MARCOLINO PER LA PACE

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Marcolino Amanni (1317/1397) entrò giovanissimo nell’Ordine Domenicano a Forlì, visse in semplicità avendo cura dei poveri e dei bambini. Portava sempre con sé un’immagine della Madonna opera del pittore Vitale da Bologna. Attraverso questa piccola icona il Beato Marcolino avrebbe parlato con la Madonna e la Madonna con lui. Marcolino vestì l’abito a soli dieci anni, non brillò né sulla cattedra, né sul pulpito. La sua azione fu silenziosa e nascosta, la sua predica fu con gli esempi di vita quotidiana. Il suo corpo riposa nella cattedrale di Forlì. La Pinacoteca Civica di Forlì, intitolata a Melozzo degli Ambrogi, ha sede presso i Musei di San Domenico, il complesso è formato da cinque edifici: Palazzo Pasquali, Chiesa di San Giacomo Apostolo, Convento dei Domenicani, Convento degli Agostiniani e Sala Santa Caterina. Qui sono conservate opere strettamente legate a Marcolino: la sua tavoletta con l’immagine della Madonna, il sarcofago rinascimentale e chissà un giorno anche la pala del Guercino. La Madonna della Pace, appartenuta al Santo, è opera pittorica di Vitale da Bologna databile alla meta del Trecento. Vitale da Bologna, il cui vero nome era Vitale degli Equi, è stato probabilmente il più importante pittore bolognese del Trecento, si formò osservando la pittura del grande Giotto, ma fu influenzato anche dalla pittura gotica francese e dalla miniatura. Infatti nella Madonna di Marcolino si ravvisa la bellezza tipica del gotico fiorito, ravvisabile dallo sfondo decorato e dalla dolcezza degli occhi allungati della Vergine. La Madonna della Pace è legata alla “Tabula Pacis” una tavoletta dipinta con un’immagine sacra che un tempo veniva mostrata ai fedeli per il bacio della Pace (oggi si augura la Pace con una stretta di mano). L’icona  dopo un accurato restauro è stata collocata accanto all’arca marmorea del beato Marcolino. La tavola raggiunge così il sarcofago del Santo, nel luogo dove un tempo viveva e pregava. L’arca di raffinata fattura rinascimentale è dello scultore fiorentino Antonio Rossellino 1427/1479,  il cui vero nome era Antonio Gamberelli, ma fu soprannominato Rossellino per il colore dei suoi capelli. Il sarcofago marmoreo simula un edificio formato da pietre, risulta intercalato da pilastrini  decorati con linee, negli archi le immagini dei frati domenicani, fra cui Marcolino, sono ritratte realisticamente. Il coperchio presenta due angeli svolazzanti con cartiglio ed in cima vi è l’Annunciazione: l’arcangelo Gabriele dalle vesti in movimento e la Madonna che quasi nasconde il capo timorosa. Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, a causa di una menomazione all’occhio destro subita in età infantile, fu un pittore ferrarese ritenuto uno degli artisti più rappresentativi del barocco. Nella pala d’altare di Forlì è raffigurato il Santo davanti alla Madonna con Bambino in compagnia di un angelo, colori sontuosi e movimento sono le peculiarità del dipinto che raffigura l’apparizione della Vergine che Marcolino pare avesse di notte stando in estasi. La grande tela fu rubata al tempo delle spoliazioni napoleoniche, fu considerata perduta fino a quando fortunosamente fu recuperata, oggi è a Brera. La fama di Marcolino era diffusa fra la popolazione, i suoi confratelli lo consideravano un “buono a niente”, (un po’ come il nostro detto che dice, è tanto buono che è un… quajòn). Ma il popolo che lo vedeva correre a sedare le numerose risse imponendo ai contendenti di baciare la tavoletta, lo amava. Straordinario è il fervore con la quale i forlivesi seguivano il Beato Marcolino e ancora più straordinario sono le pregevoli opere d’arte, ben tre capolavori unici, che lo riguardano a testimonianza che la bontà è il pregio più bello. I confratelli deridevano la semplicità del Santo, consideravano i suoi miracoli e le sue profezie un caso, ma il popolo lo santificava e alla sua morte, fu tale la gente accorsa, che i frati lo seppellirono di notte, ma la mattina dopo, le persone accorse incuranti dei frati lo disseppellirono. Si parla di 1200 pellegrini in un solo giorno. Avvennero molti miracoli, il suo corpo emanava profumo e per molto tempo fu viva la devozione. 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 07/11/2016

