L’estate, la canicola, la siesta, Bertinoro, l’Albana e il graal

L’estate, la canicola, la siesta, Bertinoro, l’Albana e il graal

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 31 Lug 2018, 19:38

L’estate, la canicola, la siesta, quell’ora sospesa dopo aver pranzato. Quando la Romagna contadina sonnecchiava, in quanto impensabile e dannoso lavorare sotto il sole (oggi siamo più progrediti tecnicamente, ma le condizioni lavorative in alcune aziende agricole sono peggiorate in quanto si lavora anche nelle ore centrali del solleone), poteva accadere di gustarsi un bicchiere di Albana, da una bottiglia tenuta nel pozzo a rinfrescare, il frigorifero non c’era, con dentro delle fette di pesca e un po’ di zucchero…..

L’Albana era il vino dell’estate ed usciva spumeggiante, occorreva fare attenzione perché magari ne fuoriusciva mezza bottiglia in quanto era fresca sì, ma non tanto… l’Albana era ed è un po’ magica, volendo può evocare il ‘graal’Questo vino bianco, insieme al Sangiovese, è il vino che più rappresenta la Romagna.Il suo colore è giallo intenso e dorato dal gusto asciutto e profumato. Può essere sia secca che dolce ed anche passita. Ideale da bere a fine pasto con la ciambella o con la piadina, ma si sposa bene anche coi cappelletti in brodo.

La presenza dell’Albana in Romagna è documentata a partire dal 1495, ma il suo nome, derivante da ‘albus’, termine latino che significa ‘bianco’ ma anche ‘chiaro’ o ‘luminoso’, ci riporta a un’epoca romana in cui l’Albana veniva considerata la migliore delle uve a bacca bianca. L’Albana è legata a una leggenda e all’ameno paese di Bertinoro. La storiella racconta che Galla Placidia, che fu figlia, sorella e madre di imperatori, nonché imperatrice lei stessa, assaggiò questo vino mentre da Ravenna, allora capitale dell’Impero romano, stava attraversando il confine tra Romagna e Toscana.

Il vino le fu servito in un bicchiere di terraglia. L’imperatrice appena bevuto un sorso di Albana, fu tanto estasiata dalla bontà del vino da esclamare: “Non così umilmente ti si dovrebbe bere, bensì berti in oro, per rendere omaggio alla tua soavità!” Così nacque, da berti in oro, il nome del paese di Bertinoro, sulle colline forlivesi, da sempre considerato luogo di squisita ospitalità e si tramandò la fama dell’Albana.

Già siamo al calice o coppa d’oro e a Galla Placidia, che tramite Alarico è legata al ‘graal’ e al favoloso tesoro che il re visigoto razziò a Roma il 24 agosto del 410 d.C., Alarico si portò via anche il tesoro del tempio di Gerusalemme, tra cui si favoleggia l’arca/graal, che i Romani avevano sottratto al tempio di Salomone nel 70 d.C. e si portò pure via la diciottenne Galla Placidia di cui si era invaghito. Non sto a raccontare le altre peripezie del tesoro e di Galla Placidia, volendo solo evidenziare il legame fra Albana/luminoso/coppa/oro/Galla Placidia che rimandano al ‘graal’… e non è finita qui.

Una tradizione lega l’Albana ai Colli Albani, da cui provenivano i legionari colonizzatori della Romagna, la zona odierna dei Castelli Romani. Qui sorgeva la città latina di Alba Longa, qui vi era ‘il nemus’ cioè il bosco sacro, un luogo di culto caratteristico delle antiche religioni. Il bosco sacro di Nemi era un’antica sede del santuario di Diana Nemorensis, fu uno dei luoghi sacri più importanti dell’antichità preistorica e storica, qui nascono i gemelli Romolo e Remo, la loro madre Vesta era sacerdotessa del culto di Diana e assieme alle vestali custodiva il fuoco sacro.

