La quiete rinascimentale del piccolo Pianetto

miracolo cavezza

Pianetto è un piccolo paese, a due chilometri da Galeata, una manciata di case, un ambiente antico e quieto raccolto attorno al complesso rinascimentale del convento, della chiesa e del museo, sullo sfondo i resti della rocca appartenuta agli Abati di S. Ellero, resti che si ergono come sentinelle protettive del silenzio e del vivere “lento”. Appena usciti dal Museo Mambrini, pochi passi conducono al  bel chiostro col pozzo al centro, per arrivare all’adiacente Chiesa dei Miracoli. Fu edificata nel 1497 per un miracolo avvenuto in una casa del paese, dove una tavoletta raffigurante la Madonna e Santi fu vista piangere e versare dal seno gocce simili al latte. La chiesa ha linee rinascimentali, ma entrando si resta un po’ sorpresi, la navata unica ha un tempietto che invade come un braccio proteso lo spazio, è il luogo in cui è venerata la tavoletta del miracolo. Questa cappella domina pure l’abside e poi i drappi, i vecchi candelabri, le cassettine un po’ arrugginite per le offerte, rendono questo spazio come sospeso nel tempo. Nelle pareti laterali della chiesa vi sono gli altari, cinque per parte, che conservano pregevoli opere come “La Visitazione” (1599) di Giovanni Stradano, dove  sono rappresentate la Madonna ed Elisabetta ambedue incinte, unico esempio del genere oltre alla Madonna del Parto di Piero della Francesca. In fondo alla navata, a sinistra, c’è un affresco, rappresenta il miracolo assai originale di una partoriente. La donna è stesa a letto, dolorante, accanto due donne anziane, forse levatrici, a fianco un asino con la cavezza si sta abbeverando, un uomo gli spinge il capo verso la fonte e un frate sta osservando. Una scritta, non integra, spiega che ad Arezzo una donna non riusciva a partorire, ma cinta con la cavezza di una bestia partorì subito. Presso Pianetto si insegnò pure teologia ai chierici dell’abbazia di S.Ellero, erano monaci irrequieti, come testimoniano alcuni rimproveri scritti, erano anche invisi alla popolazione.  Nel 1424, accadde un episodio singolare, giunse un capitano dei Visconti di Milano, con l’esercito. Il podestà di Galeata consegnò la rocca senza combattere, per ricevere in cambio un tornaconto personale. Il condottiero dei Visconti ebbe a schifo la viltà del podestà e lo imprigionò nella rocca, dove morì di fame, schernito dai soldati che gli lanciavano per cibo delle carte con delle bisce dipinte.

immagine: affresco col miracolo della partoriente e la cavezza

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 08/06/2015

Quel gioiello del Mambrini

chiave Museo Mambrini

Nonostante i pochi fondi, la Romagna riesce a tenere in vita tanti piccoli musei: preziose perle che testimoniano la nostra storia e le nostre radici. Pochi chilometri dopo Galeata, a Pianetto, si trova il Museo Mambrini, aperto solo il sabato e la domenica. Ha sede nel restaurato convento dei Padri Minori. Mons.  Domenico Mambrini (Galeata 1879-1944), fu l’autore dei primi scavi, dopo la laurea in Filosofia e in Diritto canonico, fu arciprete a Galeata. Appassionato di storia e di archeologia, condusse studi approfonditi sui documenti dell’Archivio storico locale e dei centri limitrofi. A lui si deve l’istituzione del primo nucleo del museo e l’individuazione dell’esatta ubicazione della città romana di Mevaniola. Grazie alle sue intuizioni ci furono  anche gli scavi che portarono alla luce il cosiddetto “Palazzo di Teoderico”. Direttrice del Museo è Caterina Mambrini discendente del Monsignore. Il sito archeologico riferito a Teoderico, fu scavato per la  prima volta nel 1942 da un gruppo di studiosi germanici, in base al racconto della Vita di S. Ellero. Il Museo possiede una sezione archeologica e una storico-artistica. Nella prima parte troviamo manufatti in pietra, bronzi votivi di età arcaica, reperti villanoviani e umbri, quindi  materiali di età teodericiana, bizantina e longobarda. Sono collocate anche iscrizioni funerarie di epoca romana e materiali lapidei provenienti dall’Abbazia di S. Ellero, fra i quali spiccano i due bassorilievi affiancati, raffiguranti per tradizione popolare l’incontro tra S. Ellero e Teoderico. Le due lastre non sono coeve né per periodo, né per stile, ciò non toglie che si trovassero, in origine, entrambe collocate in un’edicola vicina all’abbazia del Santo. Uno dei pezzi più inquietanti è una statua colonna, che illustra un soggetto raro, si tratta di un episodio dell’infanzia di San Nicola in cui il santo-neonato sceglie di digiunare nei giorni santificati, rifiutando di attaccarsi al seno materno con grida e lacrime. Lo strano è che esiste un’altra statua colonna, identica per stile a quella di San Nicola, ma raffigurante  S. Ellero, si trova al Metropolitan Museum of Art di New York:  il Santo è rappresentato con in mano un rotolo, scritto in latino, che afferma i diritti dell’abbazia sul territorio. Opere che restano per secoli in un luogo montano sperduto per poi riaffiorare nel luogo più alla moda del momento, speriamo che accada così anche per un reperto dall’iconologia molto strana che è “scomparso” dal Museo. Rimane una foto, un’immagine scura che presenta un leopardo contrapposto a un orso. Il leopardo è attributo di Dioniso e di riti orientali, riti accreditati dalla presenza nel Museo di un piccolo idolo che ritrae Iside in trono, con in braccio il figlio Horus. L’orso è un simbolo nordico di grandezza, di regalità, per i Celti e poi per i Goti. Forse la lastra testimoniava lo scontro religioso oppure la convivenza fra i differenti riti. Nel museo è conservata anche una chiave onoraria, del I secolo d.C., molto bella, simboleggiava il potere della città. Pezzo di straordinaria importanza, ha solo un altro esempio fra i ritrovamenti di età romana in Italia. Ha impugnatura bronzea a testa di cane, forse un molosso, è a “scorrimento”, le chiavi più diffuse in epoca romana prima che si affermassero quelle a “rotazione”. Forse la chiave aveva un effetto reale, quello di chiudere la porta e uno simbolico di “cave canem”(attenti al cane) molto in voga fra i romani. Notevole è un possibile frammento di ciborio, raffigurante un pavone che si abbevera a un vaso contornato da intrecci tipicamente gotici o longobardi, forse dell’VIII secolo, con accanto il segno dell’infinito(l’otto rovesciato) un grappolo d’uva e una specie di triscele. L’iconografia del pavone rimanda immediatamente alla resurrezione di Cristo e all’immortalità dell’anima, si credeva che la carne di pavone non si deteriorasse, l’uva è il sangue di Cristo, mentre intrecci e triscele rimandano addirittura a reminescenze celtiche. Nella sezione storica artistica troviamo alcune ceramiche, dipinti e affreschi tra cui la Madonna dell’Umiltà, patrona di Galeata, del 1330 circa.

 

immagine: chiave romana con testa di molosso

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di romagna” il giorno 08/06/2015