Il destino della Coppa

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Nel1438, accompagnato da notabili e dignitari, tra i quali il patriarca Giuseppe II e il Cardinale Bessarione, Giovanni VIII Paleologo giunse a Ferrara per il Concilio ecumenico. Le circostanze che portarono il Paleologo in Italia sono ben note, sempre più vulnerabile alla pressione turca, l’impero romano d’Oriente, e la sua favolosa capitale, necessitavano dell’aiuto militare delle potenze occidentali, la cristianità intera era chiamata alla guerra santa contro gli infedeli, e il presupposto per questa crociata unitaria era la riconciliazione della Chiesa cattolica con quella ortodossa, ma l’obiettivo politico-teologico, la scintilla, il Graal come noto, fallì, solo pochi anni dopo Costantinopoli cadde, provocando un’ampia eco per tutto l’Occidente. Piero della Francesca, pittore e matematico italiano, rappresenta questo sogno infranto, nelle sue opere più famose, come la Flagellazione e la Madonna di Senigallia. Nella Madonna di Senigallia il Bimbo ha in mano un anemone bianco, chiamato anche “fiore del vento”, per la fragilità dei suoi petali, è un fiore dal significato melanconico perché richiama l’abbandono, un significato metaforico di fuggevolezza di una cosa bella, per cui il suo simbolismo intrinseco è quasi di rassegnazione ad una fine vicina, di un sentimento bellissimo ma breve. Secondo una tradizione diffusasi dopo il 1453, sul sepolcro di porfido di Costantino era scolpita una profezia, decifrata da Giorgio Gennadio Scolario, che annunciava la fine dell’Impero bizantino quando un imperatore e un patriarca i cui nomi cominciavano con le lettere “Io” avessero regnato allo stesso tempo, la fine dell’Impero e della Chiesa sarebbe stata vicina. Così avvenne, infatti, gli uomini del Concilio, i cui risultati non vennero ratificati, furono l’imperatore Giovanni (Ioannis) e il patriarca Giuseppe (Iosif), la profezia continuava con la disfatta ottomana a opera di una ‘razza gialla’ che avrebbe restituito la città ai cristiani. Costantinopoli, odierna Istanbul è ancora “ottomana”, quest’ultima profezia si fa attendere. Il Graal, il sogno si sposta in Francia, alla corte di Luigi XII, chiamato Padre del Popolo, perché amava la giustizia e l’economia, anche se in vita fu impopolare, forse questo Graal non si avvera mai, perché gli uomini di valore sono solitamente avversati perché più avanti con i tempi, basti pensare che fu molto popolare, in vita, Luigi XI, perché aveva i gusti della moltitudine, venne poi chiamato dai posteri “ragno universale” per il suo cinismo. Luigi XII non ebbe eredi e il nuovo sogno si infranse a Ravenna nella famosa Battaglia del giorno di Pasqua del 1512, quando il “delfino” Gastone de Foix, probabile erede al trono di Francia e discendente di Esclarmonda, muore a Ravenna. Gastone era cugino dei re di Navarra e nipote di Luigi XII poteva portare la pace fra francesi e spagnoli, ma il Graal, con la morte di Gastone, fallisce ancora. Ora la veggenza, la trasformazione, non è più di sangue reale, si decapita il re, siamo nel 1793, la nuova luce è la borghesia illuminata, che si fonda su tre parole: “Libertà, Uguaglianza, Fraternità”. La massoneria dei Doveri e dei Diritti, il Graal ha tanti illuminati personaggi, se non proprio a Ravenna, in Romagna. Per un po’ di anni il libro “Cuore” è il Graal che muove le persone verso ideali di fratellanza e amore, ma dura poco, le Guerre Mondiali sfracellano tutto. Il Graal lo cerca avidamente Hitler che abbagliato dalla sua luce ne viene accecato e causa l’olocausto, la vergogna dell’uomo. Arrivano gli americani, il Graal ora lo hanno loro, tutto diventa americano, ma ancora una volta la luce diviene presuntuosa e si affievolisce. E ora dove è il Graal? E’ forse ritornato a Ravenna, la Porta d’Oriente? Forse il Graal laico riunendosi al Graal religioso, riuscirà a riunire la Chiesa ortodossa a quella cristiana, a pacificare quella ebrea con quella islamica e uomini di buona volontà torneranno ai commerci e agli scambi verso l’Oriente, là dove nasce il sole, oppure si realizzerà la profezia di Costantino, tradotta da Gennadio e cioè con la disfatta ottomana a opera di una ‘razza gialla’ (i cinesi) che avrebbe restituito la città ai cristiani? (fine)

immagine: Madonna di Senigallia Piero della Francesca

già pubblicato sul quotidiano “LaVoce di Romagna” il giorno 09/05/2016

 

