Un cedro miracolo

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Il 1° maggio a casa mia alla fine del pasto, si gustava come dessert un piatto a base di cedri sbucciati, tagliati a fette, precedentemente lasciati macerare con lo zucchero, buonissimi, ne ero ghiotta e per lungo tempo ho ritenuto i cedri legati ai simboli della Festa del Lavoro o a quelli celtici. Mi sbagliavo. La Chiesa di Santa Maria dei Servi di Forlì, detta anche Chiesa di San Pellegrino, sorge in Piazza Morgagni, piazza dedicata all’illustre medico e patologo forlivese, fondatore della medicina clinica moderna, la scelta di posizionare qui la sua statua fu ben azzeccata. La basilica fu costruita intorno al 1250 e fu subito occupata dai frati mendicanti dell’ordine dei Servi di Maria, che arrivarono a Forlì nel 1271. La chiesa divenne famosa per la santità di frate Pellegrino Laziosi, taumaturgo, pregato e invocato contro i mali inguaribili, in particolare   contro le malattie cancerogene. Pellegrino non diventa sacerdote, non predica e non scrive, prega con penitenza severa sempre sorridendo. Si inventa una speciale mortificazione: sta trent’anni senza mai sedersi, procurandosi danni fisici che prevedono l’amputazione della gamba. L’intervento non si fa, perché la gamba guarisce spontaneamente. Pellegrino disse di aver visto in sogno il Signore che lo liberava dall’infermità scendendo dalla croce e toccandogli la gamba. Dopo il miracolo, tutti accorrevano dal frate per chiedere guarigioni e alla sua morte, 1° maggio 1345, accorsero da ogni dove per cui non fu possibile chiudere le porte della città. Avvennero anche dei miracoli: sanati un cieco e un’ossessa. Il 1° maggio, a Forlì si svolge, la Sagra dei Cedri, il frutto che per le proprietà farmacologiche è diventato il simbolo del Santo,   per le sue virtù terapeutiche.(Ve la ricordate la Magnesia San Pellegrino pubblicizzata un tempo come la panacea per tutti i mali?La scelta del Santo non era casuale). L’edificio, nonostante i vari rimaneggiamenti nei secoli, conserva tracce che ne testimoniano l’antichità. Notevole è il portale esterno, in pietra e laterizio, dalle linee in stile gotico padano. L’interno, secentesco è una bomboniera, un sobrio barocco dove il colore predominante è il rosa cipria. L’impianto è basilicale a tre navate scandite da pilastri. La Cappella di San Pellegrino, è ricca di marmi e ori, qui si conserva  la salma del Santo, sul fondo, la tela di Simone Cantarini:“Crocifisso che risana la gamba a San Pellegrino”. Cantarini valido pittore, fu allievo di Guido Reni, era molto arrogante, arrivava al punto di criticare e correggere il Maestro in pubblico e di insultare i suoi compagni di studi; fu così definito:“Largo stimator di se stesso, sprezzator d’ogni altro”. La chiesa non ha finito di mostrare i suoi gioielli, vi  è un pregevole quattrocentesco coro ligneo ad intarsi ma soprattutto vi è il sepolcro Numai. Appena entrati troviamo sulla destra, la tomba di Luffo Numai (1441-1509), personaggio importante che seppe ben introdursi nella Forlì rinascimentale, dal periodo di Pino Ordelaffi III  fino all’avvento di Cesare Borgia. Di famiglia antica e nobile, ricoprì alte cariche, ospitò perfino il Borgia in casa propria. Volle far erigere, per sé e sua moglie, un pregevole monumento funebre (1502), dove appare la scena della Natività, scolpita da Tommaso Fiamberti e da Giovanni Ricci. L’interno della chiesa sembra che prenda i colori dalla lastra tombale, in quanto il sepolcro ha le stesse tinte pastello: avorio e rosa cipria. E’ una Natività dalle belle figure classiche e armoniose, vi è la Sacra Famiglia, il bue, l’asino,i pastori e gli angeli musicanti e insolitamente, un grosso uccello sulla capanna che pare proprio un corvo. La leggenda narra che la Sibilla Cumana, che predisse la nascita di Gesù, si era illusa di essere lei la vergine designata, poi sentì gli angeli annunziare la nascita del Bimbo, capì la sua presunzione e venne trasformata in corvo. Nel 1509 il Fiamberti scolpì un secondo monumento funebre, commissionato da Luffo Numai, si trova nella chiesa di San Francesco a Ravenna. Numai fu cacciato per un periodo da Forlì, riparando a Ravenna, ma poi vi fece ritorno ed è sepolto nella tomba di Forlì.
articolo già  pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 27/04/2015

