In Spagna la natura morta venne chiamata bodegon e tra gli interpreti più noti troviamo Francisco de Zurbarán e Juan Sánchez Cotán.  Francisco de Zurbarán(1598-1664), è stato uno dei più grandi della pittura spagnola, le sue opere di arte sacra sono piene di luce e di misticismo, le sue Sante sono magnificamente vestite con una bellezza e una grazia che le rendono iconiche: reali e allo stesso tempo astratte, tutto questo lo si ritrova anche nei suoi bodegones dove gli oggetti, i frutti, le verdure e altro appaiono assai reali ma intrisi di una luce strana, irreale e remota che grazie ad una geometria dello spazio assai misurata ci invita ad andare oltre al significato di ciò che vediamo… un qualcosa d’altro che semplici limoni e arance.

Zurbarán – Natura morta con limoni, arance e una rosa-1633- Norton Simon Museum di Pasadena

Juan Sánchez Cotán (1561 1627) anche le nature morte di questo artista spagnolo appaiono strane e spirituali, quasi come quelle di Zurbarán, il suo realismo quasi iperrealista, il suo stile sobrio e austero rende i suoi bodegones come in attesa, forse perché Cotán molto spesso sospende i frutti, le verdure o i volatili con dei sottili fili quasi fossero marionette, ma in attesa di cosa? Nel 1603 Cotán sebbene fosse un artista assai noto e ben quotato decise di diventare monaco entrando nella Certosa di Granada.

Juan Sánchez Cotán-  Mela cotogna, cavolo, melone e cetriolo-1602- San Diego Timken Museum of Art

Dopo la supremazia rinascimentale italiana nei banchetti e nelle raffinatezze della tavola, nel Seicento, secolo del barocco trionfale e dell’esagerazione delle forme, il primato passò alla grande cucina francese, dove si diffondono i prodotti giunti dal nuovo mondo come il cacao e il caffè, si elaborano salse e si preparano dessert e dolci, ciò fu possibile anche grazie a Caterina de’ Medici che sposa del futuro re di Francia Enrico II, portò con sé cuochi, pasticceri e tutta una serie di artisti della tavola.

Esteban Murillo-Ragazzi con meloni e grappoli d’uva-1645-/1655 circa – Pinacoteca di Monaco

Certo c’è un’enorme differenza fra la tavola aristocratica con cibi raffinati ed elaborati e quella della gente comune costituita da alimenti semplici come zuppe, farinate, polenta, fagioli, uova e pane scuro di segale, ma tale differenza ebbe una forbice più ampia in Spagna.

Il Seicento fu detto secolo d’oro non solo in Olanda ma anche in Spagna dove l’aristocrazia abbondava di ricchi banchetti, ma i ceti bassi erano alla fame, tanto che fu proprio in Spagna che nacque il romanzo picaresco dove il pícaro è un mendicante, un popolano che si ingegna in tutti i modi per raccattare qualcosa da mangiare e per sopravvivere diventando una specie di antieroe, una simpatica canaglia. In Spagna vi era una precarietà e una miseria che il pane di segale, veniva a volte impastato con delle erbe, che a volte non erano commestibili e il vino, di cui si abusava, veniva allungato con acqua che non era potabile con tutte le conseguenze del caso.  Bodegon è chiamata anche la scena di genere, pittori famosissimi come Esteban Pérez Murillo (1618 -1682) e Diego Velázquez (1599-1660), sono tra le figure più rappresentative della pittura barocca spagnola del Seicento, hanno raffigurato la vita quotidiana di questi pícari, zingarelli o mendicanti. Murillo sebbene si sia dedicato maggiormente nella realizzazione di soggetti sacri, i suoi dipinti sono tutt’oggi raffigurati sui santini religiosi, è famoso per le scene di genere in cui rappresenta in modo naturalistico, quasi fotografico, i bambini che in quegli anni giravano per Siviglia, li raffigura vestiti di stracci, sporchi e a piedi nudi mentre mangiano l’uva o il melone che probabilmente hanno rubacchiato in qualche mercato. 

