IL NOCINO DI ROMAGNA

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Un liquore tipico della nostra bella terra è il nocino.  E’ una pozione  di noci acerbe, raccolte, secondo la miglior tradizione, nei giorni vicini alla festa di San Giovanni,  messe in infusione in alcol con aggiunta di zucchero e, in piccole quantità, di aromi.  Scommetto che molti di voi ne hanno una propria ricetta oppure hanno contribuito alla raccolta delle noci ed alla sua preparazione. Certo oggi gli appassionati  sanno fare tanti  altri liquori, tipo il limoncello o altri a base di caffè. Ma il nocino ha un’antica storia che viene ancora prima che ci colonizzassero i romani.  Era l’infuso dei druidi, gli antichi sacerdoti dei  celti. Quando i romani invasero la Britannia vi trovarono uno strano popolo che, per l’uso che avevano di dipingersi il volto e di tatuarsi il corpo, chiamarono Picti (dipinti ). Questo popolo usava bere, specialmente nella notte del solstizio d’estate durante riti particolari, uno strano liquido scuro che li rendeva particolarmente euforici, un infuso di noci acerbe e miele.  Il noce è l’albero, dice la leggenda, attorno al quale si riunivano a convegno le streghe nella notte di  San Giovanni. L’albero del noce era considerato sacro per le streghe, ma non per i contadini che lo piantavano a distanza dagli altri alberi da frutto perché a quei tempi era radicata la credenza  che fosse velenoso .  Nel processo di cristianizzazione il noce ha subito una metamorfosi, trasformandosi da albero  luciferino in pianta benefica, associata, addirittura ad un santo.  San Giovanni morì decapitato,  il 24 giugno, fu  Salomè che  dopo aver danzato per il padre, fu indotta dalla madre a chiedere come ricompensa la testa di Giovanni, che le fu portata  su un vassoio.  La leggenda vuole che durante la notte tra il 23 e il 24 giugno, che è la notte più breve dell’anno, la donna giudicata più abile nella preparazione del liquore  nocino  raccolga a piedi nudi le noci ancora verdi , ciò ricorda da vicino un antico rito druidico.  Il nocino deve stare in  infusione  fino alla notte di Halloween (31 ottobre), un’altra ricorrenza celtica.

 

 

immagine: nocino e noci per la preparazione

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”

MAZAPEGUL IL FOLLETTO DI ROMAGNA

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Anche gli scienziati lo dicono, il sole, l’estate accendono il desiderio e quindi: tempo d’estate, tempo di probabili corna. Così vi parlerò di Mazapegul. Uno dei più singolari personaggi della tradizione romagnola, un folletto con uno strano berretto rosso, dispettoso e causa di pesi allo stomaco. Si diceva  al tempo dei nonni… non ho dormito bene, un peso allo stomaco, come una pietra, sarà stato Mazapegul? Tante sono le favole legate all’ inquietante Mazapegul, una delle più  divertenti è la storia di una ragazza, la quale ricambiando l’amore notturno del folletto, ebbe da lui molti servigi come una casa perfettamente linda, candidi bucati e dolci fragranti. Invaghita da tanta generosità, la giovane donna espresse il desiderio di vedere la faccia del suo amante e, nonostante i dinieghi  di Mazapegul, lo costrinse a mostrarsi, ma all’orribile visione del suo amato, la ragazza morì di schianto. Si tratta di una popolare versione della favola di “Amore e Psiche” che ci attesta come, dietro al folklore,  esista una rete di intrecci psicologici e antropologici. Ma cosa c’entra Mazapegul con le corna? Come vi ho già scritto il folletto a che fare con  impulsi erotici. Chi poteva essere la ragazza? Nelle famiglie patriarcali di qualche decennio fa, la vita familiare era promiscua, spesso vi era anche il garzone, di solito un giovanotto. Capitava quindi qualche amore, così come oggi accade in ufficio. Lo stretto contatto fa sì di piacersi. Rinunciare? No, i nostri nonni avevano molto buon senso, sì all’amore mai rinunciare o disfare una famiglia. Una trentina d’anni fa, al mio paese, un marito tornò a casa prima dal bar e trovò qualcuno al suo posto nel letto, vide solo un’ombra che fuggiva indistinta, la moglie gli disse, che si era sbagliato, che non c’era nessuno, negò talmente tanto che alla fine il marito cedette. Sembra, che anche se ti trovano sul fatto, durante l’amplesso, occorra negare, negare anche l’evidenza, perché si crede sempre quel che si vuol credere e non ciò che fa male. Comunque il marito soleva dire agli amici al bar, mentre giocava a briscola: ”Però questo Mazapegul è un peso allo stomaco che vi auguro di non dover sentire mai”.