Le tradizioni culinarie della Quaresima romagnola

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“Chi dzona tot’ la quaresima infera a e’ sàbat sânt quând l’ariva a Pasqua l’à pers e’ fiânc”. Chi digiuna tutta la Quaresima fino al Sabato Santo quando arriva a Pasqua ha perso il fianco. La Quaresima ha inizio dal Mercoledì delle ceneri, giorno in cui era usanza cospargere la fronte dei fedeli con le ceneri benedette. All’inizio il rito era riservato solo ai penitenti poi, in seguito abolita la penitenza pubblica, il rito fu esteso a tutti i fedeli, per rammentare il destino mortale provocato dal peccato originale. Una delle formule rituali del Mercoledì delle ceneri recita:“Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”. La Quaresima è un periodo di digiuno che inizia dopo l’ultimo giorno di Carnevale, il  Martedì grasso, dura quaranta giorni (escludendo le domeniche) e termina con la Pasqua. Ricorda i quaranta giorni che Gesù passò nel deserto, ma il numero quaranta è simbolicamente presente più volte anche nel Vecchio Testamento. E’ un periodo di purificazione durante il quale si effettua il digiuno (Mercoledì delle Ceneri e Venerdì Santo) e l’astinenza dalle carni (tutti i Venerdì), permesso il pesce. La carne era molto costosa un tempo mentre il pesce era a buon mercato. Fino a quarant’anni fa in Quaresima era imperativo mangiare di magro, anche i ricchi, però loro avevano il pan cotto arricchito di latte e formaggio, mentre il pan cotto dei poveri era pane e acqua. Nella tavola si portavano il pane, polenta, zuppe o minestre di ortaggi, brodo matto, uova, pesce fresco o conservato, noci, nocciole e “cuciarul” (castagne secche). Per i più poveri l’aringa, una sola per tutti i commensali, ci si sfregava il pane a turno, si mangiava col profumo e basta. I nostri bisnonni la Quaresima la facevano tutto l’anno e molti soffrivano di pellagra. Oggi non si seguono più i precetti religiosi, si ha carne in abbondanza e si ricercano i piatti poveri di una volta. Io ricordo con l’acquolina alla bocca i cuciarul. Vi scrivo la ricetta. Mettete a bagno i cuciarul la sera prima, poi cuoceteli in acqua con qualche foglia d’alloro per circa due ore fino a quando saranno diventati teneri. Gustateli col loro brodo, oppure scolateli, nel brodo cuocete i quadrettini all’uovo, intanto rimettete sul fuoco i cuciarul per un quarto d’ora con vino e zucchero. Il castagno era chiamato “l’albero del pane” e i cuciarul fanno parte dei prodotti tradizionali della Romagna.

 

