Le passioni dei romagnoli: bici, moto, automobili e… aeroplani.

Le passioni dei romagnoli: bici, moto, automobili e… aeroplani.

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 23 Ago 2018, 13:15

Le passioni dei romagnoli: bici, moto, automobili e… aeroplaniIl 30 agosto 1925, Italo Balbo, il grande aviatore che guidò due voli transatlantici e fu poi ministro dell’aeronautica, accompagnava a Forlì il segretario del partito fascista Roberto Farinacci, per compiere un gesto di grande lancio: la fondazione di Predappio Nuova, per celebrare il luogo di nascita del duce.

Il 19 settembre 1936, il fascismo era all’apice, il duce non poteva rimanere senza uno scalo nella sua città: nasce il “Luigi Ridolfi”, [n.d.r.] oggi speriamo che se la cavi, dal nome del pilota di Forlì rimasto vittima di un incidente aereo nei dintorni di Milano. Luigi Ridolfi era abile anche nel volo acrobatico, aveva infatti eseguito vari spettacoli nella sua città. I forlivesi avevano il volo nel sangue già al tempo dei primi lanci delle mongolfiere. Enrico Forlanini, inventore e pioniere dell’aviazione italiana, nel 1909 fu il realizzatore del volo del primo dirigibile italiano. Era di Milano ma visse ed operò anche a Forlì.

Per volere di Mussolini, sempre a Forlì, fu edificato il Collegio aeronautico, intitolato a Bruno Mussolini, figlio del duce, morto in un incidente aereo. Il palazzo, destinato a ospitare il primo istituto aeronautico in Italia, è un notevole edificio in stile razionalista, si trova in piazzale della Vittoria. Attualmente è adibito ad uso scolastico. Davanti vi è la bella statua che rappresenta Icaro. All’interno vi sono i mosaici in pietra bianca e nera. Raccontano la conquista dei cieli e le vicende dell’aviazione italiana dalle sue origini fino agli anni ‘40.

Nella vicina Predappio si assemblava il Caproni Ca.164, un monomotore biplano, prodotto con successo dall’azienda Aeronautica Caproni, negli anni Trenta. Oggi le gallerie della Caproni sono interessate dal programma Ciclope, un laboratorio di fluidodinamica, un progetto di alta ricerca e di internazionalizzazione del tecnopolo aeronautico. Nel maggio 1968 fu istituito ufficialmente, con decreto ministeriale, l’Istituto tecnico aeronautico “Francesco Baracca”.

Altre tappe fondamentali: le sedi distaccate dell’Università di Bologna con i corsi di laurea in Ingegneria Aerospaziale e in Ingegneria Meccanica, il centro Enav, scuola di formazione per i controllori di volo, unica in Italia, scuole di addestramento al volo e l’Istituto per lo studio e l’applicazione delle scienze aeronautiche e spaziali. A Rimini l’Aeroporto Internazionale Miramare dedicato a “Federico Fellini” nasce nel 1912 come aeroporto militare, sviluppandosi e aumentando il volume passeggeri sino a qualche anno fa, [n.d.r.] oggi speriamo che se la cavi.

Sempre a Rimini si trova il Parco Tematico e Museo dell’Aviazione di Rimini. Inaugurato nel 1995, con la collezione di oltre 50 velivoli originali, mezzi contraerei e corazzati, modelli volanti in scala, divise e tute da volo, documenti, decorazioni e medaglie, è la più grande struttura di questo genere in Italia. A Lugol’Aero Club Francesco Baracca, scuola di pilotaggio aeroplani e ultraleggeri e Scuola Nazionale Elicotteri, iniziò la propria attività nei primi anni ’50. La scuola di volo è ai vertici nazionali per la preparazione impartita ai piloti. Un nutrito numero di ex allievi si trova al servizio della Protezione Civile per lo spegnimento di incendi ed il soccorso su Canadair ed elicotteri.