Acquaiolo di Siviglia-1620- Wellington Collection Apsley House-Londra

Velázquez sebbene pittore reale e ritrattista ufficiale della corte spagnola, nelle sue prime opere dipinge scene di vita quotidiana con la stessa perizia, lo stesso naturalismo, la stessa dignità che userà per i nobili, raffigurando i piccoli lavori con la quale il popolo sbarcava il lunario. I poveretti si ingegnavano per racimolare qualcosa: nel dipinto l’“Acquaiolo di Siviglia” un uomo anziano, seppur vestito miseramente, appare rispettabile, sta vendendo un bicchieredi acqua ad un fanciullo mentre  in “Vecchia che frigge le uova” è possibile immaginare nelle due uova il pranzo che l’anziana sta preparando per il medesimo fanciullo… a ben guardare il ragazzo dell’acquaiolo è il medesimo delle uova fritte. 

 Diego Velázquez -Vecchia che frigge le uova- 1618-Scottish National Gallery-Edimburgo

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Il cibo nell’arte XXIV parte

Evaristo Baschenis (1617 -1677), pittore bergamasco, è conosciuto soprattutto per le nature morte con strumenti musicali, era infatti anche un musicista, tuttavia raffigurò con maestria tavole imbandite con frutta e cacciagione. In Baschenis spesso la natura morta è allegoria della vita e della sua caducità, della vanità dei beni terreni e dell’insensatezza di coloro che s’affannano a ottenerli, richiamando la frase biblica ‘Vanitas vanitatum et omnia vanitas’, ovvero… vanità delle vanità, tutto è vanità.

Evaristo Baschenis-Cucina-1660 ca- Collezione privata

Così appaiono teschi e candele spente con ovvio riferimento alla morte, orologi e clessidre per lo scorrere del tempo, bolle di sapone e calici di vetro significando la fragilità delle cose terrene, strumenti musicali e oggetti preziosi rappresentano i piaceri e le ricchezze terrene che sono effimere, i fiori e i frutti la caducità, l’opulenza che si decompone e imputridisce.

Evaristo Baschenis- Natura morta di Strumenti Musicali- 1670 ca- Musées royaux des Beaux-Arts- Bruxelles 

I cibi in genere hanno un significato allegorico, spesso religioso: vino, pane, pesci e uva rimandano a Cristo, la mela e il fico rammentano il peccato originale, burro e formaggio alludono all’opulenza, il melograno all’abbondanza, le arance alla fecondità e all’amore, il limone all’inganno in quanto bello e luminoso fuori e aspro dentro, le ostriche alla voluttà e via così. Tuttavia anche un’alzata con succose e vellutate pesche, incoronate da fiori di gelsomino e pere cotogne può nascondere un messaggio poco simpatico. Fede Galizia (1578-1630) pittrice milanese autrice non solo di nature morte, ma anche di ritratti e di pale religiose ci presenta un’opera all’apparenza piacevole e rilassante, ma la presenza in primo piano della piccola e innocua locusta è simbolo di devastazione e di morte, nonché di invidia e di superbia.

Fede Galizia-Alzata in vetro con pesche, gelsomino, mele cotogne e una locusta-1607  

Particolari sono le nature morte di Sebastian Stoskopff (1597-1657) un pittore tedesco che insiste sulla fragilità della vita proponendosi con diverse rappresentazioni di bicchieri e bottiglie, spesso in primo piano vi inserisce un calice in frantumi.  

 

Sebastian Stosskopff- Natura morta con cesto di oggetti di vetro -1644

Georg Flegel (1566 -1638) altro pittore tedesco uno tra i primi nel suo Paese a dedicarsi alla pittura di nature morte, le sue opere si propongono certune assai raffinate, luminose ed eleganti, altre più semplici e rustiche altre delle vanitas alquanto particolari, come in “Natura morta con pane, brocca, calice e topo”, il dolce in questo caso frutta e fichi, non ci alletta per niente. 

Georg Flegel- Natura morta con biscotti e dolci

il topo e gli insetti ci ricordano con triste ineluttabilità la fine che faremo e Flegel non è delicato come Fede Galizia, il topo sembra sinistramente osservarci, mentre gli insetti sembrano quasi correre, creando l’allegoria di una morte che può essere vicina. 