C’E’ BISOGNO DI VERI EROI

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“La Benemerita e Fedelissima Arma dei Carabinieri d’Italia, il cui motto è: ‘Nei secoli fedele’, è indubbiamente ispirata alla fedeltà. La loro Patrona è la Madonna ‘Virgo Fidelis’, raffigurata  con il Bambino Gesù che poggia sulle sue ginocchia e regge il mondo: segno della grande fede di Maria, in forza della quale meritò di divenire Madre di Dio e madre dell’umanità, o con  queste parole: ‘Esto fidelis usque ad mortem’, ovvero ‘Sii fedele fino alla morte’ (Ap 2, 10). La Fede è una luce che ti permette di credere a ciò che è invisibile, ti dà la sicurezza che qualcosa d’Altro esista, è una ricchezza senza fine. Molta parte della scienza nega lo spirituale, si sofferma solo sul reale, ma in fin dei conti che differenza di sostanza c’è, fra qualcosa che esiste solo nel presente, nell’attimo e poi ti lascia un ricordo labile che il più delle volte dimentichi, con qualcosa d’altro che non esiste nel presente, che non vedi, ma che non svanirà mai dalla tua mente?”. Mentre stavo scrivendo queste righe, per il mio nuovo romanzo, mi ha telefonata Medardo Resta, l’artista della scrittura gotica, invitandomi all’ intitolazione, a Ulderico Barengo, medaglia d’Argento al Valor Militare, della sede di Ravenna dell’Associazione Nazionale Carabinieri, svoltasi qualche settimana fa. La cerimonia, è iniziata con la deposizione di una corona d’alloro al monumento ai Caduti, è proseguita con lo scoprimento della targa alla presenza delle Autorità, quindi il convivio e poi la giornata si è conclusa con il concerto della Fanfara dei Carabinieri di Firenze. Il ravennate Ulderico Barengo passò dalla Fanteria all’Arma nel 1917.  Nel 1919 era tra gli ufficiali inviati in Albania, come istruttore, per strutturarne la Gendarmeria. Di questo lavoro svolto dall’Arma, dal 1915/20, rimase una traccia indelebile di professionalità, riscontrata quando, dal 1928, ripresero i rapporti tra Italia ed Albania, poi quando lo Stato balcanico divenne brevemente parte del Regno d’Italia;  ma rimase una valida conoscenza anche per gli ultimi interventi in Albania, nell’ultimo decennio del XX secolo. Barengo nel 1940 diventerà Capo di Stato Maggiore del Comando Generale, nel 1943 morirà dilaniato da una bomba d’aereo, assieme al suo Comandante Generale, Azolino Hazon, mentre accorrevano al quartiere romano di San Lorenzo per organizzare i soccorsi a favore della popolazione vittima di un bombardamento. Barengo è considerato lo “storico” per eccellenza dell’Arma, pubblicò in 20 anni, numerose opere storiche, con particolare riguardo al Risorgimento. Nel 1933, Barengo in una conferenza al Circolo Ufficiali  Allievi di Roma parlando dell’Arma ricordò che i Carabinieri erano sorti a Torino; rammentò che erano soldati scelti, dovevano avere spiccate qualità fisiche e indubbia moralità. Gli aspiranti carabinieri, la data della loro fondazione è il 1814, in un’epoca di analfabetismo, dovevano saper leggere e scrivere correttamente. Avevano privilegi di ordine morale e altri di natura economica, ad esempio un semplice Carabiniere guadagnava più di un Furiere Maggiore (grado assimilabile al Sergente); ogni Carabiniere aveva diritto ad avere un letto tutto per sé mentre nelle altre Armi un letto doveva servire per due militari. All’inaugurazione del  Monumento al Carabiniere, del 1933, che si trova nei giardini reali di Torino, opera dello scultore Edoardo Rubino,   Barengo ha così commentato: “Con una concezione profondamente umana il sommo artista non ha voluto fare di lui un eroe da leggenda, raffigurarlo in atteggiamento di combattente, di salvatore, di vittima. E’ un Carabiniere in piedi, in atteggiamento tranquillo, con lo sguardo diretto lontano. In posizione di riposo, ma vigilante riposo. E’ il Carabiniere che possiamo vedere dovunque; è il soldato cui è stato detto: quando tutti dormiranno tu veglierai, perché essi possano riposare tranquilli; quando tutti si divertiranno, tu vigilerai… e vedrai cadere il camerata senza farne vendetta. La strada che i Carabinieri percorrono è seminata di tombe; ma il sacrificio non è mai sterile e il sangue versato, come nella canzone del Poeta, fa rifiorire le rose”.

  articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 31/10/2016

OTTO PROPOSTE PER L’ALIGHIERI

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Di solito si inizia a scrivere un articolo dall’inizio, in questo caso inizierò dalla fine, dall’intervento finale di Saturno Carnoli, il quale lamentava la mancanza nella politica ravennate odierna di figure super partes.      Cito qualcuna di queste menti illuminate: Corrado Ricci primo soprintendente di Ravenna e d’Italia, autore di una legge con la quale per la prima volta si tutela il patrimonio artistico, archeologico e storico del nostro Paese, Luigi Rava padre delle prime leggi, di tutela dell’ambiente naturale, emanate in Italia e Luciano Cavalcoli, padre del Porto di Ravenna. Altro che “invenzioni” come Happy hour o notti colorate, piccole iniezioni economiche che lasciano scie di degrado! Non è una sterile critica, ma l’introduzione delle  proposte di Ivan Simonini, già rese note e apprezzate dai candidati della campagna elettorale ravennate, ma subito dimenticate. Simonini ha ripresentato le sue dettagliate proposte, anzi un vero progetto eutopico, al Circolo dei Forestieri, a Ravenna, pochi giorni fa. Prima di dare spazio a questo progetto di Ravenna Città di Dante, Ravenna madre della Divina Commedia, Ravenna che realizza il sogno di Dante, scrivo due mie parole. Se vogliamo guardare solo all’economia, voce assai importante, quanto richiamo e ritorno in ricchezza materiale avrebbe per la nostra città, non solo dall’Italia, ma dal mondo, dichiarare Ravenna città di Dante? La risposta la conoscete già. Con Dante c’è un discorso più ampio, c’è il rinnovamento dei costumi. Nonostante i recenti trionfi della scienza, gli uomini nell’animo non sono cambiati molto negli ultimi duemila anni, l’etica, la morale, i valori sono sempre quelli, la modernità ci ha resi più longevi, più ricchi materialmente, anche più belli, ma i valori di Verità, Giustizia, Onore, Ordine, sono diventati obsoleti, non si conosce neppure il vero significato di queste parole, oggi regna il materialismo, la menzogna, la confusione, e la sovversione è diventata l’ordine; ci può salvare solo la Tradizione, cioè la trasmissione di fatti storici, di dottrine religiose, di leggende passate di età in età. E quale è la nostra tradizione  italiana se non Dante? 1) Liberare Dante dai dantisti di professione (non sopprimerli), le idee nuove  possono arrivare anche da altri ambiti. 2) Dante visto dai grandi poeti, un nuovo terreno fecondo, per capire Dante attraverso le visioni di grandi poeti o letterati come: Boccaccio, Foscolo, Leopardi, Pascoli, Pound, Borges, Mazzini e altri. 3) Pier Damiani,  Guido  Novello e l’Arcivescovo Rainaldo. Dante è il primo studioso di Pier Damiani e al Santo ravennate dedica un intero canto. Guido Novello fu il primo a ricevere una copia completa della Divina Commedia, ma soprattutto lo ospitò, dando al Poeta ciò di cui necessitava. Rainaldo da Concoreggio, Arcivescovo, capace di assolvere i Templari e di rendersi di fatto autonomo dal Papato Avignonese. 4) Per un corso di laurea in Digitalianistica, come Dante resse a Ravenna (a sentir lui nell’Egloga I, dal 1315) la prima “cattedra di italiano” della storia, per quei tempi un’avanguardia assoluta, così l’università di Bologna potrebbe valutare l’avvio nella sede di Ravenna di un’avanguardistica “cattedra di digitaliano”, dedicata alla rivoluzione linguistica indotta dalla rete e dalle tecnologie digitali. 5) Per una  versione della Divina Commedia in italiano corrente, in tanti passi la scrittura dantesca rimane difficile per il lettore di oggi. Se non si vuol perdere il contatto con i giovani, è urgente la “traduzione” in italiano corrente del volgare di Dante. 6) Un Concorso Internazionale per il monumento a Dante, a Ravenna non c’è una statua al Poeta! La memoria collocata magari sullo sbocco a mare del Candiano, ancor meglio se l’opera sarà triplice, con Pier Damiani e Guido Novello 7) Ricognizione delle ossa di Dante, DNA, causa morte, ecc. 8) Realizzare il sogno di Dante, le sue ossa a Firenze per essere incoronate da quell’alloro poetico che il Poeta aveva in vita tanto sperato. Il viaggio delle ossa proseguirà poi per le altre città importanti per il Poeta: Roma, Palermo, Bologna, Verona per tornare infine nella sua Ravenna.