L’aeroporto di Ravenna La Spreta, quest’anno ha compiuto 100 anni, attualmente ospita, oltre all’Aero Club Francesco Baracca, anche la scuola di volo acrobatico “Ali sul mare” e i paracadutisti dell’associazione “Pull out”. Infine l’aeroporto di Cervia-Pisignano, un aeroporto militare sede dal 5 ottobre 2010 del 15º Stormo dell’Aeronautica Militare Italiana. Le opere infrastrutturali sono strategiche per lo sviluppo. Ma la nostra Romagna da questo lato piange assai. Basti pensare a come sono in rovina i nostri collegamenti verso le altre regioni: la “Romea”, la “E45” o l’Adriatica; le strade provinciali sono piene di buche, i treni spesso in ritardo, però… abbiamo le ali, non facciamo in modo che ce le tarpino.

Paola Tassinari

 

Il castello di Giaggiolo, feudo di Paolo il bello, a breve distanza da Forlì

Il castello di Giaggiolo, feudo di Paolo il bello, a breve distanza da Forlì

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 19 Ago 2018, 17:53

Ho sempre amato, ieri come oggi, i racconti degli anziani. E proprio un’anziana azdora mi ha parlato di Giaggiolo, il suo paese natio dove un tempo sorgeva un castello. “Giaggiolo che bel nome, chissà perché si chiama così”. Mi ha risposto che il toponimo derivava dalla profusione di giaggioli che fioriscono intensamente sul finire della primavera. Lei li ha chiamati al scurèz de gêval (le scoregge del diavolo). Il giaggiolo può essere bianco o violaceo ed è il simbolo di Firenze. Al scurèz de gêval, mi ha spiegato l’azdora, sono solo i giaggioli paonazzi i quali tingono le mani come fossero carta copiativa, “dà la varnìsa al scurèz, s’ t’ci bôn!” (colora le scoregge, se ne sei capace) mi ha detto sorridendo allegramente.

E così ora vi parlerò del castello di Giaggiolo. Diversamente da ciò che tramanda la tradizione popolare il toponimo Giaggiolo, sarebbe una derivazione di “gaggio”, nel senso diminutivo dal longobardo “gagi”: siepe. Diventato poi col latino medievale gahagium, terreno circondato da siepe. Le memorie di transiti e spostamenti umani, nell’Appennino romagnolo, si perdono nella notte dei tempi, forse addirittura al Paleolitico. Questi antichi percorsi solitari e distanti dai fondovalle tornano in auge nel Medioevo, per evitare controlli e pedaggi.

Ciò favorì, lungo questi tragitti, la diffusione di piccoli centri, abbazie, torri e castelli, affidati a famiglie nobiliari. Titolari di feudi che accrescevano il loro potere schierandosi, ora con la Chiesa, ora con l’Imperatore. Il castello di Giaggiolo si ergeva solitario, su una cresta montana, fra le valli del fiume Bidente e del torrente Borello, a circa trenta chilometri da Forlì. Oggi rimangono imponenti ruderi accanto a una piccola chiesetta. Il castello, un tempo era assai noto, documentato già nel 1021, fu la sede del ramo dei Malatesta di Giaggiolo, il cui capostipite fu Paolo Malatesta, sì proprio il Paolo di Francesca, citato da Dante, nel V canto dell’Inferno.

Nel 1371 il Castrum Glagioli comprendeva la rocca e il palazzo, con 26 focolari (famiglie). Era il 1471, una volta estinto il ramo maschile dei Malatesta, quando il castello di Giaggiolo passò ai conti, poi marchesi Guidi di Bagno che utilizzarono il maniero come residenza estiva ed iniziò il lento declino di Giaggiolo. Nel 1269, Malatesta da Verucchio, il “Mastin vecchio”, così lo cita Dante, investì del titolo comitale il secondogenito Paolo, combinando il matrimonio con Orabile Beatrice, figlia dei Conti di Giaggiolo.

Orabile Beatrice, ultima erede dei conti di Giaggiolo, rimasti senza discendenza maschile, è costretta, appena quindicenne a sposare il figlio di un nemico del padre. Ma il castello di Giaggiolo sorgeva su un punto strategico e Malatesta la ebbe vinta su Guido da Montefeltro zio di Orabile Beatrice. Infatti Guido da Montefeltro aveva sposato Manentessa sorella del padre di Orabile Beatrice. L’usanza dei matrimoni combinati era al tempo la regola, anche il primogenito di “Mastin vecchio”, Giovanni detto Gianciotto (Johannes Zoctus, Giovanni Zoppo), ebbe in questo modo in sposa Francesca da Polenta.

