Fedeli d’amore Virtù eretiche

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La leggenda di Dante eretico e precursore della massoneria ha avuto grande diffusione nell’Ottocento,  anche se è stata fatta a pezzi dagli studiosi. Il Poeta avrebbe fatto parte dei Fedeli d’Amore,movimento legato ai Templari e in forte sospetto di eresia. I Fedeli d’Amore erano un gruppo di poeti che praticavano una spiritualità erotica, che può essere vista come un’applicazione nella realtà di idee cavalleresche proprie dell’amore cortese, atte alla rigenerazione della società. L’amore cortese si basa sul concetto che solo chi ama possiede un cuore nobile. L’amore cortese è un’esperienza non solo di corteggiamento platonico ma è fondato sulla compresenza di desiderio erotico e tensione spirituale. Per questa ragione,non può realizzarsi dentro al matrimonio,l’amore cortese è quindi adultero per definizione. L’amore cortese è desiderio fisico. Si instaura fra la dama e l’amante un rapporto d’amore esclusivo, così come il poeta deve rivolgersi a una sola dama, la donna deve accettare non più di un amante. Per l’amante il marito non è un problema, un grattacapo saranno gli altri della corte che tenteranno di portargli via la dama. Questo comportamento non è proprio solo delle corti del Milleduecento. Nell’Ottocento il cosiddetto cicisbeo, l’accompagnatore delle dame non era solamente un cavalier servente, ma era anche un focoso amante, si pensi a Byron e alla contessina Guiccioli. L’ideale cavalleresco e l’amore cortese nati nel Medioevo, rivissero grazie ai letterati romantici per tutto l’Ottocento. Il Romanticismo infiammò di fantasia ogni classe sociale, in quanto da tale letteratura apparve poi nei comportamenti umani fino forse all’esagerazione, tanto che nel XX secolo ci sarà un rifiuto totale di quanto piacque nel secolo precedente.“Il godimento nel sacrificio, l’affinamento morale nell’adulterio, l’esaltazione nel segreto”, questi sono i temi. I Fedeli d’Amore, quasi scomparsi dalla storia, erano “sopraffini spiriti” che lottavano per elaborare un codice di vita cavalleresco in cui la virtù fosse personale e non dovuta al censo. Essi “formavano un gruppo chiuso dedicato al raggiungimento dell’armonia tramite la parte erotica ed emotiva e le loro aspirazioni intellettuali e mistiche”. La loro formazione era basata su dottrine psicologiche e spirituali.  Donna me prega poesia di Guido Cavalcanti (1250-1300), è considerata come il manifesto dei Fedeli ed è dedicato a Sapientia (Sapienza), anche Beatrice nella Divina Commedia sarebbe vista da Dante in questi termini. La poesia dei Fedeli conterrebbe eresie, ci sarebbero termini camuffati per proteggere gli scrittori dal braccio terribile dell’Inquisizione. Molti termini possono essere interpretati in due o più modi, ma non è così chiaro se questo fosse intenzionale e se questo modo di scrivere risultasse comprensibile solo agli iniziati. Dante sebbene abbastanza ermetico,nella Divina Commedia si trovano un mucchio di doppi sensi, ha cercato nella sua opera di bilanciare la chiarezza e l’oscurità. Ci sono molte somiglianze di stile e contenuto tra la poesia sufi e la poesia dei Fedeli, soprattutto nella loro idealizzazione dell’Amata come Santa o Sapienza. La parola“Sufi”ha una triplice etimologia: 1) i Compagni del Profeta che avevano lasciato tutto pur di vivere quanto più vicino al Profeta, 2)i Sufi asceti che vivevano nei deserti vestiti di una lunga tunica di lana, loro unica proprietà, insieme al secchiello per l’acqua. Una tunica di toppe, cento toppe come i nomi di Allah menzionati nel Corano,che più tardi divennero colorate, fino a diventare l’abito tipico dei Dervisci, 3) i Sufi sono i Puri. Per questo se chiedete a uno se é un Sufi, non sentirete mai dire di sì, perché chi lo é, per modestia non lo dice. Ci sono altre fonti di influenza islamica, tra cui la tradizione trobadorica e i pellegrini di ritorno dalla Terra Santa. I Templari possono aver portato ai Fedeli alcune di queste idee, così come la tradizione del Tempio di Salomone come la dimora della Sapienza. In effetti, ci può essere stata un’alleanza tra i Fedeli e Templari. E un continuum poi coi Rosacroce per arrivare alla massoneria.