immagine: Ivan Simonini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 17/10/2016

IL REGISTA E IL POETA

A Ravenna, ai Chiostri Francescani, si è svolto, l’evento “Fellini e Dante, l’aldilà della visione”, dagli Atti del Convegno tenutosi alla Biblioteca Classense, con Paolo Fabbri, Università di Urbino, Edoardo Ripari, Università di Bologna e con la presenza di Mario Guaraldi, editore del “Libro dei Sogni di Federico Fellini”, in versione  ebook. Si è affrontato per la prima volta, l’influenza poetica dantesca sulla filmografia felliniana. Fellini ebbe molte proposte dagli americani per un “filmone” sulla Divina Commedia, non le accettò mai, però, creò il personaggio di Giuseppe Mastorna, detto Fernet, un clown che suona il violoncello, il cui viaggio ultraterreno è di chiara ispirazione dantesca. Il Maestro, dopo aver raccontato la provincia romagnola, Roma e il mondo del cinema decide di… partire per l’Aldilà, ma il film non si realizzò mai.   Definito da Vincenzo Mollica come “il film non realizzato più famoso della storia del cinema”, non si sarebbe concretizzato, perché il Maestro era molto scaramantico, consultò l’I Ching, ( un testo cinese molto antico, a cui si pongono domande per un orientamento) ed ebbe un risultato negativo. La scaramanzia di Fellini è probabile fosse rivolta all’ipotesi che nulla accade per caso, perciò fosse bene muoversi col vento e a non andare incontro a situazioni, che nate sotto una cattiva stella, potevano finire male. Nel Mastorna, il Maestro parte dal presupposto che l’Aldilà  sia un “casino” come l’Aldiqua, provando a immaginare cosa sarebbe accaduto a un individuo che, dopo un disastro aereo, si trovasse nell’altro mondo. Privo di punti di riferimento, senza un’identità, sempre più disperato, Giuseppe Mastorna ha un solo chiodo fisso in testa, quello di partire. Le pagine del Mastorna, intessute tra la Commedia di Dante, Il Fu Mattia Pascal (Pirandello), Il processo (Kafka) e l’Ulisse (Joice), ci lasciano dentro un profondo senso di liberazione dalla morte e una gran voglia di vivere. Per Mastorna, Fellini si è valso anche della collaborazione di Dino Buzzati, il loro incontro avvenne a Milano nel ‘65, in un ristorante famoso per il pesce, ma la serata terminò con un’intossicazione alimentare per Fellini, non per Buzzati; altro “segno” per il Maestro, che il “caso” non era in armonia col “tutto”.  Il Mastorna, proviene oltre che dai sogni di Fellini, da un racconto breve di Buzzati, “Lo strano caso di Domenico Molo” che narra di un fanciullo, che compie un sacrilegio mancando a un giuramento, per il senso di colpa, si ammala e sogna di andare nell’Aldilà, per esservi giudicato. Buzzati, intrappolato nel personaggio di Giovanni Drogo, il protagonista del “Deserto dei Tartari”, ma con altre ambizioni artistiche, anche se in molti non lo sanno, Dino Buzzati fu un disegnatore eccezionale, capisce che questo Mastorna non si realizzerà mai e decide di scrivere e disegnare il “Poema a Fumetti”, che suscitò lo sconcerto per il mutamento della  scrittura, dell’immagine e per la presenza massiccia del nudo, una decisione che dispiacerà molto al regista. Il Poema a Fumetti, si ispira al mito di Orfeo e Euridice, dove Orfeo col canto e la musica vince la morte. È la vita anche la morte, è ciò a cui si ispira pure Fellini, tramite un altro suo importante collaboratore, Pier Paolo Pasolini. Una leggenda racconta che un mago avesse consigliato al regista di non girare il Mastorna perché sarebbe morto subito dopo l’uscita del film. Nel 1992 dalla collaborazione con Milo Manara esce il fumetto di Mastorna, nel 1993 il Maestro muore. Grazie a questa interessante conferenza, e ai relatori della stessa, mi sono riconciliata con Fellini, che disdegnavo per le sue donnone dai seni enormi che il Maestro contrapponeva all’innocenza di donne salvifiche come Gelsomina, mi è parso di capire che forse Fellini ricercava in un’unica donna, sia la carne che lo spirito, alla mia domanda, Paolo Fabbri uno dei relatori, semiologo, anche lui un Maestro, per “ricca semplicità”, mi ha risposto con una storiella. Un uomo che voleva sposarsi chiese al sensale di trovargli una donna, ricchissima, intelligentissima e bellissima, il sensale gli rispose… con quello che tu vuoi, io faccio tre matrimoni!