IL RITORNO DEL GRAAL

Santo_Grial_ValenciaGraal forse tornò verso Ravenna. Ora vediamo come. Il successo dei catari, in possesso del Graal, era dovuto alla loro spiritualità quasi ascetica e alla predicazione a favore di un ritorno alla Chiesa delle origini. A Concorezzo, in Brianza, si insediò la comunità catara più numerosa d’Europa. I catari si ribellavano alla corruzione del clero e auspicavano il ritorno della Chiesa alla primitiva purezza. La Chiesa, anche con l’aiuto dell’Inquisizione si oppose da subito ai catari e li definì “eretici”, la loro dottrina era del tutto inaccettabile, va sottolineato che i catari rifiutavano il matrimonio, considerato mezzo di trasmissione del corpo umano da parte del dio cattivo e non disdicevano neppure il suicidio. A Como, Milano e sul territorio operava intorno alla metà del 1200 Pietro da Verona, un frate dominicano e inquisitore. Un nobile di Concorezzo, di fede catara, commissionò l’uccisione del frate. L’assassinio di Pietro, causò l’intervento del Podestà di Milano a favore della Chiesa di Roma, fu quest’ultimo, non l’Inquisizione come molti erroneamente pensano, a organizzare una “caccia all’uomo”, che sfociò nelle stragi di catari ed eretici. In seguito alla intensificazione dello scontro con i poteri ecclesiastico e statale, la setta dei catari si estinse nei primi anni del 1300. Ciò avvenne anche per la concorrenza di movimenti “puri” e pauperisti che si diffusero all’interno della Chiesa e poi sul territorio, come gli ordini mendicanti, i dominicani e i francescani. Ipotizziamo che Esclarmonda abbia portato il Graal e i suo ideali a Concorezzo, ora il Graal si divide, quello religioso, la coppa con l’ostia, l’Eucaristia, va a Valencia e lì rimane, mentre l’utopia di un mondo migliore, l’ideale laico, la trasformazione alchemica va con Rinaldo da Concorezzo a Ravenna. Rinaldo da Concorezzo è stato un arcivescovo cattolico nato a Milano e morto a Ravenna, qui sepolto in un bel sarcofago dentro al Duomo, nella Cappella del Sudore. Fu contemporaneo di Dante, col quale dovette avere quasi certamente dei rapporti. Morirono a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Prima di continuare con Rinaldo, come non collegare il Graal vivente con la figura di Dante, che moralizza ed inveisce contro la corruzione, mantenendosi sempre attento a non diventare eretico, eppure era un fedele d’amore, che era un movimento vicino ai catari. Ma ritorniamo a Rinaldo da Concorezzo che fu l’artefice dell’assoluzione dei templari italiani nel Concilio di Ravenna, inquisiti e minacciati dello scioglimento dell’Ordine per volere di Filippo il Bello il quale mirava ad impossessarsi dei loro beni. Condannò insieme ai suoi vescovi suffraganei la tortura e il terrore come mezzi per ottenere confessioni, non accettandole se estorte con questi metodi e in ciò si oppose anche alla volontà del papa Clemente V che ne voleva lo scioglimento. Fu un’anticipazione delle tesi di Cesare Beccaria del 1764! Come vedete arrivano i misteri coi templari, quando si parla di Graal loro non mancano mai. Rinaldo (siamo nel 1300) è veramente all’avanguardia se non accetta la tortura per strappare la presunta verità, una persona sotto tortura alla fine ammette tutto pur di essere lasciato in pace, non si può mai parlare di verità. Il processo da lui presieduto riconobbe l’innocenza dei templari, la cui pena finale fu soltanto una promessa di penitenza. Papa Clemente V, furioso per il risultato, ordinò all’arcivescovo di riaprire il processo, e di applicare la tortura per ottenere delle confessioni ma Rinaldo rifiutò ancora. Ed eccoci all’altro mistero su Rinaldo: nel 1311 nel concilio tenuto a Ravenna legittimò il battesimo per aspersione…e allora? Non più l’immersione totale, ma solo qualche goccia, questo episodio fa pensare visto che il“battesimo”cataro, non prevedeva acqua. Ravenna ha il Graal, siamo nel 1300, e qui sembra rimanere, o almeno resta sul territorio delle Signorie italiane, nelle corti del Rinascimento. Il Rinascimento, vissuto dalla maggior parte dei suoi protagonisti come un’età di cambiamento, sviluppando le idee dell’umanesimo, sembrò portare la realizzazione del Graal, ma un grosso problema veniva da Oriente. (5 continua)