Il fuoco è legato ai “cagots” una popolazione misteriosa che viveva, e forse vive ancora, fra i Pirenei spagnoli e quelli francesi, dei paria messi al bando dalla società che hanno a che fare con la cerca del graal. E ora dopo aver letto questo scombiccherato articolo, adatto alle facezie dell’estate, per ritornare al bel tempo antico vi consiglio, dopo una passeggiata al paese medioevale di Bertinoro, di fermarvi alla Ca’ de Be, un’osteria enoteca, di sgranocchiarvi una piadina, vuota o ancora meglio piena, accompagnando il leggero pasto con un bicchiere di Albana, magari dolce, un incontro opposto ma assai seducente, godendovi il panorama, da questa osteria si ha una vista mozzafiato, in certe giornate chiare si riesce persino a vedere il mare, facendovi trasportare dalla magia.

Paola Tassinari

IL CANE, L’UOMO E LE LEGGENDE

San Cristoforo come cinocefalo

La leggenda sul ponte Tiberio di Rimini è nota, Tiberio invocò il diavolo che lo aiutasse nella costruzione del ponte e fece un patto con lui, il diavolo avrebbe costruito il ponte ma in cambio si sarebbe preso l’anima del primo che lo attraversava. L’imperatore accettò, ma quando venne il momento Tiberio ordinò che per primo passasse  un cane. Così fu fatto e il diavolo, che aspettava la sua anima sull’altra sponda del ponte, rimase a bocca asciutta, pieno di rabbia Satana cercò di abbattere il ponte ma rimase scornato. Questa leggenda penso che la conosciate in tanti, però forse non sapete che lo stesso mito è legato ad altri ponti cosiddetti del diavolo, ponti che troviamo a Cividale, a Bobbio e a Lucca per esempio. Il ripetersi e il trasmettersi per lungo tempo di una leggenda, può essere fonte di ipotesi su credenze antiche e metaforicamente nascondere una realtà scomoda o indicibile per i tempi. Proviamo a dipanare la matassa partendo dalla simbologia del cane. In tutte le culture indoeuropee di età classica, sono presenti i Cinocefali, gli uomini/cane, popolazioni che vengono descritte da vari autori latini e greci con nomi diversi, collocate nei luoghi più remoti, come creature mostruose realmente esistenti. Affine ai Cinocefali è anche la divinità egizia di Anubi, in questo caso però, l’uomo/cane è tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti. San Cristoforo viene raffigurato in moltissime icone e affreschi bizantini con le fattezze di Cinocefalo, in un testo di epoca medioevale, molto diffuso, viene narrata la leggenda del Santo, che sarebbe stato proprio un Cinocefalo convertitosi al cristianesimo. San Cristoforo  presenta caratteri comuni sia al dio egizio (il Santo traghetta Gesù bambino, portandolo sulle spalle, da una riva all’altra di un fiume, così come Anubi traghetta le anime fra il regno dei vivi a quello dei morti) sia ai molteplici racconti di Cinocefali (talvolta San Cristoforo viene rappresentato come un gigante, attributo condiviso da diverse popolazioni di uomini/cane). La figura di San Cristoforo sarebbe, anche, un retaggio di culti pagani legati al moto astronomico di Sirio, stella appartenente alla costellazione del Cane Maggiore. La festa del Santo cade il 25 luglio e il riferimento astronomico riguarderebbe il periodo della canicola (o solleone) termine per indicare un periodo caldo ed afoso che parte dal 24 luglio arriva al 26 agosto, giorni in cui il sorgere e tramontare di Sirio coincidono con quelli del Sole. Altro Santo legato alla canicola è San Rocco, la cui festa è il 16 agosto, è un Santo molto popolare in Romagna, avrebbe soggiornato a Rimini, Forlì e Cesena. Protettore della peste, malattia dal quale guarì grazie a un cane che lo salvò dalla morte per fame, portandogli ogni giorno un tozzo di pane. Nel pensiero medievale, “ogni oggetto materiale era considerato come la figurazione di qualcosa che gli corrispondeva su un piano più elevato e che diventava così il suo simbolo”. Il simbolismo era universale, e il pensare era una continua scoperta di significati nascosti. Il simbolismo del cane è ambivalente, anticamente è impuro, col feudalesimo diventa un animale nobile, compagno del signore nella caccia, (pensandoci bene anche la caccia è ambigua).Nelle molte leggende, ci sono alcuni elementi fondamentali: il cane è uno psicopompo, vale a dire una guida delle anime, è collegato agli inferi, che custodisce o nei quali dimora ( Cerbero dei Greci o Anubis nell’antico Egitto) e alla morte in genere, tanto da poter mettere in contatto con l’aldilà. E siamo alla traduzione delle leggende legate ai ponti: all’inizio del Medioevo si persero  molte conoscenze tecniche per la costruzione di edifici, la popolazione guardava con meraviglia a questi ponti con arcate perfette, pensando che non fossero stati edificate da persone reali; mentre l’attraversamento del ponte stava a un cane, in quanto questo animale era visto come psicopompo, ma anche come diavolo, e forse era anche una metafora per mandare al diavolo gli inquisitori, che erano soprattutto domenicani, parola il cui significato è, cani del Signore, che certamente dovevano incutere all’epoca molto timore.  