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Ravenna” il giorno 09/11/2015

I legami tra Dante, la massoneria e l’Argentina

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La tomba di Dante, dai ravennati era chiamata un tempo “la Pivarola”. Fu il poeta Olindo Guerrini, che la definì in questo modo. Termine azzeccato perché sembra proprio un macinapepe e nessuno al mondo ha avuto mai lo stesso “pepe” di Dante nelle invettive. Strano che il tempietto in stile neoclassico, fin troppo armonico, presenti un festone con teste di capro che paiono simili al simbolo del bafometto, quest’ultimo secondo la leggenda, era un idolo pagano, il dio dei Cavalieri Templari. Certo che ciò non fa di Dante un massone, ma testimonia, la tomba fu restaurata alla fine del Settecento dal cardinal Luigi Valenti Gonzaga mentre era legato pontificio in Romagna, che al tempo qualcuno ci credeva. Ritroviamo qualcun altro che aveva le stesse idee su Dante. Se pensiamo alla lista dei massoni della P2, in mano a Licio Gelli, vi troviamo oltre ai famosi della politica e dello spettacolo, anche molti adepti provenienti da Buenos Aires, inoltre Licio Gelli aveva buoni rapporti con l’Argentina, i legami fra la massoneria italiana e quella argentina erano di lungo corso, sarà un caso che a Buenos Aires venne costruito Palazzo Barolo? Fine della Prima Guerra  Mondiale, l’Europa era distrutta mentre l’Argentina, allora settima potenza del mondo, era un paese fiorente. Gli argentini in parte italiani volevano salvaguardare Dante il padre della lingua italiana e portarselo a Buenos Aires. L’architetto Palanti inizia a costruire nel 1919 per Luis Barolo l’Edificio Barolo destinato a conservare le ceneri di Dante: grazie a un accordo tra le due massonerie quella appunto italiana e quella argentina. L’edificio riprende simbolicamente tutta la Divina Commedia, l’Inferno è al primo piano del palazzo con statue di animali spaventosi, il Purgatorio dal quarto e quindi il Paradiso dal ventiquattresimo piano con una cupola terminale e un grande faro. L’Edificio venne terminato nel 1923 ma, mentre Buenos Aires aspettava le ceneri di Dante, l’Italia cavalcava l’onda degli anni ruggenti americani, si avviava verso il regime fascista, che introduceva il nazionalismo e l’esaltazione delle proprie radici e le ceneri di Dante rimasero a Ravenna. Figuriamoci Ravenna non le volle dare a Firenze, questa massoneria doveva ben essere fuori dai coppi per anche solo pensare di portare via le ceneri del Poeta dalla terra di Romagna. Dio ce le ha date e qui rimangono!

immagine: Palazzo Barolo, Buenos Aires

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 02/11/2015

 