immagine: Graal di Valencia

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 25/04/2016

L’ERESIA EIL GRAAL

1-esclarmonde-foix Carlo Magno era affascinato da ogni tipo di reliquia e in particolare dal Graal, ritenendolo capace di dare veggenza, la coppa passò poi ai sovrani germanici, agli Ottoni, sino a Federico II, cioè agli Imperatori del Sacro Romano Impero. Federico II voleva il Santo Calice, lo aveva cercato per anni, forse lo custodiva a Castel del Monte in Puglia o forse il Graal era ritornato in territorio francese, fra i “puri”, cioè i catari. La Chiesa cattolica, dopo l’adozione del “privilegio di Ottone” nel 926, con il quale l’imperatore si impegnava a riconoscere l’autorità del Papa, ma si riservava il diritto di approvarne l’elezione, si allontanò sempre più dalla spiritualità. L’ingerenza del potere imperiale era impressionante, l’Imperatore aveva il potere di nominare i vescovi, e di metterli a capo delle città (così alla morte dei vescovi-conti, il feudo tornava di proprietà imperiale). I vescovi, o una parte di essi, inizialmente figure di spicco della spiritualità ecclesiastica, si erano così trasformati in figure politiche. Inoltre, le posizioni all’interno della Chiesa erano molto ambite dalle famiglie nobili, che alla vita ecclesiastica destinavano i secondogeniti o comunque uno dei figli. Questa situazione causò la corruzione dei costumi religiosi: molto diffusa era la simonia (la vendita delle cariche sacre al miglior offerente) e il concubinato. Per questo erano nati nuovi gruppi religiosi, alcuni interni alla Chiesa stessa e perciò tollerati, altri invece sconfinati presto nell’eresia. Fra questi ultimi, c’era la setta dei catari diffusa in Francia e nei territori del Nord Italia, in particolare a Concorezzo, dove sorse la sede della maggiore Chiesa catara europea. La dottrina dei catari si fondava sul dualismo fra Bene e Male come motore del mondo. Due principi che sono a fondamento della creazione di terra e cielo: uno cattivo, ed è quello che ha creato il mondo, l’altro buono. Questo significava, in sintesi, che i catari consideravano la materia come creazione del “Dio cattivo” e perciò rifiutavano i piaceri della carne; erano anche vegetariani ante litteram, sia pure per motivi religiosi. Il loro credo, non riconoscendo l’incarnazione di Gesù, né la sua divinità, sfociò immediatamente nell’eresia, e per questo furono duramente contrastati e perseguitati. Esclarmonda de Foix (dopo 1151-1215), era una figura di primo piano nel catarismo francese del XIII secolo. Il nome Esclarmonda significa “Luce del mondo”, rimasta vedova nel 1200, successivamente, si rivolse alla Chiesa catara. Si stabilì a Pamierse fu protagonista nella ricostruzione della fortezza di Montségur, qualificato come tempio solare o castello del Graal, ancora oggi attira numerosi appassionati di esoterismo da tutto il mondo. Esclarmonda partecipò, nel 1207, agli ultimi contraddittori fra i catari e la Chiesa cattolica, rappresentata da San Domenico, l’anno seguente papa Innocenzo III, decretò la crociata contro glialbigesie contro i catari. Il Graal aveva fallito ancora, i catari erano vicini come idee anche ai templari e ai fedeli d’amore, ai trovatori, alle corti che si idealizzavano sulle storie del ciclo arturiano, ma il loro ideale “puro”era avversato dalla Chiesa cattolica. Esclarmonda aprì numerosi ospedali e scuole dove veniva impartito l’insegnamento cataro, questo attivismo le valse l’appellativo di grande Esclarmonda. La sua leggenda racconta:“Al castello di Montségur, i catari conservavano il Santo Graal. Montségur era minacciato, le armate di Lucifero lo assediavano, volevano il Graal. Discese dal cielo una colomba bianca che, col suo becco, fendette in due il monte e il castello. Esclarmonda, la Guardiana del Graal, gettò all’interno della montagna il Graal e la montagna si racchiuse, sul Graal. Quando i demoni entrarono nella fortezza, era troppo tardi. Furiosi, fecero perire con il fuoco tutti i puri, si salvò solo Esclarmonda che si mutò in una bianca colomba e volò via verso le montagne dell’Asia”. Certo che la leggenda va un bel po’ scremata, forse le armate di Lucifero non erano altro che i crociati, ed Esclarmonda sarà fuggita per portare in salvo il Graal e dove? (4 continua)

immagine. Esclarmonda

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno18/04/2016

COSI’ CLODOVEO EBBE IL CALICE

Palazzo di Teoderico mosaici di Sant'Apollinare Nuovo

Ricimero o Recimero, è stato un politico e generale goto, di fede ariana, dell’Impero romano d’Occidente, effettivo detentore del potere dal 460 fino alla sua morte, che avvenne nel 472. Ricimero era un comandate di Ezio, così come lo era il suo amico Maggioriano, che divenne imperatore e che Ricimero uccise a Tortona in provincia di Alessandria. Secondo la leggenda, a Tortona, la chiesa di San Matteo, identificata come il Mausoleo di Maggioriano, avrebbe custodito il Graal, con tre doni: il corpo, il sangue e lo spirito. Da questa leggenda deriverebbe il famoso motto: “Pro tribus donis similis Terdona leonis” (in virtù dei tre doni Terdona è simile al leone, dove Terdona è il vecchio nome della città). Ciò significa che era ancora viva l’idea di unificare i barbari coi romani e l’arianesimo col cattolicesimo. Verosimilmente il Graal sarà poi transitato verso Ravenna con Odoacre, che depone l’ultimo imperatore Romolo Augustolo e che divenne re d’Italia nel 476.Odoacre pur professando fede ariana, non interferì quasi mai negli affari della Chiesa cattolica di Roma. Nel 488 il re ostrogoto Teoderico fu incaricato da Zenone di invadere l’Italia e deporre Odoacre. Gli ostrogoti invasero la penisola nel 489 ed entro un anno posero sotto il loro controllo gran parte dell’Italia, costringendo Odoacre ad asserragliarsi nella capitale Ravenna. La città, dopo un lungo assedio, si arrese, Teoderico invitò Odoacre ad un banchetto per sancire la pace fra i due sovrani, ma lo uccise nel corso dello stesso. Il Graal ipoteticamente è ancora a Ravenna, la speranza non è morta, Teoderico fa edificare chiese diverse per ariani e per cattolici, si convive dignitosamente fra barbari e romani, fra ariani e cattolici tutto è possibile. Ma Teoderico cambia idea, le cose non vanno più bene, il re goto arriva a imprigionare papa Giovanni I e lo lascia morire in carcere, siamo nel 526. L’unione fra cattolici e ariani, sfuma, l’ideale di un regno illuminato scompare e il Graal intanto era già arrivato in territorio di Francia, alla corte dei Merovingi. Clodoveo fu il secondo sovrano storicamente accertato della dinastia dei Merovingi, sua sorella fu sposa di Teoderico. Il 24 dicembre 496 Clodoveo si fece battezzare a Reims dal vescovo Remigio. I franchi furono l’unico popolo germanico che si convertì dall’arianesimo al cattolicesimo, a differenza degli altri popoli germanici, che rimasero cristiani/ariani. Logico che il nuovo luogo ideale di rinascita del Graal fosse la Francia, tra l’altro ci fu il misterioso evento del “Vaso di Soissons”, che narra di quando i soldati di Clodoveo trafugarono suppellettili di culto e un bellissimo e grande vaso. Il vescovo di Soissons chiese al re di restituirgli almeno il vaso. Quando fu il momento della spartizione del bottino, Clodoveo chiese ai soldati il vaso per sé, contravvenendo alla tradizione, che gli oggetti fossero tirati a sorte, ma un guerriero si oppose, spezzando il vaso, questo può aver a che fare con il Graal, la storia potrebbe celare gli attriti per l’attribuzione del Santo Calice che dava il potere. Inoltre il giglio araldico, simbolo dei re cristiani di Francia, secondo la tradizione, fu scelto nel V secolo, come simbolo proprio da Clodoveo, dopo la sua vittoria riportata a Vouillé, sui visigoti. Il giglio, è un ben noto simbolo di purezza e castità, la simbologia cristiana, vede nei suoi tre petali stilizzati un’allusione alla Trinità divina e nella base orizzontale la figura di Maria, di fondamentale importanza per comprendere il mistero trinitario in quanto fu da Lei che, attraverso l’intervento divino del Padre, s’incarnerà il Figlio,e dai due emana lo Spirito Santo. Questo concetto si trasformerà successivamente con il diffondersi delle teorie pseudo-storiche associate al Santo Graal ed alla discendenza di Cristo. Il “Fleur-de-Lys” viene così associato alla “Stirpe Reale”: la base del simbolo rappresenterebbe, secondo questa nuova concezione, Maria Maddalena mentre i tre petali non sarebbero altro che i figli che ella avrebbe avuto da Gesù: Tamar, Joshua e Josephes. Il Graal, rimane in terra francese, unito in ideale laico e religioso anche per la dinastia dei Carolingi.(3continua)

immagine:  Palazzo  Teoderico Sant’ Apollinare Nuovo (Ravenna)

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 11/04/2016

GALLA PLACIDIA EBBE IL CALICE

Parsifal

Il Parsifal, il cui nome in arabo significa puro e folle, è un’opera di Wagner, dal carattere religioso, era usanza non applaudire al termine della rappresentazione. Ancora oggi il pubblico spesso non sbatte le mani, alla fine del primo atto (scena della Comunione), inoltre alcuni brani vengono eseguiti nel periodo di Pasqua e in alcuni paesi tedeschi, viene rappresentato il Venerdì Santo, quando normalmente gli spettacoli sono proibiti. Ma torniamo ai Magi, i quali sono l’Epifania di Gesù, lo riconoscono come il Salvatore, quindi in senso lato potremmo dire che l’iniziale Graal è Gesù stesso, che poi riappare ogni volta nella messa durante l’Eucaristia. Ora vi illustro un’ipotesi su dove possa essere finito, nel V secolo, il Graal. All’interno del Mausoleo di Galla Placidia, troviamo nella lunetta di fondo, raffigurato San Lorenzo, sopra questa lunetta, vi sono due apostoli con ai piedi un vaso zampillante d’acqua, con due colombe, molto simile a quello presente nel corteo di Teodora, in San Vitale, potrebbe rappresentare il Graal. San Lorenzo aveva l’oggetto sacro, che papa Sisto II gli aveva affidato, nel 258, con l’incarico di portarlo lontano da Roma. La coppa del sacrificio, avrebbe rischiato di essere distrutta dall’ignoranza dai pagani, mentre Valeriano, conoscendone il potere, non avrebbe esitato a servirsene per il proprio tornaconto. Forse Lorenzo, riuscì a far portare la coppa in Spagna e qui passò poi in mano ad Ataulfo, forse il calice rimase a Roma e fu asportato nel 410 da Alarico, assieme a tutti i tesori che il visigoto si portò via. In ogni caso pare che il calice arrivasse nelle mani di Galla Placidia, la quale forse possedeva la coppa ed era anche la coppa vivente in quanto aveva generato da Ataulfo, Teodosio nato da pochi giorni, siamo nel 415. Teodosio, portava il nome del nonno, il grande imperatore che in Oriente era ed è pure Santo, avrebbe dominato il grande regno unificato di Roma e dei barbari, forse unendo anche la religione cattolica con quella ariana. Ma il Graal sia come contenitore che come ideale fallisce, Ataulfo viene assassinato, il piccolo Teodosio ucciso, l’Impero di Roma crollerà di lì a poco. Il matrimonio di Galla Placidia e Ataulfo ricorda il legame di Artù con Ginevra, i tempi collimano e gli ideali sono gli stessi, il ciclo bretone potrebbe avere legami con la Romagna. Gli altri cavalieri della tavola rotonda si individuano così con Ezio, Alarico, Attila, Teoderico, Ricimero, Odoacre, Genserico, ecc. Flavio Ezio veniva dalla Dacia e aveva sposato una donna romana. Aveva passato parecchi anni come ostaggio degli unni, e Attila era per lui come un fratello, dato che erano cresciuti insieme. Prima di essere ostaggio degli unni lo era stato dei visigoti di Alarico, sequestrato nel sacco di Roma (410) assieme a Galla Placidia. Ezio aveva grande potere, tale da raggiungere il trono; non era certo l’imperatore Valentiniano III a fargli paura, il cui unico pregio era l’essere figlio di Galla Placidia. Ezio controllava la Gallia del nord coi suoi guerrieri; si sentiva unno lui stesso, parlava la loro lingua alla perfezione e da loro aveva imparato a cavalcare, a tirare d’arco e le tecniche militari tipiche dei cavalieri della steppa. Fu sempre fautore dell’alleanza romana coi barbari. In ogni battaglia vedeva un duello, una sfida cavalleresca, addirittura un giudizio divino. Fu protagonista nella battaglia dei Campi Catalaunici (451) vicino a Troyes dove sconfisse Attila, questo baluardo dell’Impero fu ucciso da un imbelle rammollito come Valentiniano, il quale fu poi eliminato l’anno successivo dai guerrieri di Ezio. A Ravenna, l’agonia e la fine dell’Impero Romano ma anche l’inizio del Medioevo con le gesta ricordate nelle saghe dei Nibelunghi (di cui fanno parte anche Teoderico e Attila) e di Artù e i cavalieri della tavola rotonda. Chrétien de Troyes scrittore e poeta francese medievale, ideatore del ciclo bretone, può essersi ispirato alla battaglia avvenuta tanti anni prima nella sua città natia. Ezio morì poco dopo Galla Placidia, nel 454, in Occidente si creò una situazione di potere vacante, e il Graal dove si troverà ora? (2 continua)

immagine: Parsifal e il Graal

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 04/04/2016

IN CERCA DEL GRAAL

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Venerdì 01/04/2016, la data non è casuale, presenterò il mio romanzo, “I viaggi di Gilles”, alla Galleria d’Arte MAF, Via Mazzini, 20 a Forlì. Il romanzo, tratta la cerca e la trova del Graal, in Romagna, ora dopo qualche anno, dalla pubblicazione del romanzo, ho un’altra idea per la cerca del Graal, che voglio regalare, come se fosse una favola, ai lettori della Voce, sperando di allietarli, con uno scritto “strambo”, ma unico. Il primo a citare il Graal, fu Chrètien de Troyes, all’inizio del XII secolo, nel poema Perceval o il racconto del Graal, ambientato alla corte di re Artù. Chrètien parla del Graal come di un contenitore luminoso e abbagliante, incastonato di pietre preziose, portato da una fanciulla, durante una processione, questo Graal conterebbe un’ostia, come nutrimento spirituale. E’ Galahad il figlio naturale di Lancillotto, il cavaliere perfetto che trova il “contenitore abbagliante”, in quanto diversamente dal padre, è un puro, non legato ai piaceri carnali. Dopo di lui, un altro poeta francese, Robert de Boron, parla del Graal come calice dell’Ultima Cena e il Graal diventa Sacro. Questa parte religiosa del Sacro Calice ben si adatta all’epoca, in cui il precetto dell’Eucaristia si stava affermando solidamente e fiorivano i miracoli di ostie grondanti il sangue di Cristo. Il Graal è visto a volte materialmente come una coppa, un catino, un piatto, un calice, una pietra o spiritualmente come un ideale di appagamento fra il dare e il ricevere, solitamente a che fare con una fanciulla, un tesoro, una o più colombe, una veggenza cioè la capacità di vedere il bello e il buono nel futuro e i luoghi dove lo si può ritrovare sono veramente molteplici. Ci sono vari calici nel mondo che, in un dato momento della storia, hanno vantato di essere il vero Santo Graal, ma l’unico che ancora rivendica la sua autenticità è il Santo Calice di Valencia, con tanto di richiesta di far parte del Patrimonio Unesco. Anche la Santa Sede appoggia quest’ipotesi: Giovanni Paolo II, lo usò per celebrare la messa nel corso della sua visita a Valencia, così come pure Benedetto XVI, inoltre dal 2015 è stato istituito l’Anno Santo Giubilare che si terrà ogni cinque anni. Dunque partiamo da questo Calice di Valencia, tenendo conto che a volte il Graal religioso e il Graal laico convivono, che è una coppa di agata cornalina, datata fra i secoli II e I a.C. proveniente da Antiochia o Alessandria. La tesi sull’autenticità del Santo Calice di Valencia sostiene che questo fu portato a Roma da San Pietro, il calice sarebbe quello dell’Ultima Cena, che Pietro usò a Roma per celebrare l’Eucarestia e fu poi conservato e usato dai successivi papi fino a Sisto II. Nel 258, per salvarlo dalla cupidigia dell’imperatore Valeriano, Sisto II lo avrebbe consegnato al diacono Lorenzo, originario della zona dei Pinerei, che lo inviò alla sua città natale per mezzo di Precelio, un cristiano spagnolo che si trovava a Roma. Quest’episodio è raccontato nella ‘Vita di San Lorenzo’ scritta da San Donato nel secolo VI. Poi del calice si hanno notizie solo dall’VIII secolo in poi: secondo alcune tradizioni, rimase nascosto per diverso tempo in vari luoghi dei Pirenei per proteggerlo dall’invasione musulmana. Nel secolo XI è presente nel monastero di San Juan de la Peña, sempre in zona pirenaica e da allora in poi sono perfettamente documentate tutte le sue peripezie in territorio spagnolo fino ad arrivare a Valencia nel 1437. Questo è ciò che si raccoglie, cercando qua e là. Ora inserisco qualche mia ipotesi. Il calice dell’Ultima Cena, ipoteticamente poteva essere anche uno dei doni portato dai Magi al Bambino, precisamente la coppa che conteneva l’oro. Se teniamo presente ciò, la mente non può che andare verso Ravenna dove la raffigurazione dei Magi è quasi in ogni dove, sui mosaici di Sant’Apollinare Nuovo, sui sarcofagi, e a San Vitale sul mantello di Teodora, dove l’imperatrice ha un calice prezioso in mano, mentre dalla parte opposta Giustiniano ha la patena. San Vitale esplica nei suoi mosaici l’Eucaristia con l’Offertorio, è la liturgia della Messa, e ispirerà le scene per la prima apparizione del Santo Graal, nel Parsifal di Wagner.

immagine: San Vitale, Teodora, Ravenna

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 21/03/2016

IL SEPOLCRO DI ISOTTA

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Sigismondo si innamorò di Isotta, figlia di un ricco e nobile signore di Sassoferrato, quando era appena tredicenne. Lui aveva poco più di venti anni. L’amore crebbe col passar del tempo e fu corrisposto. Isotta era intelligente, colta e bella. Sigismondo convolò a nozze con Polissena, dopo la morte della prima moglie Ginevra, forse uccisa da lui. Polissena morì di peste o ci fu la mano del Malatesta, in ogni caso Isotta dovette aspettare altri sette anni. Finalmente nel 1456 ci fu il matrimonio tra il Signore di Rimini e la bella Isotta, questa volta non un matrimonio d’interesse, come i primi due, che avevano legato Sigismondo a due potenti signori. Dopo tanto, finalmente la donna amata; colei che fu consigliera prudente e forte, che fu fedele nella buona e nella cattiva fortuna. Il condottiero si fa poeta e le scrive teneri versi:“Dinanzi a te l’erbetta e i fior s’inchina Vaghi d’essere premi del dolce pede”. Sigismondo celebra il suo amore per Isotta, che viene cantato dai rimatori e dagli altri artisti della corte. Isotta regge, vigile e accorta, lo Stato nelle assenze del marito; tratta con ambasciatori e diplomatici; vende i suoi gioielli per sostenere, lo sposo cacciato da Rimini. Isotta morì nel 1474 e fu sepolta nel Tempio Malatestiano. La Cappella chiamata degli Angeli o, più spesso detta d’Isotta, si trova all’interno del Tempio Malatestiano di Rimini. Al centro della nicchia, sopra l’altare, si trova la figura dell’arcangelo Michele, ha nella mano destra la spada, nella sinistra la bilancia e col piede preme la testa del demonio. C’è chi vi ravvisa il tocco di Agostino di Duccio, personalmente preferisco le diciotto formelle (su cui si nota ancora l’acceso azzurro) che si trovano nei pilastri. Le formelle ritraggono armoniosi angeli che suonano, cantano e danzano, con le vesti fluttuanti e leggere, paiono d’organza non certo di marmo, le ali dorate, corposi e allo stesso tempo lievi, hanno tutta la grazia della bellezza paradisiaca, forse più belli degli angeli delle famose cantorie di Donatello o di Luca della Robbia, qui è evidente la mano di Agostino di Duccio. A sinistra della cappella vi è l’arca di Isotta, probabilmente di Matteo de’ Pasti, scultore e grande medaglista, al cui pari, nel XV secolo vi era solo Pisanello. L’arca poggia su due elefanti bianchi, ha come sfondo un padiglione marmoreo, uno stemma con le solite lettere S e I attorcigliate, che possono anche evocare il bastone col serpente di Asclepio, simbolo di resurrezione. Sul tutto troneggiano due teste d’elefante contrapposte. Nel sarcofago, posto circa a mezz’altezza, due putti sorreggono un cartiglio bronzeo. Sotto la targa bronzea, nel 1912 è stata scoperta la seguente scritta: “A Isotta da Rimini, per avvenenza e virtù ornamento d’Italia”. Quando e chi nascose questa scritta? Fu per invidia e gelosia o perché Isotta non meritava tale fama? Nel 1756 si fece una ricognizione della tomba d’Isotta. Furono trovate solo ossa e nient’altro, niente medaglie o gioielli. Nel muro destro della cappella era appesa un tempo il Crocifisso su tavola dipinta da Giotto. La cappella è contornata da una balaustra ornata di angioletti un po’ grassottelli e perciò un po’ goffi ma proprio per questo ancora più ricchi di tenerezza. Nella cappella opposta, l’occhio è attratto da ben 61 angioletti, su uno sfondo azzurro, giocano, suonano, corrono, danzano, fanno cavalluccio e il girotondo, spaventano gli anatroccoli e si spruzzano l’acqua addosso e si fanno pure i dispetti. Agostino di Duccio ha rappresentato la gioiosità che è propria di chi si affida o crede con animo semplice e puro. E’ chiamata Cappella dei Giochi infantili, o dell’Angelo custode, dove trovano posto i sepolcri delle prime due mogli di Sigismondo, Ginevra d’Este e Polissena Sforza, forse furono sposate per motivi d’interesse ma ebbero un degno sepolcro. Tutta la letteratura che si è profusa attorno all’amore di Sigismondo e Isotta andrebbe un po’ ridimensionata, forse sarebbe meglio dire che il Malatesta amava non una donna, ma varie donne, prova ne è che ebbe molte amanti e da due di queste, Vannetta de’ Toschi e Gentile di Giovanni, ebbe anche una nidiata di figli.

immagini: Sepolcro di Isotta

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 14/03/2016

 

LE VASCHE PREISTORICHE

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In Alta Valmarecchia, in uno scenario molto suggestivo, fra monti, boschi e sorgenti, si trovano testimonianze dell’archeologia preistorica, sono le cosiddette vasche rupestri, note anche come “are sacrificali”. Tutti i manufatti presenti nell’area vengono classificati nelle tre tipologie, dettate dalla loro morfologia: vasche singole, vasche plurime, vasche aperte. Probabile reminiscenza di antichi riti cultuali, alle vasche rupestri della Valmarecchia vengono attribuite diverse funzioni, lungo ai secoli, tutti riconducibili o all’ambito produttivo o a quello rituale. La loro presenza fa pensare che questi monti e la valle sottostante fossero fin dall’antichità un’importante via di comunicazione tra la Romagna e l’Italia centrale. La tradizione orale attribuisce alle vasche scavate nella roccia nomi come “ara sacrificale” o “letto” di questo o di quel Santo. In queste “are”, alcune delle quali si trovano vicino a edifici sacri, si effettuavano forse riti sacrificali legati al culto delle acque, mentre i “letti”, ognuno legato a un Santo vengono ritenuti, dalla popolazione locale, taumaturgici per il mal di schiena o il mal di testa. Per i Celti le montagne, le rocce, i massi, i sassi erratici erano la divinità manifesta, e tutti i loro culti hanno al centro la roccia. Le loro chiese erano i boschi sacri. Le vette delle montagne erano le loro cattedrali, in quanto erano il luogo più vicino al cielo, scrutavano le stelle, osservavano quel cielo che a volte mandava acqua, fuoco, neve, grandine, e dove c’è il Sole e la Luna. L’esplorazione del cielo era vitale per loro e forse conoscevano sulla meteorologia più di quello che conosciamo noi. Per i Celti, dalla pietra delle montagne nasceva l’acqua e la fertilità. Le montagne le rocce, i culti delle acque e degli alberi sopravvissero a tutte le religioni. Nel concilio di Tours del 567 si riconosceva che la figura di Cristo, nelle zone montane più impervie, era ancora praticamente sconosciuta e si invitavano i religiosi a scacciare le persone che si dedicavano al culto delle pietre, degli alberi, delle fonti o di altri luoghi designati come pagani. Lo stesso argomento viene poi ripreso in un documento di Carlo Magno del 789. L’effetto taumaturgico per il mal di schiena e il mal di testa dei cosiddetti letti intitolati ai Santi, fa pensare che su quelle pietre ai tempi dei Celti, dei Goti o dei Longobardi si svolgessero riti di sangue. I Longobardi avevano i culti dei popoli germanici, risolvevano i conflitti tramite i giudizi di Dio o i sacri duelli, praticavano l’antropofagia rituale e l’immolazione dei teschi agli dei, si sa pure di rituali più violenti, quelli dei Vichinghi in cui alla vittima prescelta, ancora viva, veniva praticata una profonda incisione sulla schiena dalla quale venivano estratti i principali organi, tale rito era chiamato Aquila di sangue. I Celti invece costruivano colossali immagini antropomorfe di giunchi o di legno che riempivano di uomini e bestiame, poi vi appiccavano il fuoco ed esse ardevano con tutto ciò che c’era dentro, di cui rimane oggi un ricordo nei “pagliacci” che si bruciano nelle varie feste o sagre. Lungo la strada che porta a Pennabilli troviamo anche il Sasso di San Francesco dove si dice che il Santo si sia fermato a riposare, il sasso a forma di sedile è ricoperto da pietre perché chi si ferma qui in preghiera, lascia un sasso, al punto che ormai il sedile è nascosto da una piccola montagna. L’umanità preistorica immaginava che come il Dio rendeva feconda la terra attraverso la roccia lo stesso poteva accadere per le donne, le quali strisciando sopra questi sacri massi si assicuravano la capacità di procreare. Usanza che ancora resiste, al Santuario di Oropa, vicino a Biella, dedicato alla Madonna Nera, vi è un masso erratico, popolarmente chiamato “ròch dla vita” (sasso della vita) e tramandato come “pietra della fecondità”: le donne vi si strofinavano per propiziare una gravidanza o un parto. Ciò che ci dicono i reperti, i sassi e le vasche dell’Alta Valmarecchia è qualcosa di antico, di sacro e di mostruoso che non si è del tutto dissolto, anche la Chiesa si fonda sulla pietra, quella angolare e su Pietro.

 

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 07/03/2016

ENRICO PAZZI E LA STATUA DI DANTE ALIGHIERI

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Enrico Pazzi, scultore un po’ retorico, ma assai impetuoso, nacque a Ravenna nel 1818, frequentò la locale Accademia di Belle Arti. Appartenne alla più importante loggia massonica fiorentina, la Concordia. Fra le sue opere più significative troviamo, la statua equestre in bronzo di Michele Obrenovitsch, le statue di Girolamo Savonarola e quella di Dante, rispettivamente collocate a Firenze in piazza San Marco e in piazza Santa Croce e il monumento a Luigi Carlo Farini eretto nel 1878 nel piazzale della stazione di Ravenna, distrutto durante i bombardamenti del 1944, tutt’oggi è ricollocata una copia. L’illustre uomo politico e scienziato non pare a suo agio in mezzo al traffico, Farini era un uomo metodico, riflessivo non da invettive. Pazzi tornò a Ravenna e lasciò alla sua città natale una raccolta di oggetti d’arte. Morì a Firenze nel 1899. Dante Alighieri, durante il Risorgimento,fu considerato il padre ideale dell’unità nazionale. Pensate che le terre irredente, quelle rimaste fuori dal processo di unificazione, partecipavano, anche loro, al “culto” di Dante, riferisce Santino Muratori, “Trieste diede l’ampolla votiva, fusa con oggetti d’argento di domestico uso offerti dalle donne e dai fanciulli di quella città e di tutto il così detto ‘Litorale’; Fiume diede l’anello d’argento su sui posa l’anfora; la colonna alabastrina che serve da piedistallo fu tratta da un masso delle grotte del Carso”… Pazzi nel 1851 aveva eseguito un bozzetto di Dante con il proposito di farne una copia in marmo da offrire al Municipio di Ravenna che però rifiutò l’offerta, causa l’enorme spesa, probabile che il diniego provenisse dal governo pontificio, un esecutore massone e Dante ripreso mentre pronunciava la famosa invettiva “Ahi, serva Italia di dolore ostello”, non poteva piacere alla Chiesa. L’opera finì in piazza Santa Croce a Firenze. Nella statua Dante è effigiato in piedi, incoronato d’alloro, corrucciato, con gli occhi bui, sorregge con la mano destra la Divina Commedia e ha vicino un’aquila. Il basamento è a pianta quadrata, agli angoli poggiano quattro leoni. Sarebbe bello,traslocare la statua del Farini in un luogo più idoneo, al suo posto mettere una copia della statua di Dante del Pazzi: la stazione, i viaggiatori, i perditempo, accolti o ammoniti dal suo sguardo severo. Ravenna non ha una statua imponente del suo più noto cittadino.

 

immagine: particolare statua Dante di Enrico Pazzi

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 29/02/2016

DUE CARBONARI CESENATI

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Roma 1825: tentato omicidio al nobile carbonaro Filippo Spada, è colpevole di aver tradito la causa. Due carbonari Leonida Montanari e Angelo Targhini, vengono accusati del misfatto tramite un delatore, sono condannati a morte. Ricevono in cella le visite di un frate confessore (Alberto Sordi) che vuole indurli al pentimento. Ma ogni insistenza è vana, i due rivoluzionari, insensibili ai richiami della fede, arrivano a farsi beffa del monaco, che non si arrende. La vicenda si svolge nella Roma papalina nell’anno del Giubileo, teatro di intrighi politici e di oscurantismo religioso. Più che nei rivoluzionari, il popolo si riconosce in Pasquino,(una delle statue ‘parlanti’ di Roma ) che veste le spoglie di un ciabattino, Cornacchia (Nino Manfredi), “voce” di Roma e misterioso autore delle prose satiriche contro le autorità pontificie. Leonida e Angelo per un momento si illudono, che il popolo si ribelli allo stato di polizia e si allei dalla loro parte: ma i popolani, al contrario, stanno protestando perché vogliono assistere all’esecuzione ed anzi si lamentano perché l’evento viene ritardato. Nonostante tutti gli sforzi degli amici, Targhini e Montanari vengono ghigliottinati dal boia del papa, Mastro Titta. Morendo, Montanari si dichiarò “innocente, frammassone ed impenitente”. L’esecuzione fu in Piazza del Popolo, furono sepolti nella terra sconsacrata dove finivano i suicidi, i ladri, i vagabondi e le prostitute. I romani, colpiti dalla vicenda dei due giovani, li adottarono dopo la morte, tanto da ritenerli figli della città eterna e da dimenticare, nel tempo, le origini forestiere dei due. Forse avrete riconosciuto la trama del bel film di Luigi Magni : “Nell’Anno del Signore” ma è anche il resoconto di un fatto realmente accaduto e i due carbonari giustiziati erano di Cesena. Targhini, di madre cesenate e di padre bresciano, era cuoco di Pio VII. Montanari era di Cesena, era di povera ma onesta famiglia; a 24 anni era già medico chirurgo, era bello e gentile. Pieno di amor patrio, non riconosceva la corona bensì era fedele alla Repubblica, così è descritto. Si trasferì a Rocca di Papa, vicino a Roma, per esercitare la professione. Targhini e Montanari sono considerati i primi martiri del Risorgimento italiano. Nel 1887 il Comune di Cesena volle ricordare il sacrificio di Montanari con un medaglione realizzato da Tullio Golfarelli, scultore e pittore cesenate. La lapide è affissa sotto i portici del Palazzo Comunale un tempo sede dei rappresentanti pontifici, ancora oggi intitolato al Cardinale Albornoz. L’edificio è situato in Piazza del Popolo, dove al centro vi è la cinquecentesca fontana del Masini, l’architetto cui la leggenda vuole gli fossero poi amputate le mani per evitare replicasse l’opera altrove,(certamente una fandonia, ma dimostra l’amore dei cesenati per la fontana). In un’altra Piazza del Popolo, a Roma in onore dei due giovani fu affissa una lapide, fortemente voluta, nel 1909, dal sindaco di Roma Ernesto Nathan. Ernesto Nathan (Londra 1845/ Roma 1921) è stato un politico italiano, sindaco di Roma dal 1907 al 1913. Ebreo, di origini anglo-italiane, massone, laico e anticlericale, ricoprì più volte la carica di gran maestro del Grande Oriente d’Italia. Un aneddoto famoso narra che, neoeletto sindaco, a Nathan venne sottoposto il bilancio del comune per la firma. Nathan lo esaminò attentamente e, quando lesse la voce “frattaglie per gatti”, chiese spiegazioni al messo che gli aveva portato il carteggio. Questi rispose che si trattava di fondi per il mantenimento di una torma di gatti che serviva a difendere dai topi i documenti custoditi negli uffici. Nathan prese la penna e cancellò la voce dal bilancio, spiegando allo stupito funzionario, che da allora in poi i gatti del Campidoglio si sarebbero dovuti sfamare coi topi e nel caso non trovassero i topi, veniva a cessare anche lo scopo della loro presenza. Da questo episodio deriverebbe il detto romanesco Nun c’è trippa pe’ gatti. Nathan era uomo di rigore ed etica di primo ordine, la madre era una fervente mazziniana. Voci di gossip ottocentesco lo dicono figlio illegittimo di Mazzini.

 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 29/02/2016