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 10 /10/2016

 

CATTELAN IL FORLIVESE

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E poi un sabato pomeriggio vai alla Galleria d’Arte M.A.F. ( Mondial Art Free, diretta da Marco Morgagni, coadiuvato da sua moglie Yoko) a Forlì, in Corso Mazzini 21, e vi trovi Rosanna Ricci, che ti incanta e ti racconta che a Forlì c’è il Palazzo del Diavolo, ohibò! E non è finita, in quel palazzo vi ha abitato per cinque anni, nientepopodimeno che Maurizio Cattelan! Quel Cattelan tanto famoso, tanto pagato, che oggi vive fra Milano e New York creando ironiche sculture, performance e “scherzi”, il tutto studiato per creare sconcerto nel pubblico, ha iniziato la sua carriera a Forlì.  Se non fosse diventato così famoso sarebbe rimasto lo “scemo del villaggio” o il “pazzo della contrada”, come accade ad altri artisti, anonimi sconosciuti, ritenuti ridicoli, pazzerelli, e in qualche caso costretti a passare qualche giorno al Servizio Psichiatrico. Maurizio Cattelan è la rivincita, la compensazione di tutti loro, è il Marcel Duchamp degli anni Duemila. Cattelan arriva in Romagna perché si innamora di una ragazza di Forlì; qui con la sua immancabile bicicletta, gironzola su e giù, lavora qui e là, facendo anche il becchino. La prima mostra è all’Oratorio di San Sebastiano, a Forlì, espone la sua camera da letto. Le idee dell’artista sono di natura goliardica, molti lo esaltano, altri lo denigrano. Eppure l’arte è anche gioco e divertimento, non so perché oggi la cultura oscilli tra una superba seriosità piena di sé e una satira cattiva, corrosiva, mi piacerebbe che l’arte fosse “eutrapelica”, parola desueta che significa gioia e buonumore, e che è l’arte difficile del far ridere e deridere con lievità. Vediamo un po’ gli “scherzi” di Maurizio. Negli anni in cui viveva a Forlì, tra il 1980/’90, furono rubate in città alcune targhe, quelle che identificano medici, avvocati e altro; queste targhe, con l’aggiunta della scritta: “Non si accettano testimoni di Geova”, vennero trovate al Guggenheim Museum di New York, facevano parte di un’opera di Cattelan. Sempre a Forlì, l’artista denunciò ai carabinieri la scomparsa di una sua opera, corredata da indizi e particolari, l’opera non fu mai trovata anche perché era intitolata: “Invisibile”. Alla Biennale di Venezia del ’93, mette in scena “Lavorare è un brutto mestiere”,   vendendo il suo spazio espositivo a un’agenzia di pubblicità . Ai Caraibi organizzò la “Sesta Biennale” che consisteva in due settimane di villeggiatura gratuita per gli artisti invitati, che non dovevano esporre nulla. Nel 1999 presentò come opera vivente il suo gallerista milanese, appendendolo a una parete con del nastro adesivo grigio, al termine della performance, il gallerista fu ricoverato al pronto soccorso privo di sensi. Destò molto scalpore una sua scultura, che ritraeva Hitler in ginocchio mentre pregava e un’altra opera che esponeva tre bambini-manichini impiccati a un albero di Porta Ticinese a Milano. L.O.V.E. (Libertà, Odio, Vendetta, Eternità), è una grande scultura, posta in Piazza degli Affari di fronte alla sede della Borsa di Milano, con tutte le dita mozzate, eccetto il dito medio, creando così un gesto osceno. Il giorno in cui l’Università di Trento gli ha conferito la Laurea Honoris Causa, Cattelan ha preparato un’installazione che consisteva in un asino imbalsamato dal titolo “Un asino tra i dottori”. La sua opera più nota: “La Nona Ora”,   scultura che raffigura Papa Giovanni Paolo II schiacciato a terra da un grosso meteorite e circondato da vetri infranti, è stata venduta per la cifra record di 886 mila dollari. L’ultima opera è di questi giorni, un water d’oro che i visitatori devono usare; “America”, questo il titolo, è ispirata alla disuguaglianza economica. Questo water lussuoso mi ricorda Luigi XIV, il re Sole, che aveva un artistico trono-gabinetto, seduto sul quale riceveva visite, defecando sempre alla stessa ora, così da permettere ai sudditi, che accorrevano numerosi, di godere della vista e del “profumo“ delle sue feci, che erano considerate come “oro colato”. Allora chi è Cattelan un furbacchione o un genio? Forse è solo un uomo che ridicolizza sempre dippiù i mali della nostra società, la quale invece di ravvedersi fa la stessa cosa dei sudditi del re Sole.  

 immagine: Multiplo Cattelan

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 26/09/2016

 

 

 

 

