pieve è simbolo di Resurrezione, l’ottagono simbolicamente è l’unione di cielo e di terra. Il paliotto dell’altare è una bella lastra raffigurante Cristo seduto tra due angeli, due palme e due agnelli forse del VII secolo, verosimilmente in stile longobardo. La cripta raccoglie vari reperti, una tomba romana alla cappuccina, ampolle di vetro ed un’antica macina di olive per uso familiare. Questo piccolo frantoio di olive è una precoce testimonianza dell’odierno “Brisighello” un olio di alta qualità che si produce a Brisighella. Infine da notare, sempre nella cripta, un mattone romano con linee incise: una “tabula lusoria”, un antico gioco da tavolo romano che si giocava su una scacchiera con due squadre di diversa forza, forse il “Filetto” oppure i “Latrunculi” che andavano per la maggiore.Chi entra in questo luogo si sente immerso in un tempo antico, un filo sottile ci lega a storie passate di imperatrici, divinità e spiritualità.

immagine: Pieve del Tho

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22/02/2016