immagine: San Cristoforo cinocefalo

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 02/01/2017

 

“Hai visto la Ghilana?”. Ma chi era costei?

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Congratulazioni! Ti è andata bene! Hai visto la Ghilana? Questa frase popolare era detta un tempo, a Faenza, per complimentarsi con la persona a cui un particolare evento era andato a buon fine. Chi era la Ghilana? Era un animale, una cosa o una persona? Il vederla portava fortuna, il non incontrarla recava sventura. Nel 1500 Cesare Borgia tentò di occupare Faenza, la città resistette sei mesi prima di crollare. Francesco Guicciardini uno storico dell’epoca scrive dell’eroica resistenza della piccola città, che aveva a capo un fanciullo (Astorre III Manfredi) e di come il Valentino bollisse dalla rabbia per non riuscire nella conquista. Astorre venne poi fatto prigioniero e inviato a Roma sotto la tutela di papa Alessandro VI, padre del Borgia, tutela infima in quanto venne ucciso neppure diciassettenne. Il Borgia si era accampato appena fuori le mura, vicino al convento dell’Osservanza, dove sorgeva, oggi è il cimitero della città, la chiesa affidata ai frati minori osservanti, dedicata a San Girolamo. Del Santo custodiva una scultura lignea  addirittura di Donatello, oggi è conservata presso la Pinacoteca. Questo luogo era chiamato, sembra anche tutt’ora, orto della Ghilana. Si narra che, proprio in quel posto abitasse una contessa di nome, appunto, Ghilana. Svelato il mistero, la Ghilana era una donna nobile, bellissima e biondissima, dal fascino sottile che donava fortuna a chi la conquistava e sventura a chi a lei non piaceva. Ottenere il suo dono malefico o benefico era legato, non a particolari virtù, ma alla capacità di vederla o non vederla. Ghilana usciva dalla sua dimora solo nella terza notte di plenilunio; allora forse si poteva anche avvistarla. A chi la  scorgeva, essa portava la buona sorte; chi non riusciva a incontrarla portava sfortuna. Pare, che il Valentino, avesse cercato in tutti i modi di vedere Ghilana, sino ad innamorarsi di lei, ma non vi riuscì e sappiamo bene che il Borgia andò a finire molto male. Favorito dal papa, nella presa dell’Italia, alla morte del pontefice perderà tutte le conquiste ed anche la vita. L’etimologia di Ghilana indica luoghi paludosi, come lo fu per il Valentino che rimase impaludato nella conquista di Faenza per mesi, ma esiste anche un luogo chiamato Ghilane, è un’oasi tunisina dove sgorga acqua calda. Ghilana, un nome ambivalente come lo era la contessa che poteva essere magica o malefica.

immagine: Cimitero dell’Osservanza di Faenza

articolo già  pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno  04/05/2015

E se Atlantide fosse davanti a Cattolica?