ERBE PALUSTRI E MULTIUSO

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Ricordo, forse quarant’anni fa, in fondo non sono tanti anni, ma il mondo di allora sembra tanto lontano, quasi che non fosse mai esistito, eppure ricordo le mondine che abitavano al mio paese, che al mattino presto partivano tutte infagottate e cariche dei loro attrezzi, in bicicletta, in fila, cantando con lazzi e gorgheggi di ritornelli, andavano alla “Torraccia”, una torre tutt’ora esistente, nella zona di Classe, qui vi era un’antica valle di acqua dolce, dove c’erano le risaie. Le donne avevano circa 30 chilometri da percorrere in bici, andata e ritorno, e un lavoro molto duro da fare, ma ritornavano alla sera, cantando, sentivo la loro “musica da lontano” e uscivo di casa per vederle e loro mi salutavano sorridendo e mi parevano tanto allegre, un’allegria che oggi non c’è più. Avevano fazzolettoni legati al collo, con sopra dei grandi cappelli in paviera (erba palustre), poi delle grandi sporte, una per manubrio, sempre in paviera e due fiaschi, uno per l’acqua e uno per il vino, (essì perché un goccio di vino non poteva mancare), avvolti per intero dal vimini,   così le bottiglie, se cadevano, non si sarebbero rotte e il vino e l’acqua restavano freschi. L’Ecomuseo delle Erbe Palustri è un istituto culturale, senza fini di lucro, che si trova a Villanova di Bagnacavallo, ho avuto modo di visitarlo, durante la Sagra delle Erbe Palustri, che si tiene ogni anno il secondo fine settimana di settembre. Il Museo è molto ricco, le raccolte acquisite superano i 2.500 reperti, è allestito in modo esaustivo e con la dose giusta di tecnologia, ma con un “qualcosa in più”, vi ho ritrovato l’allegria delle “mie” mondine. Il percorso inizia dal giardino con i pittoreschi capanni, continua con la sala didattica con la proiezione di un filmato introduttivo. “Padusa” era chiamato il territorio della Bassa Romagna, un tempo caratterizzato da stagni, zone acquitrinose, piallasse. Attorno al 1300, lungo l’argine sinistro del fiume Lamone, nacque “Villanova delle Capanne”, forse una quindicina di casupole abitate per lo più da fuorilegge. La zona era ricca di erbe palustri che gli abitanti utilizzarono prima per costruire le capanne, poi    per avviare un fiorente artigianato, costruendo graticci, stuoie, sporte, scarpe, sedie, gabbie per uccelli e altri impagliati, ma anche con le realizzazioni di soffitti a volta, attività che si è svolta a Villanova fino al secondo dopoguerra. Al piano superiore del Museo si possono ammirare centinaia di reperti e manufatti, mentre il piano ammezzato ospita 3 sezioni, tra cui una dedicata ai “giochi di una volta”, realizzati con materiali di recupero. La fine del percorso riporta il visitatore davanti al bookshop iniziale, dove si possono acquistare pubblicazioni e prodotti tipici del territorio. Una sorpresa divertente è stata la cena nell’area di ristoro, coi sapori nostri tradizionali, in occasione della Sagra, era stata allestita la “Locanda dell’allegra mutanda” con un’esposizione di braghe romagnole del Novecento, appese al soffitto. Numerose le mostre   per l’evento, tra cui segnalo: la presenza di Medardo Resta con la sua arte della scrittura gotica, “Sogni fra i rottami” con le sculture di Renato Mancini; “Dall’erba palustre alla spatola” del pittore Mauro Petrini e “La voce dell’anima” di Eleonora Ronconi; queste ultime sculture in fil di ferro e lamiera colorata di Eleonora mi hanno ricordato, per purezza, grazia, gioiosità la “Santa Allegrezza”, un canto natalizio molfettese di autore ignoto, che inneggia all’allegria nel cuore per la nascita di Gesù. Eleonora, alla mia domanda del perché non andasse a cena mi ha risposto: “Quando sono con le mie opere non ho né fame né sete, mi sento sazia, non ho bisogno di altro”. Legato all’Ecomuseo è anche il progetto “Lamone Bene Comune”, che si propone di  coinvolgere tutti i siti bagnati da questo fiume. Molti  sono i risultati ottenuti, tra cui la stesura del Manifesto delle Terre del Lamone e della Mappa delle Tipicità, la pubblicazione annuale della guida Lòng e’ fion (lungo il fiume), la Pedalêda cun la magnêda longa, i Lòm a Mêrz e tanto altro. Non mi resta che fare i complimenti alla Direttrice del Museo: Maria Rosa Bagnari.

immagine: Locanda dell’allegra mutanda

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 19/09/2016

 

 

 

 