I rapporti tra i due fratelli, Paolo e Giovanni, ebbero un esito tragico. Giovanni uccise il fratello e la moglie accecato dalla gelosia, ma il delitto potrebbe avere avuto anche risvolti economici. Gianciotto aveva i suoi buoni motivi per odiare il fratello minore Paolo detto il Bello, che diversamente dal ruolo di amante perpetuo di dantesca memoria, oltre alla facile rendita delle terre di Giaggiolo, contea che comprendeva anche Meldola e Cusercoli, era diventato un protagonista stimato della scena nazionale come attesta l’incarico di Capitano del Popolo di Firenze nel 1282.

Delitto d’onore, delitto d’amore, racconta Dante, ma il Poeta non poteva che riproporre la tesi corrente perché l’astio tra i fratelli era in corso e continuava come in una faida; quanto accadde fra Giovanni e Paolo si ripeté con i loro eredi. Il figlio di Giovanni, Ramberto, nel 1323 uccise a Ciola il cugino Uberto, figlio di Paolo. A sua volta Ramberto fu ucciso a Poggio Berni nel 1330 dai parenti di Rimini, come punizione del suo tentativo di conquistare la città.

Paola Tassinari

A Spasso con Dante sulle strade della Romagna per finire nella gelosia degli innamorati danteschi

A Spasso con Dante sulle strade della Romagna per finire nella gelosia degli innamorati danteschi

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 8 Ago 2018, 05:30

«Romagna tua non è, e non fu mai,/sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;/ma ‘n palese nessuna or vi lasciai». Questi versi esprimono tutto il fiero carattere della Romagna, mi sovviene pensare che Dante sia molto più romagnolo che fiorentino. Nella Divina Commedia, e precisamente nel canto XXVII dell’Inferno, Dante descrive, le condizioni politiche della Romagna del 1300, a Guido da Montefeltro. Guido fu un personaggio di molte imprese militari. Alla fine della sua vita si pentì e divenne frate, ma tradì la sua veste per aiutare papa Bonifacio VIII. Il quale lo indusse a peccare, assolvendolo anticipatamente, ma il diavolo non si lasciò convincere da questa ante/assoluzione e Guido finì all’Inferno.

Il Poeta dice a Guido che la Romagna non è mai stata senza guerre a causa dei tiranni che la dominano, ma in questo momento non se ne combatte apertamente nessuna. Ravenna è nella stessa situazione da molti anni, sotto la Signoria dei Da Polenta che domina il territorio fino a Cervia. Forlì, che sostenne un lungo assedio e fece strage dei francesi, è dominata dagli Ordelaffi. I Malatesta si sono impadroniti di Rimini, mentre le città di Faenza e Imola sono governate da Maghinardo Pagani, che cambia facilmente le sue alleanze. Cesena oscilla continuamente tra libertà e tirannide.

Dante nel suo amaro vagare, salendo le scale e mangiando il pane altrui, visitò non solo queste città, ma siccome non c’era l’aereo o il treno, Dante avrà fatto molte fermate anche in altri paesi romagnoli. Lasciando la terra di Toscana, valicando il Passo del Muraglione, oggi meta d’obbligo per i centauri, anticamente una mulattiera. Il valico divenne carrozzabile nel 1836. Furono costruiti sul passo anche una casa cantoniera, un albergo e un muro di pietre in modo di offrire un riparo dal forte vento. Da qui l’origine del toponimo.

Dante si sarà arrancato fra questi tornanti su una pericolosa mulattiera sferzato dal vento e dal freddo anche in estate, qui poco dopo il Passo del Muraglione incontrò la Cascata dell’Acquacheta (Inferno Canto XVI), paragonata dal Poeta per la violenza della caduta delle acque al fiume infernale Flegetonte. Pochi chilometri in direzione di Forlì e siamo a Portico di Romagna, dove la tradizione vuole che, a Palazzo Portinari, Dante abbia conosciuto Beatrice.Altri chilometri sempre sulla Strada Statale numero 67 e siamo a Castrocaro Terme. Siamo nella Romagna Toscana e proprio Castrocaro ne è stata per lungo tempo la capitale.

«Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;/ e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,/ che di figliar tai conti più s’impiglia…» (Purg. XIV). Dante è arrabbiato coi romagnoli colpevoli di essere responsabili della degenerazione dei costumi. Mi domando se Dante vivesse oggi quali invettive userebbe. E siamo giunti a Forlì, “La terra che fé già la lunga prova/ e di Franceschi sanguinoso mucchio,/ sotto le branche verdi si ritrova…” (Inf. Canto XXVII), la targa è affissa sul Campanile dell’Abbazia di San Mercuriale, ricorda la resistenza dei forlivesi contro i francesi inviati dal Papa per sottomettere la città ghibellina.

Da Forlì ci dirigiamo alla terra del vino, al colle di Bertinoro , «O Brettinoro, ché non fuggi via,/ poi che gita se n’è la tua famiglia/ e molta gente per non esser ria?» (Purg. Canto XIV) questi versi si possono leggere sul Palazzo Comunale di Bertinoro. Poco lontano da Bertinoro, a Polenta vi è la Pieve di San Donato. Giosuè Carducci ha dedicato un’ode a questa Chiesa domandosi se qui si fosse inginocchiato Dante e da allora ogni anno si tengono letture dantesche. Non cito Ravenna perché tutti sappiamo che Dante è morto qui, ma ci tengo a scrivervi che Dante, lo afferma qualche studiosotra cui Giovanni Pascoli, avrebbe scritto in Romagna tutta la Commedia e non solo il Paradiso.

Il Pascoli non fu solo il poeta del “fanciullino” ma fu anche un valente accademico e dantista anche se questo lato è quasi misconosciuto al volgo. Il Pascoli fu allievo di Carducci, altro studioso del mito dantesco, il quale forse fu un po’ invidioso di questo romagnolo tenace, che riteneva di essere colui che aveva scritto «la verace interpretazione del poema sacro», cosa che gli addolciva “la vita” e non gli faceva “temer più la morte”. Dante ieri come oggi scatena “guerre” fra i suoi studiosi che come innamorati ne sono anche gelosi, forse fu per questo che il Carducci stroncò il suo allievo. «Ho avuto dal Maestro un’altra scudisciata».

Fu l’amaro sfogo con il quale Giovanni Pascoli accolse la bocciatura dell’Accademia dei Lincei al suo saggio, con cui aveva partecipato al concorso nazionale dedicato ai migliori studi sulla Divina Commedia. Carducci, membro importante della commissione giudicatrice dei Lincei e suo maestro di lettere, lo bocciò. Carducci era Docente di Letteratura italiana, docenza che erediterà proprio il Pascoli, nell’Università di Bologna, quello stesso ateneo che rifiutò la laurea a Dante.

Paola Tassinari

L’estate, la canicola, la siesta, Bertinoro, l’Albana e il graal

L’estate, la canicola, la siesta, Bertinoro, l’Albana e il graal

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 31 Lug 2018, 19:38

L’estate, la canicola, la siesta, quell’ora sospesa dopo aver pranzato. Quando la Romagna contadina sonnecchiava, in quanto impensabile e dannoso lavorare sotto il sole (oggi siamo più progrediti tecnicamente, ma le condizioni lavorative in alcune aziende agricole sono peggiorate in quanto si lavora anche nelle ore centrali del solleone), poteva accadere di gustarsi un bicchiere di Albana, da una bottiglia tenuta nel pozzo a rinfrescare, il frigorifero non c’era, con dentro delle fette di pesca e un po’ di zucchero…..

L’Albana era il vino dell’estate ed usciva spumeggiante, occorreva fare attenzione perché magari ne fuoriusciva mezza bottiglia in quanto era fresca sì, ma non tanto… l’Albana era ed è un po’ magica, volendo può evocare il ‘graal’Questo vino bianco, insieme al Sangiovese, è il vino che più rappresenta la Romagna.Il suo colore è giallo intenso e dorato dal gusto asciutto e profumato. Può essere sia secca che dolce ed anche passita. Ideale da bere a fine pasto con la ciambella o con la piadina, ma si sposa bene anche coi cappelletti in brodo.