Le intricate vicende delle ossa dantesche

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Se ci mettiamo a discettare sul caso, ci ritroviamo in un gomitolo aggrovigliato. C’è chi nega l’esistenza del caso asserendo che tutto avviene tramite regole che ancora non riusciamo a capire perché le ignoriamo, diversamente c’è chi crede all’esistenza del caso accanto alla necessità, dove il caso innova e la necessità conserva. Io a volte propendo per la prima ipotesi, altre per la seconda. Fu comunque un caso che Dante morisse a Ravenna nel 1321, ma fu una necessità, una determinazione, se le sue ossa rimasero in terra  ravennate. Nel 1519 i fiorentini ottennero il permesso di prelevare le ossa di Dante per portarle a Firenze, ma giunti a Ravenna trovarono l’urna vuota. I francescani, praticando un buco nel muro avevano trafugato le ossa per nasconderle nel convento. La cassetta con le ossa, fu ritrovata nel 1865. A Dante non è stato eretto un grandioso monumento, le sue ossa riposano in un tempietto dell’architetto ravennate Camillo Morigia. E’una costruzione neoclassica, quadrangolare con cupola, dai colori chiari, molto semplice ma allo stesso tempo “tosta” in quanto si impone in una lunga visuale, per chi arriva da Piazza Garibaldi. L’area è molto suggestiva, chiamata zona del silenzio, con la Chiesa di San Francesco,il Quadrarco di Braccioforte, la biblioteca, il Museo dantesco, nonostante gli sforzi è anche zona di degrado, uno schiaffo in faccia al Poeta, anche se oggi è molto migliorata. Il tempietto racchiude al suo interno una bellissima opera d’arte. Nel 1483 Bernardo Bembo, capitano e podestà di Ravenna, durante il dominio veneto, incaricò Pietro Lombardo di abbellire il sepolcro col ritratto che ancora si conserva dentro. Pietro Lombardo (1435/1515)  lavorò a Padova e Venezia dove creò una fiorente bottega, lavorò in tutto il Veneto. Specializzato nella scultura funeraria, realizzò grandi monumenti, quello per il doge Mocenigo fu la sintesi della sua scultura,  egli fu l’espressione in scultura, di ciò che era la supremazia veneziana del tempo. Nella lastra Dante, è in un ambiente che simula uno studio col soffitto a cassettoni, con tanti libri, c’è un leggio e un volume aperto e un altro cui Dante poggia la mano. Ha la tunica ben panneggiata, il copricapo con cuffietta, è cinto dal lauro e ha una mano appoggiata al mento, un po’ malinconico e pensieroso. Il tutto evoca un grande intelletto, e una persona dabbene, serena e pacata.

immagine: Dante bassorilievo di Pietro Lombardo

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno26/10/2015

ROMAGNOLI ALL’INFERNO (terza parte)