LE PREVISIONI DI BENDANDI

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La crosta terrestre è formata da grandi placche che convergono, divergono oppure si spostano parallelamente tra loro, sono in costante movimento, enormi sforzi che si accumulano nelle masse rocciose su entrambi i lati della frattura. Quando gli sforzi raggiungono un livello critico, si scaricano sotto forma di un improvviso movimento a scatti. L’energia che viene rilasciata si propaga sotto forma di onde, causando i terremoti. Si possono prevedere i terremoti? No non si può, è possibile solo prevenire con costruzioni antisismiche. Fin dall’800 sono stati studiati diversi modi per poter prevenire un terremoto, senza ottenere nulla. Ci sono però studi, non riconosciuti, che cercano di individuare il sisma con altri metodi. Uno di questi metodi riguarda il Radon, un gas radioattivo emesso naturalmente dal terreno, sono stati osservati in molte zone soggette a terremoti pochi mesi o giorni prima, irregolarità della concentrazione di Radon, quindi lo si è preso come un presagio potenziale per un terremoto. Gianpaolo Giuliani, un ex tecnico dell’Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario, affermò di essere riuscito a prevedere il terremoto in Abruzzo con i suoi studi sul Radon, fu sconfessato da altri scienziati. Un grosso punto interrogativo è il faentino Raffaele Bendandi. Bendandi nacque a Faenza, in una povera famiglia, fin da giovanissimo lavorò dapprima come orologiaio e poi come intagliatore di legno. Si dedicò anima e cuore, allo studio dei terremoti: nel 1920 entrò a far parte della Società Sismologica Italiana, formulando una propria teoria, detta “sismogenica”. Bendandi affermava che i terremoti erano “prevedibili esattamente”: “L’origine dei terremoti, secondo le mie teorie, è prettamente cosmica. Il terremoto avviene, secondo i dati da me raccolti e controllati, quando, nel giro mensile di una rivoluzione lunare, l’azione del nostro satellite va a sommarsi a quella di altri pianeti”. Riteneva che la crosta terrestre, così come le maree, fosse soggetta agli effetti di attrazione gravitazionale della Luna. Non poteva la crosta terrestre comportarsi nello stesso modo del mare? Egli non apparteneva al mondo accademico, e numerosi furono gli scontri con la scienza ufficiale. Nel 1926 la Società Sismologica Italiana, diffidò Bendandi dal pubblicare altre previsioni sui terremoti in Italia, pena l’esilio. La nomina a Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia, attribuitagli da Mussolini, gli fu revocata. Bendandi, però, ormai conosciuto oltre oceano, continuò a pubblicare le sue previsioni sui giornali americani. La sua ricerca, intanto, lo portò a scoprire un ciclo undecennale del Sole e l’esistenza di un altro pianeta che chiamò Faenza, mai oggettivamente trovato. In merito alle macchie solari, valutò i disturbi che queste potevano avere sulla mente umana, in grado di spiegare atteggiamenti improvvisi di violenza o pazzia. Nel 1929 Bologna fu colpita da uno sciame sismico che si protrasse per mesi. Bendandi tentò di avvisare il prefetto della città, ma rimase inascoltato. Nel 1963 Bendandi previde un terremoto a Faenza, senza essere ascoltato; Stefano Servadei, deputato e politico forlivese, sollevò la questione in parlamento per riabilitare la figura di Bendandi, ritenendolo un ricercatore e scienziato a tutti gli effetti, anche se privo di un titolo di studio. È del maggio 1976 l’ultima e inascoltata sua previsione, il terremoto del Friuli. Bendandi ne fece davvero tante di previsioni, non tutte verificatesi, però. Previsioni vaghe, collocate in uno spazio troppo ampio, avrebbero creato solo inutili allarmismi, ciò non vuol dire che qualcosa di vero non esistesse. Lo studioso appassionato non è detto che valga meno di uno studioso titolato, Bendandi fu nominato da Giovanni Gronchi Cavaliere Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana. Morì nel 1979 nella sua casa-osservatorio di Faenza. Solo anni dopo, grazie all’associazione “La Bendandiana”, di cui è presidente la Dottoressa Paola Lagorio, si iniziò a riordinare e a ricercare sull’abbondante materiale lasciato da Bendandi. La sua città lo ricorda con l’intitolazione di una scuola.

 

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Vove di Romagna” il giorno 12/09/2016

LE SPOGLIE DI SAN GIULIANO

 

Borgo San GiulianoDal centro storico di Rimini si giunge al ponte di Tiberio, lo si passa e si entra nel Borgo San Giuliano. E’ un piacere passeggiare fra le sue stradine e piazzette, immaginandosi le povere case di una volta, la vita dei pescatori e dei marinai; oggi tutto è perfettamente ristrutturato: muri color pastello spesso decorati da grandi murales e vasi di fiori sui balconi. Si dice che il Borgo fosse il luogo preferito di Federico Fellini e Giulietta Masina, di cui vi è un bel murales, di certo qui si percepisce l’orgoglio di essere “del borgo”. La Chiesa di San Giuliano Martire, si trova qui, è un importante edificio che contiene tesori. La Chiesa è stata edificata nel XI secolo, e restaurata nel Cinquecento, periodo al quale risale la facciata rinascimentale che la caratterizza per linee eleganti e pulite. All’interno troviamo il sarcofago romano che conteneva le spoglie di San Giuliano, un polittico del XV secolo realizzato da Bittino da Faenza con le storie del Santo e una tela col suo martirio, capolavoro di Paolo Veronese. Nel 1910 fu eseguita una ricognizione al sarcofago,fu datato al periodo imperiale romano, si notò che appariva consunto e abraso in molte parti: i fedeli avevano infatti l’abitudine di grattarne la superficie per ottenere una polvere che credevano miracolosa. La tradizione vuole che il sarcofago sia approdato sulla spiaggia di Rimini, dalla Dalmazia.Bittino da Faenza(1357/1427) fu un pittore italiano minore, attivo soprattutto in Emilia Romagna, il suo stile è gotico, ma risulta assai piacevole nella sua minuziosità. Nella chiesa di San Giuliano lascia un polittico con le scene della vita di Giuliano, martirizzato appena diciottenne. Vi compare la figura della madre, che gli è d’incoraggiamento, sia durante l’interrogatorio, sia nell’esecuzione del martirio. Il giovane Giuliano dopo essere stato condannato dal Tribunale, venne messo dentro un sacco chiuso contenente sabbia e serpenti e gettato in mare, dove morì annegato, si suppone forse nel 249. Il suo corpo fu restituito dal mare sulla costa dell’isola di Marmara (Turchia), e qui deposto in un sarcofago; ma poi attorno al 961, il sarcofago precipitò in mare e galleggiando nell’Adriatico, guidato da angeli, approdò a Rimini, in località Sacramora (sacra dimora). Qui dove sostò l’arca di Giuliano sgorgò poi una fonte di acqua pura. Si cercò di trasportarlo in cattedrale ma gli sforzi risultarono vani, per cui furono indette molte preghiere, infine con l’aiuto di due bovini, e con tutto il popolo riminese si riuscì a trasportarlo nel vicino monastero dei Santi Pietro e Paolo, oggi Chiesa di San Giuliano. Il giovane martire è molto venerato dalla città di Rimini, di cui è patrono dal 1225. Paolo Veronese (1528/1588) nato e formatosi a Verona, per lo più operò a Venezia. Il suo stile è decorativo, con influssi manieristici del Parmigianino e di Giulio Romano, la sua pittura risulta libera e sinuosa col colore sempre intenso e ricco. Il suo soggetto preferito sono state le Cene, tele monumentali che dovevano rappresentare cene religiose in realtà banchetti sontuosi. Con il Convito in casa Levi (Gallerie dell’Accademia, Venezia), lo sfarzo scenografico e l’esaltazione del lusso gli valsero un processo del Santo Uffizio in quanto la tela era stata commissionata dai frati domenicani come “Ultima cena”. Il suo capolavoro è la Sala del Collegio a Palazzo Ducale di Venezia. Dal XVI secolo ci furono molti pittori veneti che operarono lungo tutta l’area adriatica dalla Romagna alle Marche. La pala di Veronese del San Giuliano accentua una forte pietà terrena, in contrapposizione a una grande gloria divina. La parte superiore del quadro presenta la figura della Madonna attorniata dai Santi di cui uno ha uno spettacolare manto rosso; in basso è raffigurata la scena del martirio, Giuliano è biancheggiante nella sua nudità, indifeso e tenero coi capelli biondi e ricci, immagine luminosa fra lo scuro degli armigeri e di altri personaggi, vicino a lui la figura addolorata della madre. La divisione fra la parte celeste e quella terrena è data da uno splendido scorcio di nubi fra il cielo blu e in lontananza il verde di colline e pianure.