La presenza dell’Albana in Romagna è documentata a partire dal 1495, ma il suo nome, derivante da ‘albus’, termine latino che significa ‘bianco’ ma anche ‘chiaro’ o ‘luminoso’, ci riporta a un’epoca romana in cui l’Albana veniva considerata la migliore delle uve a bacca bianca. L’Albana è legata a una leggenda e all’ameno paese di Bertinoro. La storiella racconta che Galla Placidia, che fu figlia, sorella e madre di imperatori, nonché imperatrice lei stessa, assaggiò questo vino mentre da Ravenna, allora capitale dell’Impero romano, stava attraversando il confine tra Romagna e Toscana.

Il vino le fu servito in un bicchiere di terraglia. L’imperatrice appena bevuto un sorso di Albana, fu tanto estasiata dalla bontà del vino da esclamare: “Non così umilmente ti si dovrebbe bere, bensì berti in oro, per rendere omaggio alla tua soavità!” Così nacque, da berti in oro, il nome del paese di Bertinoro, sulle colline forlivesi, da sempre considerato luogo di squisita ospitalità e si tramandò la fama dell’Albana.

Già siamo al calice o coppa d’oro e a Galla Placidia, che tramite Alarico è legata al ‘graal’ e al favoloso tesoro che il re visigoto razziò a Roma il 24 agosto del 410 d.C., Alarico si portò via anche il tesoro del tempio di Gerusalemme, tra cui si favoleggia l’arca/graal, che i Romani avevano sottratto al tempio di Salomone nel 70 d.C. e si portò pure via la diciottenne Galla Placidia di cui si era invaghito. Non sto a raccontare le altre peripezie del tesoro e di Galla Placidia, volendo solo evidenziare il legame fra Albana/luminoso/coppa/oro/Galla Placidia che rimandano al ‘graal’… e non è finita qui.

Una tradizione lega l’Albana ai Colli Albani, da cui provenivano i legionari colonizzatori della Romagna, la zona odierna dei Castelli Romani. Qui sorgeva la città latina di Alba Longa, qui vi era ‘il nemus’ cioè il bosco sacro, un luogo di culto caratteristico delle antiche religioni. Il bosco sacro di Nemi era un’antica sede del santuario di Diana Nemorensis, fu uno dei luoghi sacri più importanti dell’antichità preistorica e storica, qui nascono i gemelli Romolo e Remo, la loro madre Vesta era sacerdotessa del culto di Diana e assieme alle vestali custodiva il fuoco sacro.

Il fuoco è legato ai “cagots” una popolazione misteriosa che viveva, e forse vive ancora, fra i Pirenei spagnoli e quelli francesi, dei paria messi al bando dalla società che hanno a che fare con la cerca del graal. E ora dopo aver letto questo scombiccherato articolo, adatto alle facezie dell’estate, per ritornare al bel tempo antico vi consiglio, dopo una passeggiata al paese medioevale di Bertinoro, di fermarvi alla Ca’ de Be, un’osteria enoteca, di sgranocchiarvi una piadina, vuota o ancora meglio piena, accompagnando il leggero pasto con un bicchiere di Albana, magari dolce, un incontro opposto ma assai seducente, godendovi il panorama, da questa osteria si ha una vista mozzafiato, in certe giornate chiare si riesce persino a vedere il mare, facendovi trasportare dalla magia.

Paola Tassinari

L’origine del nome, del dolce zuppa inglese, è l’allegoria della zuppa dinastica britannica del Settecento?

L’origine del nome, del dolce zuppa inglese, è l’allegoria della zuppa dinastica britannica del Settecento?

Redazione Romagna Futura di Redazione Romagna Futura, in Cultura Romagna, del 31 Lug 2018, 20:03

La zuppa inglese è un dolce al cucchiaio di crema e cioccolato, con uno strato di pan di spagna o savoiardi o ciambella imbevuta nell’Alchermes. Ogni azdora ha la sua variante ben custodita; le sue origini sono misteriose e varie regioni, non solo italiane ne rivendicano l’invenzione. Ma perché si chiama zuppa inglese?