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Proseguiamo la discesa agli inferi alla ricerca dei romagnoli. Dante e Virgilio sono deposti dal gigante Anteo nel nono cerchio, sulla distesa ghiacciata del fiume Cocito, nella quale sono conficcati i traditori lividi e tremanti per il freddo. Qui Dante incontra un altro romagnolo: Tebaldello Zambrasi, il quale tradì Faenza, la sua città per consegnarla in mano ai bolognesi, Dante lo cita come colui che “aprì Faenza mentre si dormia”. Sembra che Tebaldello portasse rancore ai suoi concittadini per il furto di un maiale, all’epoca possedere un porco era contare su un piccolo capitale, ma speriamo che oggi i romagnoli siano un po’ meno vendicativi. Il Zambrasi morì di lì a poco sotto le mura di Forlì, sempre in uno scontro fra guelfi e ghibellini. Nulla si impara dai libri, neanche da Dante, infatti si continua a guerreggiare, anche se pare che venti favorevoli alla pace soffino, deboli ma tenaci, anche grazie al nuovo Papa Francesco. Altro interessante traditore dell’ospite, misfatto ancora più grave, è Alberigo Manfredi, dell’ordine laico dei frati godenti, era un personaggio assai in vista a Faenza nell’ultimo scorcio del XIII secolo. Ed un suo gesto scellerato l’aveva reso famoso ben oltre le mura cittadine, tanto che Dante non sente nemmeno il bisogno di raccontare l’episodio. La tendenza dell’Ordine a scendere a compromessi con la vita agiata e mondana dei suoi membri determinarono forse l’uso del soprannome di  “frati godenti “, che non aveva un connotato dispregiativo. Sembra che frate Alberico, in una grave disputa sorta per ragione d’interessi, ebbe uno schiaffo da Alberghetto, figlio di Manfredo Manfredi suoi congiunti. Per l’onta ricevuta, Alberico concepì un odio mortale contro i suoi  parenti, e covando in cuore la vendetta sotto mentite apparenze di perdono e di pace, invitò il 2 maggio del 1285 Manfredo ed Alberghetto ad un sontuoso pranzo. Sul finire del convito, quando frate Alberico pronunziò ad alta voce l’ordine “vengan le frutta”, come a segno convenuto, alcuni suoi parenti  ed altri sei sicari, si lanciarono coi pugnali levati sui due miseri ospiti, e barbaramente li trucidarono. Alberigo,  è uno dei personaggi che Dante incontra nell’Inferno, nonostante non sia ancora morto. Il poeta spiega, infatti, che l’anima di un traditore, appena commesso il delitto, viene subito sprofondata nella Tolomea, mentre nel suo corpo sulla terra prende dimora un diavolo. Riflessione molto acuta, in quanto è assai difficile  redimersi, molto spesso a un qualsiasi misfatto commesso ci sentiamo ignobili e così ne perpetriamo altri, come se un diavolo si  fosse impossessato di noi. La lista dei romagnoli all’inferno continua, non è molto  lusinghiero che siano tanti nell’ inferno e in paradiso non ce ne sia neanche uno. Dante colloca, l’Ulisse romagnolo: Guido da Montefeltro tra i consiglieri fraudolenti dell‘VIII Bolgia dell‘VIII Cerchio dell’Inferno, dove si arde come fiamme incandescenti. È Guido a rivolgersi a Virgilio dopo che questi ha congedato Ulisse, per cui il dannato lo prega di dirgli qual è la condizione politica della sua terra, la Romagna. Virgilio invita Dante a rispondere e il poeta spiega che le varie città romagnole sono dominate da altrettanti tiranni e nessuna di queste è attualmente in guerra. Poi Dante prega il dannato di presentarsi e Guido, credendo di parlare a un altro dannato, svela la sua identità raccontando la sua storia: in vita fu abilissimo condottiero e astuto politico, poi si pentì della sua condotta e si fece frate francescano. Papa Bonifacio VIII, in lotta coi Colonna, gli chiese un consiglio su come espugnare la rocca di Palestrina, promettendogli l’assoluzione in anticipo. Pur titubante, Guido usò il malo ingegno, tradì il cordone francescano,  e consigliò a Bonifacio di promettere il perdono ai nemici e di non mantenerlo, cosa che aveva permesso al papa di radere al suolo Palestrina. Dopo la sua morte la sua anima era stata contesa da san Francesco e da un diavolo, e quest’ultimo aveva avuto la meglio sostenendo la sua colpevolezza con sottili argomenti teologici. Per un pelo, o per un coperchio, in questo caso il diavolo fece sia la pentola che il coperchio, un romagnolo non riuscì ad entrare nel paradiso, forse non siamo stati abbastanza ospitali col Sommo Poeta.

 

 

immagine: Dante e  Virgilio nel girone dei traditori

 

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”

 

 

 

ROMAGNOLI ALL’INFERNO (seconda parte)

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Continuiamo la discesa all’ inferno coi romagnoli.  All’ottavo cerchio, da cui Dante dirige il suo sguardo verso il fondo della quarta bolgia, dove una moltitudine di anime, quelle degli indovini, avanza in silenzio piangendo. Ciascuna di esse ha il viso completamente rivolto all’indietro, in modo che le lacrime bagnano la parte posteriore del corpo. Nel vedere la figura umana così stravolta Dante non riesce a trattenere un moto di commozione, ma Virgilio lo rimprovera aspramente, facendogli notare che essere pietosi verso  questi peccatori significa ignorare la vera pietà. Poi gli rivela il nome di alcuni di loro, fra questi c’è Guido Bonatti, astrologo di Forlì autore di un Liber astronomicus, trattato astrologico che ebbe larga fortuna. Visse alle corti di Federico II, Ezzelino da Romano, Guido Novello e Guido da Montefeltro. Il “Liber decem continens tractatus astronomiae, di cui esistono vari esemplari e vennero pubblicate diverse edizioni a stampa, che dimostrano  il credito e l’interesse che il testo suscitò anche nei secoli successivi. Sorvolando sulle implicazioni matematiche, Bonatti vi esponeva gli elementi basilari dell’astronomia tolemaica, aggiungendovi i risultati delle proprie ricerche ed osservazioni, con l’individuazione di ben 700 stelle. Nel  XXIII canto, il girone dei seminatori di discordia, Dante incontra un altro romagnolo, è il girone in cui si trova pure Maometto. Si avvicina un altro dannato con la gola squarciata, il naso mozzato e un solo orecchio, che dopo aver osservato Dante emette la voce attraverso la ferita nel collo: si rivolge al poeta dicendo di averlo conosciuto in Terra e si presenta come Pier da Medicina, originario della Pianura Padana. Invita Dante ad ammonire Guido del Cassero e Angiolello da Carignano circa il fatto che saranno gettati fuori da una nave e uccisi presso Cattolica, per il tradimento del malvagio tiranno di Rimini, li attirerà in un tranello con la scusa di parlare e poi li ucciderà prima di giungere a Focara. Chi sia questo Pier da Medicina non si sa bene, ma certo se continua, anche all’inferno a far previsioni funeste è certamente inguaribile come seminatore di zizzania. Dante è assai severo con gli indovini  e con chi professa previsioni e proprie idee causando discordia, questi ultimi hanno gli arti tagliati e stanno bagnati nel sangue, Dante forse non sa che pure lui  verrà  additato di essere un indovino, mago ed alchimista. Dante come buona parte dei poeti del Dolce stil novo faceva parte  probabilmente di un ordine segreto iniziatico, i Fedeli d’Amore, legato ai Templari ed in forte sospetto di eresia. In tutte le loro poesie e nei loro scritti troviamo il simbolismo della Donna come Sapienza Trascendente. Il Saluto della Donna è descritto come un’esperienza travolgente. L’inizio della Divina Commedia descrive come Dante ad un certo momento della sua vita si trovi smarrito nella selva oscura. Questa crisi spirituale è comune a molti ricercatori che, dopo avere intrapreso con i propri sforzi il cammino interiore, si trovano ad un  certo momento ad un punto morto, in una situazione di angoscia e disperazione. Con la guida di Virgilio Dante entra nell’Inferno, inizia cioè il viaggio al centro della Terra, esperienza che gli alchimisti denominavano VITRIOLVM. La ricerca della pietra filosofale o più semplicemente l’oro in sé stessi. Perché quest’impresa riesca è necessario che sia intrapresa con cuore puro, con un’intenzione corretta e insieme ad una guida. Dante sa bene il pericolo che corre e nella Commedia si raccomanda ben spesso che Lui vuole restare nella retta via, il viaggio dentro sé stessi può portare alla follia. A Ravenna, Enti, Fondazioni e singole Persone dedicano a  Dante e alla  Divina Commedia studi, convegni, spettacoli, hanno tradotto e letto la Commedia in tante lingue, in una splendida gara alla Bellezza. A me piace segnalarvi le letture e le spiegazioni dei Canti che si tengono ogni lunedì alle ore 18, al Seminario Arcivescovile, di fronte al Duomo. Il corso ha la durata di un anno scolastico ed è aperto a tutti e gratuito.  Il Professore è Padre Alberto Casalboni studioso dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna che oltre ad essere un fine conoscitore di Dante insegna l’amore per gli altri e per la conoscenza.