 

immagine: Borgo San Giuliano

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 05/09/2016

 

 

QUEL FRATE ERA UN HIPPY

cattura di fra Dolcino e MargheritaBenvenuto da Imola,(1330/1388) è stato un letterato imolese, a lui è intitolato il liceo classicodi Imola. Fu uno dei primi commentatori della Divina Commedia, assieme al Boccaccio, che conobbe a Firenze. Autore del Romuleon, riassunto di storia romana, e di un commento alle Bucoliche e alle Georgiche, è noto per il suo commento alla Commedia dantesca, apprezzato per originalità e profondità. Esiliato da Imola andò a Bologna dove rimase dieci anni, successivamente si trasferì a Ferrara, ospitato da Niccolò d’Este, alla cui corte restò fino alla morte. Nel Canto XVIII dell’Inferno, dove sono puniti i seminatori di discordia, Dante riceve da Maometto una profezia: di ammonire fra Dolcino a procurarsi molti viveri, se non vorrà che la neve lo costringa ad arrendersi ai Novaresi che lo assedieranno.(Si intravede in Dante una certa simpatia per il frate eretico) Benvenuto da Imola, nel commento, ci dice che Dolcino nacque a Romagnano Sesia, poi andò a Vercelli, vivendo nella chiesa di Sant’Agnese dove studiò la grammatica. Era molto intelligente e abile negli studi, di bassa statura, sempre sorridente e di temperamento gentile. Un giorno un prete si lamentava che gli erano stati rubati dei soldi, alla fine accusò Dolcino e lo voleva torturare per farlo confessare. Gli altri sacerdoti rifiutarono e lo sollevarono dal sospetto di furto, ma Dolcino era terrorizzato e fuggì lontano nella città di Trento, dove incontrò e si unì alla setta degli apostolici. Per capire fra Dolcino e gli apostolici bisogna retrocedere a qualche anno prima al 1260, data dell’Apocalisse secondo l’abate calabrese Gioacchino da Fiore, lo Spirito Santo sarebbe sceso dal cielo per imporre un nuovo ordine mondiale basato finalmente sulla giustizia. Gioacchino ebbe un’influenza significativa sulle varie correnti religiose del secolo successivo, in particolare sui movimenti di origine francescana, fiorivano gruppi votati alla povertà che volevano il ritorno della Chiesa alle sue origini diseredate e di comunione dei beni. Tutto ciò mentre la Santa Sede era impegnata quasi solo a difendere il suo potere temporale. Il movimento degli apostolici, chiamato così perché volevano imitare gli Apostoli, vivevano di elemosina con le barbe lunghe e incolte, fu fondato da un ventenne di Parma, Gherardo Segalelli, che vide respinta la sua richiesta di farsi francescano ed allora lui diede vita a un ordine monastico nuovo. Gli apostolici furono scomunicati nel 1286 da Onorio IV ed entrò in campo l’inquisizione, nel 1300 Gherardo fu bruciato vivo. Fine degli apostolici? Niente affatto a Segalelli subentrò Dolcino, dal Piemonte, prese i contatti con i superstiti emiliano/romagnoli e con loro si ritirò in Trentino dove l’inquisizione era più blanda. Dolcino fondò un’attività monastica simile ad una comunità hippy degli anni ’70, tutti liberi e uguali, poverissimi, capelloni, contestatori, pacifici e buoni, con mogli e figli. La compagna di Dolcino si chiamava Margherita e Benvenuto da Imola la descrive come persona di gran carattere e di immensa bellezza. Nel 1303 Dolcino decise di spostare la sua “Chiesa” in Piemonte, ma nel lungo tragitto, forse la mancanza dell’obolo dell’elemosina e del cibo, gli apostolici si tramutano da allegri fraticelli in briganti. Gli apostolici dovevano aver subito delle dure traversie, si ridussero infatti ad uno stadio di denutrizione tale, che mangiavano i topi. Inizialmente i montanari erano con loro, ma poi quando i frati presero a saccheggiare e a incendiare le case, le simpatie scemarono. Fu così che la propaganda della Chiesa ebbe buon gioco, i vescovi di Milano e Vercelli armarono un esercito intorno al monte Rubello, rifugio degli apostolici. La guerriglia durò un anno finché nel 1307 i soldati riuscirono a fare strage dei frati eretici, buttarono i loro cadaveri in un fiume che da allora si chiamò Carnasco. Margherita e Dolcino furono presi vivi, prima fu bruciata lei, mentre fra Dolcino fu costretto a guardare, poi toccò a lui. Dolcino è un mito controverso, odiato dalla Chiesa, il Risorgimento ne fece un eroe, fu un simbolo per i socialisti piemontesi, che nel 1907 eressero in sua memoria un obelisco, distrutto dai fascisti e poi ricostruito nel 1972.