 

immagine: Incubo di Johann Heinrich Fussli

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”

LA PIGNA DI RAVENNA

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La pigna è un po’ il simbolo di Ravenna, si trova nel suo stemma e un po’ in giro  sulle tombe e sui palazzi.  Il simbolo della pigna è uno più misteriosi che si possono trovare nell’arte. La pigna allude al più alto grado di illuminazione spirituale possibile. Il suo simbolo può essere trovato tra le rovine indonesiane, babilonesi, egiziane, greche, romane, e cristiane, solo per citarne alcune. Appare anche nei disegni delle tradizioni esoteriche, come nella  massoneria, nella teosofia, nello  gnosticismo e nel  cristianesimo esoterico. La pigna ha molti significati e per la sua forma è associata all’uovo, da artista dilettante ho costruito in mosaico due pigne per il mio  cancello, ebbene i vicini credevano fossero uova, quindi all’uovo cosmico, alla nascita. Era usanza ben prima della Pasqua cristiana di regalare uova colorate proprio con riferimento alla pigna. La pigna non è legata solo alla Pasqua ma anche al Natale. L’abete, il cui frutto è la pigna, è un sempreverde, riferimento all’immortalità,  è l’albero tipico che si addobba per Natale. Altro significato  della pigna, essendo colma di semi, è quello della fertilità . Nei  letti delle nonne, a volte si trovavano le pigne  decorate sui vecchi letti in ferro .  Servivano per augurare un matrimonio con figli sani e far sì che la camera da letto divenisse un luogo sacro e fertile. Ancora oggi il Sindaco di Faenza regala alla mamma del primo nato dell’anno nuovo un’impagliata, tazza tipica per puerpera, che  ricorda la  forma di una pigna.  La pigna è anche simbolo di fertilità di mente e prolificità di idee, e per la resina che produce, solidificata diventa ambra, è associata alla resistenza e alla tenacia e qui mi sembra che rappresenti bene i romagnoli, noti in tutto il mondo per la loro testardaggine o “zucconeria”. D’altronde se abbiamo la zucca grossa avremo anche un cervello più pesante/pensante. Qualche buontempone, dice che oggi la pigna non è più il simbolo dei ravennati, il nuovo simbolo  non solo per i cittadini di Ravenna ma di tutti i romagnoli, sarebbe il cocomero.  Il cocomero ha la scorza verde, la polpa rossa ed i semi neri ( cioè il romagnolo è insieme repubblicano, che comunista ed anche fascista).

 

immagine: Stemma di Ravenna col pino carico di pigne

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”