immagine: i cuciarul

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 16/02/2015

Il capro espiatorio della miseria? Un serpente

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Nel ricco folklore della Romagna, soprattutto nelle campagne di un tempo, fra  i Mazapegul, i  Calcarel, i draghi, i mostri e i serpenti c’è un animale fantastico chiamato béssa latôna ( la biscia lattona  o il serpente lattaro) essa doveva il suo nome all’abitudine di nutrirsi solo di latte. Un tempo si trovava nelle campagne, dove la si vedeva spesso succhiare il latte dalle mammelle delle mucche. Mentre di notte, narra la leggenda, si nascondeva sulle travi poi scendeva per nutrirsi di latte sottraendolo al neonato. Ai primi vagiti del bimbo, approfittando dello stato di dormiveglia nel quale la madre si apprestava a porgere il seno al bambino, la biscia maledetta  sostituiva con la propria bocca quella del neonato, mettendo in bocca all’infante l’estremità della sua coda per farlo tacere. Il nascituro così deperiva di giorno in giorno, fino a morire lasciando la madre affranta. Esiste un serpente chiamato Cervone, molto frequente in Italia, oggi è protetto in quanto sta scomparendo, vive  nei pressi  di boschi, radi e soleggiati, a vegetazione sparsa,  nei muretti a secco e negli edifici abbandonati. È il più lungo serpente italiano ed uno tra i più lunghi d’Europa. La sua lunghezza può variare dagli 80 ai 240 cm. È di colore bruno-giallastro con barre  scure. Si nutre di topi, uccelli, lucertole  e uova, è un terricolo ma è un buon nuotatore e un agile arrampicatore, aiutandosi con la coda prensile. Può vivere oltre vent’anni. La credenza popolare voleva che fosse attirato dal latte delle vacche e delle capre al pascolo, e che per procurarselo si attaccasse alle mammelle degli animali, o addirittura lo leccasse dalle labbra sporche dei lattanti è perciò chiamato anche serpente del latte o lattaro. Così ecco decifrata la leggenda, i contadini romagnoli conoscevano certamente le caratteristiche di questo serpente: sempre affamato e in grado di arrampicarsi sulle travi  il quale diveniva il capro espiatorio delle loro condizioni miserevoli. Con chi dovevano prendersela se le loro donne erano malnutrite e perciò col latte scarso e povero di nessuna sostanza per i loro figli, i quali già denutriti in fasce, morivano in tanti. Con chi dovevano prendersela i contadini? Col padrone? (Allora si chiamava così, non datore di lavoro o principale) Avrebbero perso anche quel poco che avevano, la béssa latôna invece non avrebbe protestato.

immagine: il serpente Cervone

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 08/12/2014 

 

PRIMO MAGGIO DA RINASCITA

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Da bimbetta di appena due o tre anni avevo compreso che c’erano delle feste molto importanti che si festeggiavano il primo del mese, ma tendevo a confonderle. Una non mi piaceva per niente, essendo femmina anche se piccola, non mi era permesso mettere il naso fuori dalla porta, portavo iella, trovavo questa cosa ingiusta e guardavo dai vetri della finestra, dispiacendomi di essere nata  bambina, era il primo gennaio. L’altra era legata a degli scherzi che facevano divertire qualcuno ed arrabbiare qualcun altro  e capitava pure che litigassero, a me non piaceva per niente, era il primo d’aprile. Ma c’era un giorno in cui essere femmine era bello, la nonna mi metteva un rametto  d’acacia tra i capelli, la porta era adornata di questi fiori odorosi, io potevo uscire e scorazzare dove volevo, raccogliendo fronde e rami per le finestre, i grandi erano contenti e le donne ricevevano fiori, era il primo maggio. “…nella notte d‘ingresso di tale mese, elettrizzandosi la gioventù, accorrono i giovani a cantare il maggio sotto le finestre delle loro favorite. Contemporaneamente si sentono torme di giovinette cantare canzoni ponendo sulle finestre ed alle loro porte rami di albero con fiori, come dire di avere piantato maggio” (Michele Placucci – 1818). Il concetto di folklore come insieme di documenti e resti del passato è molto vivo in Romagna, il Calendimaggio o cantar maggio, trae il nome dal periodo in cui ha luogo, cioè l’inizio di maggio. Una tradizione antica imponeva che venissero lasciati fiori e ramoscelli intrecciati sui davanzali delle case di fanciulle da corteggiare, alla sera venivano eletti il re e la regina di maggio,  mentre  la mattina presto gli uomini innalzavano “l’albero di maggio”, di solito un pioppo o una betulla, che veniva  adornato di cui ne rimane il retaggio nell’odierno albero della cuccagna. Un po’ più vicino a noi, solo qualche decennio fa in Romagna  “la piòpa” (il pioppo era l’albero della libertà piantato in tante piazze al tempo della Rivoluzione francese perché il nome scientifico è Populos ovvero popolo)  del primo maggio aveva in cima un  vessillo rosso, si svolgevano cortei di  bestiame e di trattori, molti uomini portavano all‘occhiello un garofano rosso… tutto si era mescolato. La festa del lavoro è il primo maggio, i motivi risalgono ai gravi incidenti accaduti nei primi giorni di maggio del 1886 a Chicago (USA), alle battaglie dei lavoratori, e forse anche perché  in questo giorno si festeggia San Giuseppe lavoratore, ma  ne siamo sicuri? Il primo maggio potrebbe risalire a una festa celtica che si svolgeva in questo giorno:  “Beltaine” in cui si festeggiava l’amore e il corteggiamento, il falò era una parte rituale molto importante, saltare sui carboni ardenti era propiziatorio sia per le persone che per il bestiame. Si innalzava  un palo inghirlandato  che piantato nella terra, simbolicamente la fecondava. Si eleggevano il re e la regina di maggio, mentre i giovani del villaggio raccoglievano i fiori con cui decorare se stessi, i loro familiari e le loro case. Vi erano poi i “matrimoni di maggio” che potevano durare  forse solo per quella notte ma  qualsiasi bambino fosse stato concepito durante la festa veniva considerato figlio degli dei, erano i figli di maggio, nati nel mese della dea Maia, una dea romana che  prende il posto della dea celtica Bona. Eppure  anche se ai Celti subentrano i Romani, alla dea Maia, Vulcano  (dio del fuoco) il primo di maggio  le offriva una scrofa gravida, i sottintesi ci sono tutti, la parola maiale deriverebbe dal nome della dea Maia. Questi riti antichi la Chiesa li ha trasformati  nel mese della Madonna e di San Giuseppe lavoratore già molto tempo fa, nonostante ciò nelle nostre campagne  sopravvivevano fino  a pochi decenni fa. Il primo maggio di oggi è la festa dei lavoratori e quindi di tutti, si festeggia anche oggi all’aperto di solito fra alberi, magari con un pic nic, in un clima conviviale ascoltando oltre a un piccolo comizio l’orchestra… cantar di maggio continua.

