LA BELLA DI CESENA

pesca-belladicesenaRicordo con tanta nostalgia, la raccolta delle pesche, in estate, quando al mattino andavo con la nonna per aiutarla a portare le cibarie, a chi si era alzato alle cinque di mattina per raccogliere quella delizia che è il frutto della pesca. Di solito la nonna portava lo sportone con l’insalata di cetrioli, pomodori e peperoni, la bottiglia di “mezzo vino” zuccherato, la bottiglia dell’acqua e un bel pezzo di pane, il mio compito era trottarle dietro, facendole compagnia con le miei insistenti domande, del tipo… posso bere anch’io il vino con lo zucchero? Ricordo che un giorno, vennero degli americani a visitare il frutteto, fu la prima volta che vidi una macchina fotografica e non mi capacitavo di come potesse essere successo, che da quella scatola fossero poi uscite delle immagini… un vero miracolo. Queste foto, che forse esistono ancora da qualche parte, ritraevano uomini coi cappelli di paglia e donne coi fazzollettoni legati sotto al mento, su scale, per la raccolta, altissime. Se Rimini ha Isotta, Forlì ha Caterina e Ravenna ha Francesca, anche Cesena ha la sua Bella. La ‘Bella di Cesena’ è conosciuta in mezza Europa e non perché sia una fanciulla affascinante, ma bensì una pesca di polpa bianca, dolcissima e prelibata. E’ la pesca più rinomata del cesenate, matura a luglio ed è il simbolo dell’estate, ma è tanto delicata e alla minima ammaccatura diventa bruna, così la Bella di Cesena, è stata quasi del tutto abbandonata dagli agricoltori, un vero peccato, chissà che qualche bravo agronomo non riesca a far diventare questo tipo di pesca, più forte e robusta. La Bella di Cesena,ha avuto molti riconoscimenti, ha un Premio dedicato a lei. Walther Faedi, agronomo e ricercatore, che ha ricevuto, non molto tempo fa questo Premio la ricorda con queste parole: “La pescaBella di Cesena, aveva un profumo intenso ed era molto buona quando raccolta al punto giusto di maturazione. Per mandarla nei mercati della Germania, però, occorreva staccarla ancora verde, tanto che mio nonno diceva “in la magna gnenca i cunèi”. Era ricoperta da una spessa peluria che gli agricoltori spazzolavano via una volta messe nelle cassette”. Leonardo Lucchi, scultore e orafo cesenate, dove ancora oggi vive e lavora, ha realizzato molte opere nella sua Cesena ed anche un’imponente Via Crucis e un Cristo Risorto nella Catholic Church of the Holy Trinity a Singapore; ha realizzato per la rotatoria a Martorano di Cesena, il gruppo scultoreo, La Bella di Cesena,dove una fanciulla coi capelli al vento, con in mano un cesto di vimini, in punta di piedi si protende col braccio a raccogliere una pesca, da un albero che pare avere i pomi d’oro. Una Venere con la pelle ambrata di pesca… avere la pelle di pesca vuol dire averla vellutata. La pelleè il tessuto di rivestimento che ricopre il nostro corpo e si dice appunto è una questione di pelle, l’attrazione o repulsione istintiva per qualcuno. Il Bellini è un long drink inventato nel 1948 da Giuseppe Cipriani, barman dell’Harry’s Bar, lo chiamò Bellini perché lo associò ai colori del pittore Giovanni Bellini. Ebbene il Bellini è a base di polpa di pesca bianca… di Bella di Cesena, se il barman ve lo fa con la pesca gialla, non è un bravo barista.Il drink divenne una specialità del mese di luglio dell’ Harri’s Bar, perché, come ho scritto, la Bella di Cesena matura in questo mese. Successivamente, il Bellini, divenne molto popolare anche alla sede dell’Harry’s Bar di New York,dopo che un imprenditore francese instaurò una rotta commerciale per trasportare polpa di pesche bianche fra le due località. C’è chi dice che la pesca bianca usata per il Bellini sia quella di Verona. La coltivazione della pesca nel veronese, ha origini antiche, risale all’epoca romana, già Plinio il Vecchio nelle sue opere accenna che il “pomo della lanuggine” era coltivato nel territorio di Verona... un tempo c’era un gemellaggio, che si festeggiava in luglio, fra la piccola cittadina di Gambellara di Ravenna con Gambellara di Vicenza/Verona, aveva a che fare con le pesche, ma nessuno ricordava più il perché…che la Bella di Cesena, fosse imparentata con quella di Verona?

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 08/02/2016

Ma perchè i cani muoiono soli?

cane_13

Il migliore amico dell’uomo è famoso per la sua fedeltà, la sua allegria e la sua intelligenza, allora perché si dice “solo come un cane”, che significa anche “morire come un cane”, in modo dispregiativo, con significato di solitudine estrema? Il modo di dire, si dice nasca dall’osservazione che un cane tenuto isolato, lontano dai propri simili (come spesso succede ai cani da guardia), è sofferente e bisognoso di compagnia in quanto è un animale sociale. Se pensiamo poi a un tempo quando venivano legati a una catena, il ragionamento non fa una grinza. Ma perché si nasconde quando sente che sta per morire? Perché si allontana da chi l’ha accudito con affetto e sollecitudine? Il motivo sarebbe da collegarsi agli istinti primordiali dell’animale, legati a quando viveva in branco e quindi si allontanava per non essere di intralcio o causare problemi all’ interno del gruppo con la sua carcassa. Sceglieva il luogo più idoneo e si preparava al trapasso. Nella mia vita sin da piccola, il mio primo cane si chiamava Ringo, ho avuto attorno a me diversi cani, il cui ricordo della loro morte mi dà ancora dolore. Li ho osservati bene e penso che si nascondano perché noi non accettiamo fisiologicamente  la loro dipartita provocando a loro un intenso dolore. Non vogliono lasciarci, non vogliono vedere le nostre lacrime altrimenti non riescono ad accettare naturalmente la loro morte. Il mio cane lo trovai nascosto in un cespuglio, in un posto introvabile anche se vicino a casa, ero euforica ma il suo sguardo accorato mi gelò: sembrava si rimproverasse di non essere stato abbastanza accorto, mentre ero stata io la testarda egoista… lo lasciai lì e me ne andai. Agli animali che vivono in appartamento, questa ultima opportunità di scelta viene preclusa anche se tentano di celarsi magari sotto un armadio.“Solo come un cane” o “morire come un cane”, non sarebbe quindi sinonimo di emarginazione, ma accettazione, che non vuol dire indifferenza, bensì ricevere senza poter rifiutare. C’è dell’altro, anni fa gli anziani raccontavano che quando una persona era in punto di morte i familiari non dovevano piangere, curarlo questo sì, ma far finta di niente, perché altrimenti il moribondo avrebbe faticato nel passaggio verso la morte ,“trattenuto” dal dolore che causava. Io non so se questo sia vero o verosimile ma al mio funerale voglio musica, canti, cibo e vino a fiumi per tutti.

 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 02/03/2015