L’Inghilterra non c’entra nulla? E’ davvero così? La prima ricetta scritta si trova in “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, di Pellegrino Artusi, pubblicato nel 1891. Sul finire dell’800, la zuppa inglese era diffusa in almeno tre regioni italiane: Emilia Romagna, Toscana e Marche e ognuna di esse ne dichiarava la paternità, ma solo in Emilia e in Romagna la zuppa inglese era già nota nel Settecento.

Nel Seicento, in Inghilterra, era diffuso il trifle, che pare esserne l’antesignano, un dolce con base di pasta, intriso di vino dolce con pezzi di frutta e coperto da crema. Trifle in inglese ha significato di sciocchezza e in francese di inganno mentre in italiano zuppa, in senso figurato, si dice di guazzabuglio. Il trifle era diffuso in Inghilterra nel ‘600 perché arriva in Romagna nel ‘700? Alla fine del XVII secolo, Giacomo II d’Inghilterra si sposò con una principessa cattolica di quindici anni, Maria Beatrice d’Este dei duchi di Modena e Reggio (in Inghilterra nota come Mary of Modena), i due si sposarono prima con rito cattolico poi con una breve cerimonia con rito anglicano per rendere ufficiali le nozze.

La storia di questo re, si intreccia con la Francia, l’Olanda, la Spagna e con Roma in una zuppa dinastica con guerre, assassini, figli legittimi inventati, fughe, colpi di mano, supremazia fra protestanti e cattolici, complotti papali in una confusione generale dovuta all’alternarsi della supremazia della Chiesa anglicana su quella cattolica e viceversa. Così lo stesso Giacomo, fervente cattolico, avallò una legge con cui tutte le persone che ricoprivano un incarico pubblico, civile o militare, avevano l’obbligo di fare il giuramento di supremazia e fedeltà alla Chiesa anglicana, compreso il re, allo stesso tempo ne firmò un’altra simile, ma contraria, in cui chi rifiutava di prestare giuramento e rimaneva fermo nella fede protestante veniva perseguitato con crudeltà.

Giacomo II Stuart è stato re d’Inghilterra, Scozia, Irlanda e re titolare di Francia dal 1685 al 1688, fu l’ultimo sovrano della dinastia Stuart. Durante la guerra civile che portò alla proclamazione della repubblica di Cromwell, Giacomo riuscì a fuggire prima in Olanda, poi in Francia e in seguito in Spagna. Nel 1672 si convertì ufficialmente al cattolicesimo, attirandosi l’ostilità della Chiesa anglicana, barcamenandosi fra la sua fede cattolica e quella protestante dell’Inghilterra, in una serie infinita di cavilli e di complotti.

Nel 1673, quando si sposò con Maria Beatrice, lo scontento nel Parlamento fu tale, che si diffuse la notizia che Maria fosse una spia del papa. Giacomo salì al trono, varando una serie di riforme a favore del cattolicesimo, sostenuto dal papa e dalla Francia, soffocando nel sangue una rivolta capeggiata dal nipote. Nel 1688, la nascita di un erede maschio, (precludeva l’ascesa al trono della figlia di primo letto di Giacomo, Maria Stuarda di fede protestante), aumentò lo scontento generale, si insinuò che il bambino fosse nato morto e che fosse stato sostituito da un altro.

I capi dell’opposizione parlamentare cominciarono a trattare segretamente con il genero del re, marito di Maria Stuart, Guglielmo d’Orange, per favorirne l’ascesa al trono inglese. La cosiddetta Gloriosa Rivoluzione scoppiò nel 1688 e terminò con l’instaurazione di una monarchia costituzionale di nomina parlamentare e con il riconoscimento dei due nuovi regnanti, Guglielmo e Maria Stuart.

Giacomo riparò in Francia, da dove fece un vano tentativo di riconquista al trono. E allora? E’ probabile che il dolce arrivasse tramite Maria Beatrice d’Este sulla tavola dei duchi di Modena e Reggiodiffondendosi poi nella Romandiola, la Romagna estense (Lugo, Bagnacavallo, Cotignola, Conselice, Massa Lombarda, Sant’Agata sul Santerno e Fusignano), mantenendo il nome zuppa inglese perché metaforicamente ricordava i tragici eventi inglesi.

Paola Tassinari