immagine: Palo di Maggio ( rievocazione di Beltane)

articolo già pubblicato dal quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 28 aprile 2014

PESCE D’APRILE LE ORIGINI

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Da dove derivi l’origine del pesce d’aprile nessuno lo sa con certezza, si tramanda ormai da secoli,  ma questo pesce sfugge a qualsiasi pescatore. Le leggende sono tante, una narra che la creazione del mondo terminò il 1 aprile e  Dio tornò in cielo. Gli uomini non sapendo cosa fare si misero a cercare il cibo per sfamarsi ma i più stolti intralciavano le ricerche dei più efficienti, così gli sciocchi furono inviati lontano a prendere cose inesistenti. Venendo un po’ più avanti coi tempi c’è chi ci  trova un’allusione ad un antichissimo uso degli Ebrei, quello di mandare, per disprezzo, una persona in giro di qua e di là, come fecero per Cristo. Un’altra ipotesi riferisce che un tempo il 1 d’aprile era la data che segnava l’inizio dell’anno, data che fu poi spostata dalla Chiesa al 1 gennaio, la vecchia tradizione continuò a sopravvivere tra i pagani, che per questo venivano derisi e scherniti. Altri fanno riferimento alla festività di Hilaria  (gioia) il 25 marzo i Romani festeggiavano la dea Cibele, la particolarità di questo giorno di festa era il permesso di dare vita a qualsiasi forma di scherzo o gioco. Oppure hanno ipotizzato come origine del pesce d’aprile il mito di Proserpina che dopo essere stata rapita da Plutone, viene cercata dalla madre;  ed anche alla festa pagana di Venere Verticordia (che cambia i cuori), che aveva attinenza con l’usanza di prendersi gioco degli altri. In Francia il 1 Aprile 1634, il duca Francesco di Lorena, prigioniero del re Luigi XIII, riuscì a fuggire dal Castello di Nancy nuotando sotto il pelo dell’acqua di un fiume, le guardie furono derise commentando che erano state raggirate da un enorme “pesce”, da qui la scelta del simbolo del pesce del 1 aprile. Un’altra variante francese è legata al 1564 quando Carlo IX  adottò il calendario gregoriano (Giulio Cesare nel promulgare il calendario giuliano, stabilì che   l’anno iniziasse il 1 gennaio  anziché il 1 marzo, quando l’impero romano  crollò, ogni stato iniziò ad avere una datazione diversa che poi si unificò col calendario gregoriano introdotto nel 1582 da papa Gregorio XIII). Non tutti accettarono il cambiamento, questi ultimi che preferivano festeggiarlo il 1 aprile venivano presi in giro come “Poisson d’Avril”.  In Inghilterra  1 aprile è l’“April Fools” (sciocchi d’aprile). Insomma questo giorno d’aprile a che fare con gli schiocchi, gli scherzi e i pesci. Ma il pesce cosa c’entra? In quei giorni il sole lascia il segno dei pesci e va in ariete. In Romagna c’è stato un tempo  in cui usavano fare scherzi feroci il solito Michele Placucci riporta: “Si rinviene un uomo il più goffo, ed il meno accorto della villa, gli si pone addosso una cassa piena di sassi, e gli si commette di portarla alla parrocchia dicendogli che sono le chiavi dell’alleluia; dalla chiesa si fa girare qua e là, finché si accorge della burla”. Le ipotesi non finiscono qui ce ne sono altre, in Scozia, il “pesce d’aprile”viene chiamato  “Taily Day” ( giorno delle natiche), gli scozzesi attaccano alle spalle un cartello  con la scritta “Kick me”( Prendimi a calci). Il pesce è anche un simbolo fallico e posto alle spalle, capite bene il significato, guarda caso nella storia  egiziana il pesce del Nilo inghiottì  il pene di Osiris. Così arriviamo alla decifrazione del pesce d’aprile, non è nient’altro che il capro espiatorio, ora lo si ricorda bonariamente un tempo lo si uccideva. La ricerca di un capro espiatorio è il tentativo inconscio di scaricare l’energia negativa che non siamo in grado di sopportare è la soluzione per trovare un colpevole piuttosto che risolvere il problema che, in questo modo, viene solo rimandato. La Chiesa che la sa lunga sulle tradizioni il 1 aprile festeggia Sant‘Ugo di Grenoble vescovo integerrimo che si adoperò per la riforma dei costumi del clero e del popolo e, durante il suo episcopato fu esempio di carità. La remora è un pesce di mare che ha una una sorta di ventosa, con cui si attacca a scafi o a pesci più grandi, in antichità si pensava che questi pesci potessero fermare le navi, il loro nome significa: indugio, ritardo, freno. Meglio allora agire con remora agli scherzi che divertono solo chi li fa e gli spettatori, non chi li subisce.

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 31/03/2014

I FIORI IN CUCINA? PROVATELI E NON VI PENTIRETE

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In primavera è bello passeggiare in campagna e in luoghi incolti, raccogliendo le erbe ma anche i fiori con cui si possono effettuare piatti buoni e belli. I fiori sono utilizzati in cucina sin dall’antichità e la tradizione mediterranea ne usa di tante tipologie diverse. Utilizzare i fiori in cucina può rendere molto particolare un piatto tradizionale, con i fiori possiamo abbellire e colorare le nostre creazioni culinarie. I fiori da mangiare io li uso  in particolar  modo nelle insalate,usando le pratoline l’effetto visivo sulle foglie verdi è delizioso come pure il gusto. Con questi fiori elaboro un altro piatto, dei crostini su cui spalmo del mascarpone a cui ho aggiunto pratoline tritate, un po’ di sale e pepe e naturalmente sopra un fiore integro. Non tutti i fiori sono commestibili, non toccate l’azalea e l’oleandro i quali hanno foglie e fiori velenosi. Nella lista dei buoni da mangiare ce ne sono tanti, ad esempio:  aneto, arancia, basilico, sambuco, begonia, viola, garofano, girasole, primula, menta, mirto, ginestra, malva, pesco, melograno, con quest’ultimo si abbina bene la carne, alla fine della cottura aggiungere i fiori e mantecare. Un’idea che stupisce piacevolmente gli ospiti è il ghiaccio coi fiori dentro, semplicissimo da fare. In Romagna la raccolta e l’uso delle erbe e dei fiori per cibarsene e per l’utilizzo erboristico è una tradizione. Mia nonna preparava le frittelle con i fiori d’acacia, questi fiori  candidi hanno un profumo intenso paragonabile solo all’invadenza della pianta. Per le frittelle occorrono i  fiori, le uova, il latte e la farina, un po’ di zucchero e un pizzico di lievito, quindi si frigge   versando il composto a cucchiaiate in olio bollente. A Casola Valsenio in maggio e giugno si svolge la Festa delle  Erbe in  Fiore. La Festa unisce visite guidate alla scoperta di fiori, erbe selvatiche e officinali nel famoso Giardino delle Erbe, che accoglie oltre 400 specie di erbe officinali ed aromatiche, a degustazioni di ricette a base di erbe e fiori, conferenze e laboratori. E’ possibile  trovare  cibi strani ma buoni  come: cream caramel con il basilico o gelato con rose accompagnato da salsa di viole brinate con lo zucchero . Non è difficile brinare un fiore, la tecnica è semplice: basta spennellare con una chiara d’uovo sbattuta un fiore e cospargerlo di zucchero semolato e farlo poi riposare per qualche ora.

