OMO SELVATICO IL NOSTRO YETI

santuario carbognano

Le leggende sull’omo salvatico sono molto diffuse lungo l’arco alpino e gli Appennini almeno fino al Medioevo. L’omo salvatico vi compare come un vero e proprio uomo, dotato di razionalità, più ingenuo e semplice, forse, ma a volte anche superiore all’uomo civilizzato, di solito presenta il corpo ricoperto da un folto pelo che rende in genere superfluo l’uso di abiti. Alle origini del mito possiamo identificare Pan, divinità ellenica, mezzo uomo e mezzo caprone, che incarnava alcune caratteristiche positive ad altre negative, possiamo ritrovarvi qualcosa degli antichi druidi, i sacerdoti dei Celti, delle divinità dei boschi Silvano e Fauno e qualcosa anche degli eremiti. L’Alta Valtiberina è una valle che comincia in Romagna e si dispiega tra Toscana ed Umbria, qui in questa valle precisamente a Monterchi si preserva la storia dell’omo salvatico. Quest’ultimo, conosciuto anche col nome di Agnolaccio, era un essere mostruoso a metà tra l’uomo e il gigante, e ai tempi del Granduca (XVIII secolo) abitava il fitto bosco tra i castagni secolari, dell’Appennino. Viveva in uno spoglio rifugio e, poco distante dalla sua casa, si trova ancora oggi la grossa vasca di pietra dove uccideva gli animali di cui si cibava. La Tina, questo il nome della grande vasca, sorge in un una piccola radura dove sono rimasti anche i resti della chiesetta da cui prese il nome il poggio stesso. La Tina appare come un grande blocco monolitico scavato in due buche profonde, una delle quali ha un foro e un gradino. Qui l’Agnolaccio sgozzava i polli, gli agnelli e addirittura i vitelli che rubava ai contadini. Tutti temevano l’Agnolaccio: contadini, bambini e donne. Secondo la leggenda durante la Festa paesana della Polenta, attratto dalle risa e dall’allegria della gente, rubati dei vestiti e sistematosi alla meglio, sarebbe corso nella piazza del paese per passare qualche ora in allegria insieme a tutta la gente, ma tutti scapparono impauriti. A uccidere l’Agnolaccio, liberando i contadini dal peso delle sue ruberie, sarebbe stato un certo Marco, un abile cacciatore, che ricevette in dono da un frate di passaggio una pallottola d’oro benedetta. Con questa, Marco uccise l’omo salvatico e come ricompensa il Granduca concesse a lui e alla sua discendenza, per sette generazioni, la patente di caccia. La leggenda di Monterchi, probabilmente attesta la presenza di antichi culti pagani, che il cristianesimo (il frate che offre la pallottola benedetta) ha fatto molta fatica ad estirpare, culti che forse perdurarono sino alla fine del Medioevo. Anche da noi in Romagna certamente esisteva questo mito, vediamo dove trovarne traccia. A Carbognano la campagna nei dintorni di Rimini un tempo era adibita ad agricoltura e pastorizia. Qui abitava, al tempo dei romani, la famiglia Carbonia, che dà il nome al luogo, famiglia piuttosto importante che fece costruire, sul luogo ove oggi c’è il Santuario della Madonna, un tempio dedicato al culto del dio Pan, che veniva invocato, dai sacerdoti Luperci   perché proteggesse i raccolti e le greggi. Luperco era un antico dio latino, identificato con il lupo sacro a Marte, poi considerato epiteto di Fauno, e infine assimilato al dio Pan. Il Lupercale, era la sacra grotta dove i gemelli Romolo e remo erano stati allattati dalla lupa. Nel 1822 scavando nel piazzale del Santuario è venuta alla luce una lapide scritta in latino, su cui era inciso il nome di uno dei sacerdoti, che veniva addirittura da Roma, ciò attesta l’importanza del luogo. Affini ai Luperci erano i sacerdoti Arvali, un antico collegio sacerdotale romano dedito alla dea Dia e al dio Silvano associato a Marte. Il loro tempio si trovava sempre in un luogo nei boschi, erano quasi antesignani degli eremiti. Questo dio Silvano/Marte, ha molte analogie con l’omo salvatico, infatti se ne sta nei boschi, protegge orti, confini e bestiame, è un po’ misogino, un po’ ridotto male, con la barba ed irsuto, spaventa i contadini, ma non era considerato cattivo. Ma chi era Dia? La dea Dia degli Arvali è una divinità proto celtica, protettrice dei campi, che significa buona dea, divenne poi dea Bona, la Vergine di Bonora a Montefiore Conca probabilmente mutua il nome da questa dea.   

immagine: Santuario di Carbognano

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 12/12/2016