immagine: cattura di fra Dolcino e Margherita

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22/08/2016

LA CATTEDRA DI MASSIMIANO

busta08_ 003A Ravenna al Museo Arcivescovile, è custodita la cattedra d’avorio, una straordinaria opera d’arte del VI secolo appartenuta quasi certamente all’arcivescovo Massimiano. Osservandola frontalmente, si nota il monogramma di Cristo fra girali, pavoni e cervi. Nel piano inferiore, al centro della teoria degli evangelisti, è la figura di Giovanni Battista vestito di una lunga tunica, regge nella mano sinistra un clipeo sul quale è raffigurato l’Agnello, simbolo di Cristo. Nell’iconografia della cattedra la figura del Battista è la chiave di unione tra Antico e Nuovo Testamento. L’Antico Testamento è riassunto, lungo i fianchi della seduta, con le vicende di Giuseppe, rifiutato e venduto dai suoi fratelli, farà poi fortuna col faraone. Il fronte dello schienale presenta, nelle cinque formelle pervenute, il vangelo dell’infanzia di Gesù. Alcune scene appartengono ai vangeli apocrifi. Apre il ciclo iconografico l’annunciazione a cui fa seguito la prova di Maria delle acque amare. Questa raffigurazione è rara e singolare, il Sommo Sacerdote faceva bere all’imputata l’acqua sacra invocando una maledizione che rendeva sterili e deformi, serviva a provare l’infedeltà delle donne adultere, si metteva quindi in dubbio la verginità della Madonna. Il protovangelo di Giacomo racconta l’episodio, sottolineando l’ammirazione di tutto il popolo verso Maria e Giuseppe, che non ricevettero alcun danno dalla prova. Nella stessa formella, Giuseppe sorregge con tenerezza la Vergine nel viaggio verso Betlemme. Nel secondo registro è la natività nella quale si nota la levatrice dalla mano inaridita, altro brano assai inusuale. Vicenda quasi sconosciuta, narrata nei vangeli apocrifi. Alla nascita di Gesù, la levatrice non era convinta della verginità di Maria e voleva accertarsene con le mani, queste ultime le si paralizzarono all’istante. La Madonna impietosita toccò le mani della donna col corpo di Gesù, che subitamente guarirono. In alto, al centro, racchiuso in un clipeo è il Cristo benedicente che regge nella sinistra uno scettro. Posteriormente la cattedra raffigura scene della vita di Gesù, tra cui la moltiplicazione dei pani e dei pesci, le nozze di Cana, la samaritana al pozzo ed altre. La cattedra, anche se ha perso parte delle formelle istoriate, rimane un esemplare unico e eccezionale di scultura paleocristiana in avorio. Massimiano (Istra di Pola, 498/Ravenna 556) è stato il primo arcivescovo di Ravenna, egli godeva della fiducia di Giustiniano, fu per questo che fu inviso ai ravennati, perché lo percepivano come un rappresentante del potere imperiale in città. Massimiano, si conquistò poi velocemente la fiducia dei cittadini di Ravenna facendo eseguire molti lavori pubblici, sia civili, sia religiosi, tra cui i mosaici nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe e i mosaici con i ritratti di corte di Teodora e di Giustiniano in San Vitale. Nel corteo di Giustiniano si fece ritrarre accanto all’imperatore, con il nome scritto a chiare lettere, mentre tiene tra le mani una croce gemmata. Al tempo la Chiesa di Ravenna era molto importante, Giustiniano le aveva assegnato il ruolo di perno dell’unificazione spirituale d’Italia assieme alla Chiesa di Roma. Massimiano, raccontano le cronache ravennati, fu uno dei massimi difensori del prestigio di Ravenna. A questo proposito, c’è una storia che racconta l’impegno di Massimiano per portare le spoglie di Sant’Andrea a Ravenna. Il Santo era venerato a Costantinopoli, Massimiano ne chiese il corpo, ma l’imperatore rispose che la salma di Sant’Andrea e quella del fratello San Pietro dovevano restare nelle due città sorelle, Roma e Costantinopoli. Massimiano ricorse all’astuzia per impossessasi del corpo del Santo, ma le cose andarono male e dovette accontentarsi della barba di Sant’Andrea, tagliata di nascosto durante una veglia notturna. Commenta mestamente Andrea Agnello, storico e presbiterio di Ravenna, del nono secolo, autore del Liber pontificalis ecclesiae ravennatisse il corpo del Santo, fosse stato sepolto nella nostra città i vescovi di Roma non sarebbero mai riusciti a sottomettere quelli di Ravenna. Ho una domanda che mi gira nella testa… la barba del Santo dove sarà nascosta?

immagine: Cattedra di Massimiano

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 15/08/2016