immagine: insalata con uova sode e fiori

articolo già  pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 28 aprile 2014 

Pasqua, è nato prima l’uovo o … la colomba?

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La colomba è il dolce tipico di Pasqua assieme all’uovo di cioccolato, ma un tempo antico, quello dei nonni, in Romagna la mattina di Pasqua prima di andare a Messa c’era da mangiare una fetta di focaccia e l’uovo sodo benedetto dal parroco durante la visita per la benedizione pasquale della casa, che era stata precedentemente pulita a fondo. La colomba certamente è più golosa e l’uovo di cioccolato è molto simpatico per la sorpresa. Le origini della colomba risalirebbero a San Colombano, il Santo fu invitato ad un suntuoso pranzo dai Longobardi, una tavola piena di carne e cacciagione, Colombano alzò la mano benedicendo la tavolata e le pietanze si trasformarono in candide colombe di pane. La regina Teodolinda  colpita dal prodigio gli donò il territorio di Bobbio in cui sorse poi l’Abbazia di San Colombano. L’uovo è un simbolo molto antico, addirittura lo si riferisce alla nascita del mondo. Nelle feste pagane celebranti il ritorno della  primavera, le sacerdotesse di Cerere portavano in processione l‘uovo, emblema della vita nascente. Nell’iconografia cristiana, l’uovo è il segno della Resurrezione, il guscio calcareo rappresenta la tomba dalla quale esce un pulcino, come Cristo esce vivo dal sepolcro. Le uova associate alla primavera per secoli, con l’avvento del cristianesimo divennero simbolo della rinascita non solo della natura ma dell’uomo stesso. La focaccia di un tempo, che comunque la si prepara ancora oggi decorandola con uova colorate, potrebbe risalire all’epoca di Costantino il Grande quando i catecumeni ricevevano, durante la sacra notte di Pasqua, delle focacce a base di latte e di miele, al termine della cerimonia battesimale.Oppure può avere origine dalla mola salsa una focaccia sacra utilizzata nei riti religiosi dell’antica Roma. Veniva offerta alla divinità e distribuita in piccoli pezzi ai credenti, quale atto di purificazione, certuni ritengono questo uso un’anticipazione del rito dell’eucarestia. La focaccia o pagnotta è un dolce tipico della tradizione romagnola e la più conosciuta dalle nostre parti è quella di Sarsina. Il paese sulle colline di Cesena propone ogni anno la rinomata Sagra della Pagnotta Pasquale, la focaccia è preparata durante la Quaresima e servita in occasione della Pasqua insieme all’uovo benedetto, si tratta di una tradizione molto sentita in questa località… e non solo.   

immagine: la pagnotta di Sarsina

articolo già pubblicato sul quotidiano “La  Voce di Romagna” il giorno 14 aprile 2014

Montebello, il castello col fantasma di Azzurrina

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Quella di Montebello è una delle rocche più belle e meglio conservate della Romagna. Il castello ha la particolarità di poggiare le sue fondamenta proprio sul picco del monte.  Il Mons Belli che tradotto dal latino vuol dire monte della guerra, fu meta di molti assalti, ad iniziare dai Malatesta nel 1186. Dopo circa 200 anni furono i Montefeltro a conquistarla e la rocca rimase sotto il loro dominio fino al 1438 quando Il signore dei Malatesta Sigismondo Pandolfo la riconquistò. Oggi i proprietari del castello di Montebello sono la famiglia Guidi di Bagno.  Montebello si trova nell’entroterra di Rimini ed è famoso per il fantasma di Azzurrina.  La storia narra della giovanissima figlia di Ugolinuccio Malatesta, Guendalina, che scomparve misteriosamente all’età di otto anni, mentre giocava rincorrendo una palla di stracci all’interno della fortezza del castello di Montebello. Questa vicenda attira ai giorni nostri centinaia di turisti che, recandosi al castello  cercano il brivido del fantasma. La piccola Guendalina aveva una particolarità: era albina e a quel tempo questa particolare anomalia era considerato un segno di stregoneria e quindi frutto del demonio. Le fu affibbiato il soprannome di Azzurrina in quanto la madre, per nascondere la sua presunta malattia le tinse i capelli di nero. Ma la tipica chioma degli albini non trattenne a lungo la tinta che colò lasciando però ai capelli un particolare riflesso  azzurro. La leggenda dice che l’ultima volta che venne vista dal suo accompagnatore la bimba stava giocando a palla all’interno del castello, in quanto era una giornata piovigginosa. Guendalina corse dietro alla palla e scomparve.  Non vennero mai ritrovati i resti della bambina e si ritiene decisamente impossibile che possa essere uscita  dai sotterranei  del castello in altro modo se non risalendo quelle stesse scale. Fuori le mura imperversava un furioso temporale che si placò con la scomparsa di Azzurrina. Risate, giochi di bimba, 12 rintocchi di campane, il battere veloce di un cuore, questi i fenomeni più volte uditi e registrati che si possono sentire solo in quegli anni che finiscono con lo “0” o il “5” nel giorno di solstizio d’estate.

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 25/08/2014

Le api, nostre benefattrici

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Gli antichi Romani quando brindavano alzavano le coppe dicendo: “prosit”, un’esclamazione latina che significa: “sia a favore” e molto spesso lo facevano con l’idromele.  L’idromele è una bevanda alcoolica ricavata dalla fermentazione di acqua e miele. L’uomo primitivo può avere facilmente scoperto che una miscela di miele e acqua, lasciata in un ambiente tiepido, poteva fermentare e diventare una bevanda capace di indurre stati alterati di coscienza o di dare la sensazione di poteri magici… una bevanda simile al vino, Omero la chiama ambrosia. Le origini dell’idromele sono   difficilmente databili. Si hanno notizie del fatto che fosse largamente diffuso e consumato sia nell‘Antico  Egitto, sia dai Greci e dai Romani, dai Celti, dai Vichingi e dagli Slavi, doveva costituire una sorta di bevanda nazionale per un intero emisfero geografico e culturale. Era una bevanda considerata sacra, spesso chiamata il nettare degli dei, e offerta in dono alle varie divinità pagane. Durante le feste e i banchetti era sempre presente, simbolo di fertilità e felicità, e veniva regalato alle coppie di sposi in grandi quantità come dono beneaugurante. Alcuni  ritengono che proprio da questa usanza di regalare idromele e miele ai neo sposi derivi la parola  “luna di miele”. Nell’antichità l’ape era sacra, ma ancora oggi questo insetto è nel nostro immaginario come un qualcosa di particolare. “Se un giorno le api dovessero scomparire, all’uomo resterebbero soltanto quattro anni di vita”, questo è ciò che avrebbe detto Einstein, considerata oggi una bufala, ma ne siamo certi? C’è chi asserisce che le api non si avvicinano a campi con coltivazione OGM, ritenendoli “avvelenati ”. Aldilà  di questa opinione, e del fatto che le api siano le maggiori impollinatrici, ci sarebbe anche un legame comportamentale, un paragone fra il modo di fare delle api, dei ragni e di noi stessi:“la battaglia fra ragni ed api”. Questa contesa è connessa alla disputa fra gli antichi e i moderni, una polemica nata nell’Accademia francese del XVII secolo, che si risolse più o meno così: Il ragno individualista, simbolizza i moderni, crede di dovere tutto al proprio patrimonio, l’ape, rappresenta gli antichi, riconosce nella sua attività il fatto che il linguaggio sia preesistente e che la scoperta non sia una creazione, ma un trovare e un ritrovare. Appare quindi l’arroganza del ragno “moderno” contro l’umiltà  dell’ape “conservatrice”.  Ma torniamo alle api, le quali hanno rischiato seriamente di sparire a causa dell‘uomo. Ora la loro salute è migliorata, ma tanto deve essere ancora fatto per salvare, con loro, la biodiversità vegetale. Oggi, nel nostro Paese l’idromele è quasi sconosciuto, ma ogni anno si producono circa 23mila tonnellate di miele, secondo recenti dati in Italia ci sono circa 40mila apicoltori. Sono quattro le qualità di miele che rientrano nell’elenco dei prodotti tradizionali della regione Emilia Romagna: Il Miele dell’Appennino, il Miele di erba medica della pianura, il Miele vergine integrale e infine il Miele di tiglio, tipico della provincia di Ravenna. La Romagna dedica alla fine di agosto (quest’anno il 6/7 settembre) una festa al miele, a pochi chilometri dalla costa romagnola risalendo verso l’entroterra di Rimini: a Montebello; dove è possibile ammirare il Castello divenuto famoso per la leggenda di Azzurrina. Durante le due serate della sagra si  possono gustare i prodotti  dell’alveare,rallegrarsi fra mercatini ed  intrattenimenti vari lungo le vie di questo borgo affascinante sulle colline riminesi. Tipico di questa zona è il miele di castagno, dal gusto amarognolo e forte, che è l’abbinamento  ideale del formaggio di fossa e la melata, ricavata dagli alberi di querce, dal colore ambrato e ricca di minerali, come il potassio. La melata è un liquido zuccherino e vischioso che ricopre le foglie solo di certi alberi, liquido secreto da afidi che si nutrono della linfa di queste piante, e bottinato dalle api come il nettare dei fiori. Altre produzioni apistiche tipiche sono il polline, ottimo ricostituente, il propoli utile come rimedio contro le malattie stagionali e la pappa reale usata come ricostituente.

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 25/08/2014

 

Usi, costumi e pregiudizi dei contadini napoleonici

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Tradizione è ciò che ci viene trasmesso, come un’eredità, sono abitudini che a volte sono preziose e sono da mantenere, altre volte sono da abbandonare, in qualche caso è meglio lasciare il vecchio per abbracciare il nuovo, altrimenti non ci sarà posto per il futuro. La tradizione ci da sicurezza ispira fiducia, pensiamo spesso al buon tempo passato guardando con paura al progresso e alla scienza.     Michele Placucci (Forlì 1782-1840) era segretario generale di Forlì ebbe così l’occasione di conoscere i risultati dell’inchiesta svoltasi nel 1811 condotta dal Governo del Regno d’Italia, siamo in epoca napoleonica, da cui trasse l’opera: “Usi, costumi e pregiudizi dei contadini della Romagna”. Placucci scrive su ogni ambito della vita del contadino romagnolo. Il libro inizia con le credenze: se senti cantare la civetta per tre volte avrai un morto in casa, se il cane abbaia a lupo avrai una disgrazia, se la gallina fa il verso al gallo altra triste disgrazia, né di martedì  né di venerdì  mai iniziare un lavoro o partire ed altre simili. Io che sono nata in campagna vi posso dire che queste convinzioni erano in uso fino a pochi decenni fa, a tal punto che se sento cantare la civetta sto bene attenta a quante volte lo fa. Ma voglio raccontarvi una storia di povertà di quando si era veramente poveri e le famiglie bisognose mandavano i propri figli a lavorare presso la casa di un contadino più abbiente come garzone, che il più delle volte voleva dire lavorare dalla mattina presto fino a sera e poco cibo perché non ce n’era. Erano ragazzini, era lavoro minorile, per tradizione, il giorno scelto per la loro partenza era il 25 marzo, i maschi lavoravano nei campi e nelle stalle, le femmine in casa con l’azdora. Valmina siccome in famiglia erano in tanti fu mandata in una casa colonica della campagna riminese, aveva dieci anni, doveva lavorare sempre, continuamente rimproverata e se per caso le rimaneva un po’ di tempo l’azdora le faceva lavare le zampe alle galline. Valmina aveva paura delle galline perché la beccavano e un bel giorno non ce la fece più fece un fagotto con  le sue poche cose e se ne andò di notte, fece venti chilometri a piedi, non ebbe mai paura, ritrovò la sua casa. La sua famiglia non ebbe il coraggio di rimandarla indietro. Valmina oggi non c’è più la vita con lei è stata sempre molto dura, ma lei l’ha affrontata col sorriso avendo fiducia nel progresso.  

immagine: la gazza

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 30/06/2014