 

 

immagine: Guido Bonatti

 

 

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”

 

 

I ROMAGNOLI ALL’INFERNO (prima parte)

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I fumatori o le fumatrici l’inferno già lo vivono in terra, stanno col fuoco  tra le labbra, malvisti come untori dell’altrui salute  oltre che suicidi della propria vita, puzzano, sono sporchi brutti e cattivi, scialacquano il loro denaro in fumo, peggio dei giocatori incalliti e dei bevitori, quindi alla loro morte, avendo vissuto in terra l’inferno andranno sicuramente in paradiso nel  primo cielo, che  è il cielo della luna, considerato un pianeta nel Medioevo, e la cui caratteristica peculiare è l’incostanza: risiedono qui, infatti, le anime di coloro che mancarono ai propri voti, non per scelta bensì perché costretti. Infatti si vorrebbe smettere di fumare ma non ci si riesce. Io sono una fumatrice, e andrò in paradiso, mi è venuta quindi la curiosità di sapere quali romagnoli Dante mise all’inferno. I primi due, i più famosi,  Paolo e Francesca non meritarono certo l’inferno, altrimenti oggi non ci sarebbe più posto, mentre sarebbero vuoti  sia il purgatorio che il paradiso.  Dante e Virgilio scendono al secondo girone, quello dei lussuriosi. I due poeti entrano nel luogo dove sono puniti i lussuriosi, travolti dalla bufera che castiga l’insana passione. Una schiera di anime incuriosisce Dante che chiede notizie al maestro. Virgilio prontamente risponde, ed elenca alcuni di questi lussuriosi, morti in modo cruento. Si sofferma su Semiramide e poi indica donne e uomini, protagonisti del passato mitologico e storico: Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride, Tristano. Dante colpisce i protagonisti di grandi amori, qui è un po’ ipocrita perché lui personalmente idealizzava Beatrice, ma con le altre si dava da fare carnalmente. Dante scorge due anime che procedono insieme e sono al vento più leggere. Egli domanda a Virgilio di potersi intrattenere con loro e quando si accostano le invita a restare e a parlare ed esse si fermano desiderose. I due infelici amanti, uniti anche nell’eternità, sono Paolo e Francesca. La donna rammenta la città natale, Ravenna, e accenna al suo innamoramento per Paolo, seguito dalla tragica morte per mano del marito Gianciotto, geloso e vendicativo. Un grande turbamento assale Dante che pensa ai casi dei due amanti, alla dolcezza del loro amore così tragicamente concluso. Dante sviene, sa che anche lui non è uno stinco di santo, forse il girone lussurioso capiterà pure a lui, e a tutti noi, sarebbe ora di togliere la lussuria dai vizi, fa bene alla salute, rende allegri e sereni, toglie la rabbia e il livore, la Chiesa è entrata in camera da letto nel milleduecento, sarebbe ora che ne uscisse… ma purtroppo i tempi non sono ancora maturi. La  Chiesa, nel Medioevo, accettò le regole del diritto germanico in materia matrimoniale, benché fossero completamente diverse da quelle del diritto romano, dal momento che non riconoscevano alcuna autonomia alla volontà degli sposi.  Per lungo tempo invece la chiesa si oppose soprattutto a due aspetti del diritto germanico, lo scioglimento delle famiglie per ripudio o divorzio consensuale e il concubinato ammesso accanto al matrimonio principale (Carlo Magno arrivò ad avere fino a quattro concubine). Nel frattempo la chiesa  riuscì ad imporre la propria visione  nell’XI-XII secolo.  il prete, dopo aver indagato sui rapporti di consanguineità, doveva accertare negli sposi l’esistenza di una libera volontà presente. Il matrimonio divenne così materia di diritto canonico:  il matrimonio come l’unione dell’uomo e della donna che fonda tra loro una comunità di vita. Mentre fra teologi e canonisti restava aperto il dibattito sul rapporto fra dottrina del consenso ed effettiva unione sessuale… ecco su questo ultimo tema occorrerà tenere a mente Herbert Marcuse e la repressione come prezzo per la civilizzazione, se vuoi vivere civilmente devi reprimerti,  sarà per questo che  si dice che il matrimonio è la tomba dell’amore?

 

 

immagine:  Paolo e Francesca all’inferno

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”