LA CICALA E LA FORMICA

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Nelle campagne il cicaleccio accompagnava i mietitori nelle loro fatiche, facendoli meditare sull’ingiustizia che lì a poco avrebbero subito nella spartizione del raccolto col padrone. Spesso pensavano che il canto non annunciasse che questo, tanto che, in Romagna, accatastando i covoni, ripetevano amaramente: “dice la cicala al cicalino: il grano al padrone e la paglia al contadino”.
Un ”gioco” comune tra i ragazzi di un tempo, di una crudeltà inaudita, era quello di catturare questi insetti alla mattina, quando erano ancora intorpiditi dal freddo della notte, per poi infilarvi una pagliuzza nell’addome. Dopo tale tortura, le cicale non erano più in grado di cambiare direzione nel volo, ed erano costrette a volare in linea retta fino a quando non cadevano stremate dalla fatica. Di questo crudele trastullo fanciullesco, resta il  modo di dire “andar dritto come la cicala con la paglia nel sedere”, riferito a chi, dopo avere subito un torto, cammina via dritto, senza mai voltarsi.  La proverbiale inoperosità della cicala, traspare da un detto bolognese: gratar la panza alla zigala (grattare la pancia alla cicala), riferito a chi se ne sta in panciolle tutto il giorno e chiacchiera tanto per far trascorrere il tempo. Esopo, un greco  un po’ antipatico e molto nichilista, umilia la cicala, la quale chiede aiuto alla formica, alla fine dell’estate, e riceve un secco rifiuto, la formica risponde: ”hai cantato, adesso balla”. La formica è laboriosa ma anche molto aggressiva. Ben diverso l’atteggiamento di San Francesco che loda la cicala ringraziandola perché ascoltando il suo canto lavora con più lena e meno fatica. Le cicale sono insetti con il corpo di forma tozza, simili alle vespe ma più voluminose, vivono sugli alberi di diversa specie e sulla vegetazione. Le cicale sono note soprattutto per il canto dei maschi che emettono un suono stridente e  insistente, quasi una trasposizione del nostro affannarci nella vita. Ci accompagnano per tutta l’estate col loro frinire che è  un canto d’amore, serve per attirare le femmine, che accorrono per accoppiarsi. La femmina depone poi le uova e le larve si  autoinumano. Le larve delle cicale sono sotterranee e possiedono zampe anteriori scavatrici grazie alle quali si spostano da una radice all’altra per nutrirsi. La larve in genere rimangono sotto terra per quattro o cinque anni, poi lasciano il terreno, si arrampicano sui tronchi degli alberi, effettuano una metamorfosi, quindi salgono sulla chioma frondosa e cantano all’impazzata. Ci sono certe cicale che rimangono “sepolte vive” anche sino a  diciassette anni.  L’eccezionale stile di vita dell’insetto è fonte di interesse sin da tempi antichissimi. Diverse culture, tra cui gli antichi cinesi, consideravano questi insetti come simbolo di immortalità. Sapete che vi dico, da  incompetente quale sono, se mi avvicino un poco alla scienza, rimango talmente stupita dai miracoli della Natura, gli studiosi ancora non riescono a spiegare  tutto, che posso credere all’esistenza di Dio. Quando gli scienziati si dichiarano atei, mi chiedo: ”come fanno a non credere quando loro sono a contatto col mistero ogni giorno ?” Per concludere, è meglio stare dalla parte della cicala o da quella della formica? Non molto tempo fa ero in una chiesa a Roma, mi misi a questionare sulla vita di Dante, con un priore  domenicano, con gran faccia tosta da parte mia, i domenicani sono frati predicatori ed hanno una grande conoscenza. Il Priore fu molto gentile e alla fine mi convinse sull’appartenenza di Dante all’ambito domenicano. Tornata a casa, letteralmente corsi da un padre francescano,  che a Ravenna tiene lezioni su Dante . “Padre, padre, un domenicano mi ha detto che Dante non si sentiva un francescano, anche se volle essere sepolto col saio”. Con un sorriso dolce e uno sguardo buono, il frate mi rispose: ”Dante aveva la testa “domenicana” e il cuore “francescano”.

 

 

immagine: cicale fra il fogliame

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”

IL VERO FISCHIO DI CESENA

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Il legame fra Cesena e San Giovanni affonda le radici nei secoli. Fin dal Medioevo è testimoniata la devozione a questo santo, che è patrono della città insieme alla Madonna del Popolo. Secondo alcune tradizioni, per altro non suffragare da fonti storiche, a Cesena il culto di San  Giovanni Battista sarebbe  arrivato, tramite un gruppo di fiesolani nel Medioevo. In onore a San Giovanni, si ripete da secoli, attirando tanti visitatori, la grande fiera di Cesena che coincide con l’inizio dell’estate. Sono soprattutto due  prodotti della terra a contraddistinguere l’appuntamento di fine giugno: la lavanda e l’aglio. Venduti l’una in grandi mazzi odorosi, l’altro in lunghe ghirlande. La loro presenza è legata a suggestive tradizioni agresti e credenze popolari, che in qualche modo sopravvivono ancora. Per le casalinghe del passato San  Giovanni era l’occasione per far provvista delle profumate spighe, capaci di debellare le insidiose tarme nemiche dei panni riposti  negli armadi. E l’aglio, oltre che prezioso ingrediente in cucina, rappresentava il rimedio per alcune  malattie diffuse nelle campagne, oltre che essere amuleto contro vampiri e malocchio. Un antico profumo di incantesimo e stregoneria  permea la notte  di San Giovanni, è la notte  più breve  dell’anno. Secondo una  soave credenza, in questa notte, fra il 23 e il 24 giugno, le fanciulle in età da marito avevano la possibilità di vedere, nei sogni, l’uomo che avrebbero sposato: bastava che si bagnassero gli occhi con la rugiada.Ma la tradizione più bella di questa fiera è  il fischietto di San Giovanni, di colore rosso, a forma di ochetta, il colore è determinato dal fatto che rappresentava un dolce omaggio per la “filarina”. Il fischietto in terracotta raffigurava normalmente forme di uccelli. Il primo stampo del fischietto di Cesena era quello di un gallo, tipico simbolo romagnolo. Però il gallo era ed è anche l’emblema di Forlì. Urgeva trovarne un altro per Cesena. Ed ecco la piccola oca, in omaggio alla Val d’Oca, rione del centro cittadino così chiamato perché anticamente era una zona paludosa popolata da oche. Bei tempi andati, quando in queste  feste di paese il ragazzo regalava alla sua bella il  fischietto di zucchero rosso…  con tutti i sottintesi nascosti.

immagine: bancarella coi fischietti di Cesena

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”