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Potrebbe anche essere che Atlantide possa stare da qualche parte, un tempo si derideva chi credeva che Troia fosse esistita e poi nel 1870 Heinrich Schliemann la trovò, ma dove sarà? La fantastica città sommersa   potrebbe trovarsi  nel mare tra Cattolica e Gabicce, quindi in Romagna. Dal Cinquecento gli abitanti di Cattolica si tramandano la leggenda della città sommersa di Conca, a seguito di un’annotazione di un anonimo in cui si parla di tale luogo posto nel mare davanti a Cattolica: la“città profondata”. Gli studiosi lo ritengono impossibile, ma Schliemann non era uno studioso era un appassionato un vero tifoso di Omero. Intanto si trovano strani sassi che paiono reperti archeologici e poi Dante menziona Cattolica nel XXVIII Canto dell’Inferno, quindi Cattolica doveva avere un certo “peso” nel 1300, forse memorie di un tempo antico: “E fa saper a’ due miglior di Fano a Messer Guido e anco ad Angiolello che, se l‘antiveder qui non è vano, gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d‘un tiranno fello”, guarda caso Dante con una “previsione astrologica” fa gettare i due personaggi in mare, proprio a Cattolica e Dante non scrive mai nulla per caso. Oggi Cattolica è una ridente località di villeggiatura estiva, è una delle poche città che è riuscita a creare rotonde artistiche e gioiose arricchite da fontane. Cattolica ha una piacevole passeggiata lungo la Darsena, ha infatti una ricca tradizione marinara (pesca e cantieri navali). Il Museo della Regina di Cattolica (Riccione è la perla dell’Adriatico,Cattolica la regina) è  sorto nel 2000, ospita al suo interno due sezioni: quella archeologica, che espone i reperti rinvenuti nel corso degli scavi cittadini dagli anni ‘60 in poi, e quella  marinaresca con le tradizioni navali, piscatorie e cantieristiche del porto. Sulle imbarcazioni (chiamate trabaccoli) ci sono gli occhi di cubia che sono l’emblema odierno di Cattolica, ricordano un’antica tradizione dei marinai. Le cubie sono dei fori che si trovano sulla prua dove scorre la catena dell’ancora, intorno a questi fori vengono dipinti degli occhi,  si credeva che con gli occhi la barca potesse schivare i pericoli. A Cattolica sole, mare ma anche storia cultura e mistero… poi un grande acquario con squali, pinguini e le simpatiche lontre, hanno persino creato una musica utilizzando le “voci” dei pesci!

immagine:  carta con la “città profondata”