 

Georg Flegel – sec. XVI/ XVII – Natura morta con pane, brocca, calice e topo

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Le storie di Malipiero

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Era nato un anno imprecisato di fine Ottocento, forse proprio il 1899. Non sapeva né leggere, né scrivere,  ma era un gran lavoratore, già a dieci anni portava sacchi e vangava, almeno era quello che raccontava a noi ragazzini. Io che ero molto più scettica da bambina che oggi, non credevo nulla di ciò che raccontava ma mi piaceva un sacco ascoltarlo, era come ascoltare delle favole. Molto povero, partì volenteroso e con molte speranze, per l’Africa, esattamente nella Libia. Erano gli anni Trenta e l’Italia tentava l’avventura coloniale in Libia. Malipiero, rideva raccontando di un suo amico “testone rosso”, che aveva famiglia e aveva talmente fame che “si sfogliavano le ossa”, che non partì perché non volle prendere la tessera del fascio, nonostante avesse visto i vantaggi che portava, Malipiero scuoteva il capo, se tieni famiglia devi abbassare la cresta, per loro, mica per te e questo non è un disonore. Malipiero partì con la valigia di cartone legata alla meglio. Gli piacque molto l’Africa, le donne erano molto belle e sorridenti, lui lavorava alla costruzione di una strada che non finiva mai. Si stava bene, cibo abbondante, ma c’era un grosso problema, il caldo causava una gran dissenteria, non te ne liberavi proprio per niente. A casa, nella campagna ravennate  la famiglia lo diede per disperso, egli in tre anni che stette via, non scrisse mai a casa, anche se i famigliari si erano raccomandati, a braccia in croce, di rivolgersi a qualcuno che sapesse scrivere e gli avevano dato un cartoncino su cui il prete aveva scritto i dati di Malipiero e il suo indirizzo. Lo stupore quando se lo videro davanti alla porta fu tanto, egli non aveva dato sue notizie, perché aveva perso il cartoncino col suo indirizzo di casa. Nel dopoguerra iniziò il duro lavoro di bracciante, aiutato da una cooperativa rossa, per riconoscenza iniziò a portare sempre una maglia rossa, e ad affiggere una copia fresca di giornata dell’Unità, la sua bibbia, alla sua porta di casa. Antesignano dei salutisti di oggi, si cibava dei prodotti del suo orto. Il suo più grande successo, era una vigna nata spontaneamente dai suoi escrementi; infatti, svuotava metodicamente il pitale nell’orto accanto al muro di casa, con grande sprezzo del vicinato. Rimasto vedovo decise di risposarsi. Si rivolse a un sensale, questi organizzò un pullman, con altri uomini nelle stesse condizioni di Malipiero, che partì per l’Abruzzo. Malipiero tornò con una sposa. Ridenti, chiassosi ed allegri, gli sposi viaggiavano su un’apecar, lui alla guida, lei seduta in poltrona sul cassone del veicolo, una volta affrontando la curva del paese, il furgone si inclinò e la sposa volò nella scarpata, fortunatamente illesa. Il racconto più strano di Malipiero, verteva su una notte in cui tranquillamente dormiva, era appena adolescente, allora abitava in un capanno a Porto Corsini, quando all’improvviso, sirene, urla, chi scappava di qua, chi di là, scontrandosi l’un l’altro, spari, boati, non si capiva nulla, chi diceva che c’erano gli austriaci con le corazzate, chi i cannoni. “Ma tu avevi paura?”. Alla nostra domanda solita, Malipiero rispondeva:“No, perché i più dicevano che la Guardia Marina non aveva capito nulla, che aveva scambiato un grosso tronco d’albero per una corazzata, solo dopo ho saputo che era un attacco austriaco della Grande Guerra, ma ormai era passato tutto”. E noi: “Buu”, non credevamo a una sola parola. Alle 15.30 del 23 maggio 1915 fu consegnata al governo austriaco la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia. Alle ore 3.20 del 24 maggio, mentre Porto Corsini era sprofondato nel sonno, alcune navi da guerra della flotta austro ungarica entrarono nel porto canale cogliendo di sorpresa i militari della base. La flotta era salpata da Pola a mezzanotte, era composta da quattro torpediniere, un incrociatore e un cacciatorpediniere. Quest’ultimo avrebbe dovuto affondare i mezzi navali militari nel porto per bloccare il transito nel canale che da Porto Corsini va a Ravenna. Colpì invece alcuni pescherecci, il faro, la stazione di salvataggio e varie abitazioni private, ci furono diversi feriti, anche tra i civili, e il primo morto di guerra.
immagine: vecchia veduta di Porto Corsini

articolo già uscito sul quotidiano  “La Voce di Romagna” il giorno 01/06/2015