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno11/08/2014

Un ponte leggendario per i riminesi e non solo

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Il ponte romano di Rimini sul fiume Marecchia, l’antico Ariminus , quest’anno compie duemila anni, eppure nonostante la vetustà la pietra d’Istria biancheggia luminosa, le cinque arcate che poggiano su massicci piloni si allungano elegantemente dalla città al borgo San Giuliano, il suo stato di conservazione è quasi perfetto, anzi con la vecchiaia è diventato ancora più affascinante. Pensate a quante persone e mezzi vi hanno transitato, non so fare un conto di quante persone lo abbiano visto, considerate che è ancora interessato dalla viabilità cittadina, segno questo dell’incredibile perizia edile dei romani. Ormai è leggendario come la storia mitica della sua costruzione. Molti riminesi chiamano l’antico Ponte di Tiberio con l’appellativo di “Ponte del Diavolo” il nomignolo  è legato al mito  della sua indistruttibilità. Iniziato dall’imperatore Augusto nel 14 d.C. fu completato dal figlio adottivo Tiberio, da cui prese il nome, nel 21 d.C.  I lavori procedevano molto a rilento perché ogni qual volta che si costruiva un nuovo pezzo del ponte questi crollava o comunque non riusciva bene. Sembrava un’opera edilizia destinata a non finire così la leggenda racconta che Tiberio fece un patto col diavolo, quest’ultimo  avrebbe costruito il ponte ma in cambio si sarebbe preso l’anima del primo che lo avrebbe attraversato. Il patto fu concluso e il ponte fu terminato da Satana. Venne il momento dell’inaugurazione e il diavolo aspettava la sua ricompensa ma Tiberio escogitò un modo per svincolarsi dal  pattuito: fece passare sul ponte per primo un cane, il diavolo  che aspettava la sua anima sull’altra sponda, rimase a bocca asciutta. Satana, incollerito per la beffa ricevuta decise di buttare giù il ponte, ma l’aveva costruito lui e l’aveva reso indistruttibile. Provò e riprovò, ma il ponte non crollò il diavolo dovette andarsene scornato. A testimonianza di questo episodio si racconta  di alcune impronte caprine impresse su di una delle grosse pietre poste all’inizio del ponte. Il manufatto è sopravvissuto ai terremoti, alle piene del fiume, agli episodi bellici quali l’attacco nel 551 durante la guerra fra Goti e Bizantini di cui restano i segni nell’ultima arcata verso il borgo, da ultimo il tentativo di minarlo da parte dei tedeschi, ma il ponte è ancora là e lo sarà anche nel 4014… mica per niente l’ha costruito il diavolo in persona.

immagine: Ponte di Tiberio (Rimini)

articolo già pubblicato  sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 05 maggio 2014

   

ROMA AVREBBE DOVUTO CHIAMARSI ROMAGNA

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Il toponimo Romagna risale al VI d. C. col significato “di terra romana” in contrapposizione all’Italia allora invasa dai barbari e dai Longobardi. In realtà i romani erano i bizantini, perché caduto l’impero romano occidentale, i romani per diritto erano gli abitanti di Costantinopoli, chiamata anche la Seconda Roma e non quelli della Città Eterna. Caduto l’impero orientale nel 1453, la qualifica di impero romano, per eredità passò a Mosca, detta anche la Terza Roma. Oggi seppur senza eredità genealogica, ma per supremazia la Quarta Roma potrebbe essere Washington o New York. Mi rivelarono tanti anni fa un aneddoto, non ricordo chi lo raccontava, mi pare un editore di Cesena, il quale aggiungeva all’episodio fantasioso della  creazione di Roma un estroso particolare. Roma, la grande capitale non doveva chiamarsi così, il suo nome doveva essere Romagna, cosa mai successe? Romolo, il fondatore della città aveva appena scavato il solco delle fondamenta, ovvero il Pomerio, quando Remo, il suo gemello, scavalcò le mura appena erette  e Romolo, al colmo dell’ira, lo uccise aggiungendo queste parole di sfida: “Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura”. Poi per nulla addolorato dalla morte del fratello fissò un palo nel terreno con un’insegna con su scritto Romagna, ribadendo con ciò che era solo terra di Romolo. All’improvviso una voce tuonò: “ Non sei degno di chiamare la tua città Romagna, hai ucciso tuo fratello per tenerti tutto tu, hai infranto il dovere sacro dell’ospitalità”. Un fulmine dal cielo, lanciato da Giove, spezzò l’insegna, sulla quale rimase solo la parola Roma. Da questo episodio mitologico, i romani ebbero uno speciale riguardo per il Pomerio, considerato intoccabile. Da questa fondazione deriva la sacralità del Pomerio dove era vietato seppellire i morti. Di fatto questa striscia di terreno, fu considerata sacra e perciò mantenuta libera da costruzioni. Le fondazioni delle città abbondano di leggende, certo è che Romolo, se mai fu esistito, era stato assai egoista, non divise i beni neanche col fratello, meglio che il toponimo Romagna, sinonimo di ospitalità, rimanga a noi.

 

immagine: La Lupa di Roma

 

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna”