IN CERCA DEL GRAAL

800px-ravenna_san_vitale_teodora_e_il_suo_seguito_prima_metc3a0_del_vi_secolo

Venerdì 01/04/2016, la data non è casuale, presenterò il mio romanzo, “I viaggi di Gilles”, alla Galleria d’Arte MAF, Via Mazzini, 20 a Forlì. Il romanzo, tratta la cerca e la trova del Graal, in Romagna, ora dopo qualche anno, dalla pubblicazione del romanzo, ho un’altra idea per la cerca del Graal, che voglio regalare, come se fosse una favola, ai lettori della Voce, sperando di allietarli, con uno scritto “strambo”, ma unico. Il primo a citare il Graal, fu Chrètien de Troyes, all’inizio del XII secolo, nel poema Perceval o il racconto del Graal, ambientato alla corte di re Artù. Chrètien parla del Graal come di un contenitore luminoso e abbagliante, incastonato di pietre preziose, portato da una fanciulla, durante una processione, questo Graal conterebbe un’ostia, come nutrimento spirituale. E’ Galahad il figlio naturale di Lancillotto, il cavaliere perfetto che trova il “contenitore abbagliante”, in quanto diversamente dal padre, è un puro, non legato ai piaceri carnali. Dopo di lui, un altro poeta francese, Robert de Boron, parla del Graal come calice dell’Ultima Cena e il Graal diventa Sacro. Questa parte religiosa del Sacro Calice ben si adatta all’epoca, in cui il precetto dell’Eucaristia si stava affermando solidamente e fiorivano i miracoli di ostie grondanti il sangue di Cristo. Il Graal è visto a volte materialmente come una coppa, un catino, un piatto, un calice, una pietra o spiritualmente come un ideale di appagamento fra il dare e il ricevere, solitamente a che fare con una fanciulla, un tesoro, una o più colombe, una veggenza cioè la capacità di vedere il bello e il buono nel futuro e i luoghi dove lo si può ritrovare sono veramente molteplici. Ci sono vari calici nel mondo che, in un dato momento della storia, hanno vantato di essere il vero Santo Graal, ma l’unico che ancora rivendica la sua autenticità è il Santo Calice di Valencia, con tanto di richiesta di far parte del Patrimonio Unesco. Anche la Santa Sede appoggia quest’ipotesi: Giovanni Paolo II, lo usò per celebrare la messa nel corso della sua visita a Valencia, così come pure Benedetto XVI, inoltre dal 2015 è stato istituito l’Anno Santo Giubilare che si terrà ogni cinque anni. Dunque partiamo da questo Calice di Valencia, tenendo conto che a volte il Graal religioso e il Graal laico convivono, che è una coppa di agata cornalina, datata fra i secoli II e I a.C. proveniente da Antiochia o Alessandria. La tesi sull’autenticità del Santo Calice di Valencia sostiene che questo fu portato a Roma da San Pietro, il calice sarebbe quello dell’Ultima Cena, che Pietro usò a Roma per celebrare l’Eucarestia e fu poi conservato e usato dai successivi papi fino a Sisto II. Nel 258, per salvarlo dalla cupidigia dell’imperatore Valeriano, Sisto II lo avrebbe consegnato al diacono Lorenzo, originario della zona dei Pinerei, che lo inviò alla sua città natale per mezzo di Precelio, un cristiano spagnolo che si trovava a Roma. Quest’episodio è raccontato nella ‘Vita di San Lorenzo’ scritta da San Donato nel secolo VI. Poi del calice si hanno notizie solo dall’VIII secolo in poi: secondo alcune tradizioni, rimase nascosto per diverso tempo in vari luoghi dei Pirenei per proteggerlo dall’invasione musulmana. Nel secolo XI è presente nel monastero di San Juan de la Peña, sempre in zona pirenaica e da allora in poi sono perfettamente documentate tutte le sue peripezie in territorio spagnolo fino ad arrivare a Valencia nel 1437. Questo è ciò che si raccoglie, cercando qua e là. Ora inserisco qualche mia ipotesi. Il calice dell’Ultima Cena, ipoteticamente poteva essere anche uno dei doni portato dai Magi al Bambino, precisamente la coppa che conteneva l’oro. Se teniamo presente ciò, la mente non può che andare verso Ravenna dove la raffigurazione dei Magi è quasi in ogni dove, sui mosaici di Sant’Apollinare Nuovo, sui sarcofagi, e a San Vitale sul mantello di Teodora, dove l’imperatrice ha un calice prezioso in mano, mentre dalla parte opposta Giustiniano ha la patena. San Vitale esplica nei suoi mosaici l’Eucaristia con l’Offertorio, è la liturgia della Messa, e ispirerà le scene per la prima apparizione del Santo Graal, nel Parsifal di Wagner.

immagine: San Vitale, Teodora, Ravenna

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 21/03/2016

IL SEPOLCRO DI ISOTTA

isotta

Sigismondo si innamorò di Isotta, figlia di un ricco e nobile signore di Sassoferrato, quando era appena tredicenne. Lui aveva poco più di venti anni. L’amore crebbe col passar del tempo e fu corrisposto. Isotta era intelligente, colta e bella. Sigismondo convolò a nozze con Polissena, dopo la morte della prima moglie Ginevra, forse uccisa da lui. Polissena morì di peste o ci fu la mano del Malatesta, in ogni caso Isotta dovette aspettare altri sette anni. Finalmente nel 1456 ci fu il matrimonio tra il Signore di Rimini e la bella Isotta, questa volta non un matrimonio d’interesse, come i primi due, che avevano legato Sigismondo a due potenti signori. Dopo tanto, finalmente la donna amata; colei che fu consigliera prudente e forte, che fu fedele nella buona e nella cattiva fortuna. Il condottiero si fa poeta e le scrive teneri versi:“Dinanzi a te l’erbetta e i fior s’inchina Vaghi d’essere premi del dolce pede”. Sigismondo celebra il suo amore per Isotta, che viene cantato dai rimatori e dagli altri artisti della corte. Isotta regge, vigile e accorta, lo Stato nelle assenze del marito; tratta con ambasciatori e diplomatici; vende i suoi gioielli per sostenere, lo sposo cacciato da Rimini. Isotta morì nel 1474 e fu sepolta nel Tempio Malatestiano. La Cappella chiamata degli Angeli o, più spesso detta d’Isotta, si trova all’interno del Tempio Malatestiano di Rimini. Al centro della nicchia, sopra l’altare, si trova la figura dell’arcangelo Michele, ha nella mano destra la spada, nella sinistra la bilancia e col piede preme la testa del demonio. C’è chi vi ravvisa il tocco di Agostino di Duccio, personalmente preferisco le diciotto formelle (su cui si nota ancora l’acceso azzurro) che si trovano nei pilastri. Le formelle ritraggono armoniosi angeli che suonano, cantano e danzano, con le vesti fluttuanti e leggere, paiono d’organza non certo di marmo, le ali dorate, corposi e allo stesso tempo lievi, hanno tutta la grazia della bellezza paradisiaca, forse più belli degli angeli delle famose cantorie di Donatello o di Luca della Robbia, qui è evidente la mano di Agostino di Duccio. A sinistra della cappella vi è l’arca di Isotta, probabilmente di Matteo de’ Pasti, scultore e grande medaglista, al cui pari, nel XV secolo vi era solo Pisanello. L’arca poggia su due elefanti bianchi, ha come sfondo un padiglione marmoreo, uno stemma con le solite lettere S e I attorcigliate, che possono anche evocare il bastone col serpente di Asclepio, simbolo di resurrezione. Sul tutto troneggiano due teste d’elefante contrapposte. Nel sarcofago, posto circa a mezz’altezza, due putti sorreggono un cartiglio bronzeo. Sotto la targa bronzea, nel 1912 è stata scoperta la seguente scritta: “A Isotta da Rimini, per avvenenza e virtù ornamento d’Italia”. Quando e chi nascose questa scritta? Fu per invidia e gelosia o perché Isotta non meritava tale fama? Nel 1756 si fece una ricognizione della tomba d’Isotta. Furono trovate solo ossa e nient’altro, niente medaglie o gioielli. Nel muro destro della cappella era appesa un tempo il Crocifisso su tavola dipinta da Giotto. La cappella è contornata da una balaustra ornata di angioletti un po’ grassottelli e perciò un po’ goffi ma proprio per questo ancora più ricchi di tenerezza. Nella cappella opposta, l’occhio è attratto da ben 61 angioletti, su uno sfondo azzurro, giocano, suonano, corrono, danzano, fanno cavalluccio e il girotondo, spaventano gli anatroccoli e si spruzzano l’acqua addosso e si fanno pure i dispetti. Agostino di Duccio ha rappresentato la gioiosità che è propria di chi si affida o crede con animo semplice e puro. E’ chiamata Cappella dei Giochi infantili, o dell’Angelo custode, dove trovano posto i sepolcri delle prime due mogli di Sigismondo, Ginevra d’Este e Polissena Sforza, forse furono sposate per motivi d’interesse ma ebbero un degno sepolcro. Tutta la letteratura che si è profusa attorno all’amore di Sigismondo e Isotta andrebbe un po’ ridimensionata, forse sarebbe meglio dire che il Malatesta amava non una donna, ma varie donne, prova ne è che ebbe molte amanti e da due di queste, Vannetta de’ Toschi e Gentile di Giovanni, ebbe anche una nidiata di figli.

immagini: Sepolcro di Isotta

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 14/03/2016

 

LE VASCHE PREISTORICHE

Manifesto vasche rupestri-2

In Alta Valmarecchia, in uno scenario molto suggestivo, fra monti, boschi e sorgenti, si trovano testimonianze dell’archeologia preistorica, sono le cosiddette vasche rupestri, note anche come “are sacrificali”. Tutti i manufatti presenti nell’area vengono classificati nelle tre tipologie, dettate dalla loro morfologia: vasche singole, vasche plurime, vasche aperte. Probabile reminiscenza di antichi riti cultuali, alle vasche rupestri della Valmarecchia vengono attribuite diverse funzioni, lungo ai secoli, tutti riconducibili o all’ambito produttivo o a quello rituale. La loro presenza fa pensare che questi monti e la valle sottostante fossero fin dall’antichità un’importante via di comunicazione tra la Romagna e l’Italia centrale. La tradizione orale attribuisce alle vasche scavate nella roccia nomi come “ara sacrificale” o “letto” di questo o di quel Santo. In queste “are”, alcune delle quali si trovano vicino a edifici sacri, si effettuavano forse riti sacrificali legati al culto delle acque, mentre i “letti”, ognuno legato a un Santo vengono ritenuti, dalla popolazione locale, taumaturgici per il mal di schiena o il mal di testa. Per i Celti le montagne, le rocce, i massi, i sassi erratici erano la divinità manifesta, e tutti i loro culti hanno al centro la roccia. Le loro chiese erano i boschi sacri. Le vette delle montagne erano le loro cattedrali, in quanto erano il luogo più vicino al cielo, scrutavano le stelle, osservavano quel cielo che a volte mandava acqua, fuoco, neve, grandine, e dove c’è il Sole e la Luna. L’esplorazione del cielo era vitale per loro e forse conoscevano sulla meteorologia più di quello che conosciamo noi. Per i Celti, dalla pietra delle montagne nasceva l’acqua e la fertilità. Le montagne le rocce, i culti delle acque e degli alberi sopravvissero a tutte le religioni. Nel concilio di Tours del 567 si riconosceva che la figura di Cristo, nelle zone montane più impervie, era ancora praticamente sconosciuta e si invitavano i religiosi a scacciare le persone che si dedicavano al culto delle pietre, degli alberi, delle fonti o di altri luoghi designati come pagani. Lo stesso argomento viene poi ripreso in un documento di Carlo Magno del 789. L’effetto taumaturgico per il mal di schiena e il mal di testa dei cosiddetti letti intitolati ai Santi, fa pensare che su quelle pietre ai tempi dei Celti, dei Goti o dei Longobardi si svolgessero riti di sangue. I Longobardi avevano i culti dei popoli germanici, risolvevano i conflitti tramite i giudizi di Dio o i sacri duelli, praticavano l’antropofagia rituale e l’immolazione dei teschi agli dei, si sa pure di rituali più violenti, quelli dei Vichinghi in cui alla vittima prescelta, ancora viva, veniva praticata una profonda incisione sulla schiena dalla quale venivano estratti i principali organi, tale rito era chiamato Aquila di sangue. I Celti invece costruivano colossali immagini antropomorfe di giunchi o di legno che riempivano di uomini e bestiame, poi vi appiccavano il fuoco ed esse ardevano con tutto ciò che c’era dentro, di cui rimane oggi un ricordo nei “pagliacci” che si bruciano nelle varie feste o sagre. Lungo la strada che porta a Pennabilli troviamo anche il Sasso di San Francesco dove si dice che il Santo si sia fermato a riposare, il sasso a forma di sedile è ricoperto da pietre perché chi si ferma qui in preghiera, lascia un sasso, al punto che ormai il sedile è nascosto da una piccola montagna. L’umanità preistorica immaginava che come il Dio rendeva feconda la terra attraverso la roccia lo stesso poteva accadere per le donne, le quali strisciando sopra questi sacri massi si assicuravano la capacità di procreare. Usanza che ancora resiste, al Santuario di Oropa, vicino a Biella, dedicato alla Madonna Nera, vi è un masso erratico, popolarmente chiamato “ròch dla vita” (sasso della vita) e tramandato come “pietra della fecondità”: le donne vi si strofinavano per propiziare una gravidanza o un parto. Ciò che ci dicono i reperti, i sassi e le vasche dell’Alta Valmarecchia è qualcosa di antico, di sacro e di mostruoso che non si è del tutto dissolto, anche la Chiesa si fonda sulla pietra, quella angolare e su Pietro.

 

 articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 07/03/2016

ENRICO PAZZI E LA STATUA DI DANTE ALIGHIERI

tumblr_nywr66YQvB1td9tg8o1_500

Enrico Pazzi, scultore un po’ retorico, ma assai impetuoso, nacque a Ravenna nel 1818, frequentò la locale Accademia di Belle Arti. Appartenne alla più importante loggia massonica fiorentina, la Concordia. Fra le sue opere più significative troviamo, la statua equestre in bronzo di Michele Obrenovitsch, le statue di Girolamo Savonarola e quella di Dante, rispettivamente collocate a Firenze in piazza San Marco e in piazza Santa Croce e il monumento a Luigi Carlo Farini eretto nel 1878 nel piazzale della stazione di Ravenna, distrutto durante i bombardamenti del 1944, tutt’oggi è ricollocata una copia. L’illustre uomo politico e scienziato non pare a suo agio in mezzo al traffico, Farini era un uomo metodico, riflessivo non da invettive. Pazzi tornò a Ravenna e lasciò alla sua città natale una raccolta di oggetti d’arte. Morì a Firenze nel 1899. Dante Alighieri, durante il Risorgimento,fu considerato il padre ideale dell’unità nazionale. Pensate che le terre irredente, quelle rimaste fuori dal processo di unificazione, partecipavano, anche loro, al “culto” di Dante, riferisce Santino Muratori, “Trieste diede l’ampolla votiva, fusa con oggetti d’argento di domestico uso offerti dalle donne e dai fanciulli di quella città e di tutto il così detto ‘Litorale’; Fiume diede l’anello d’argento su sui posa l’anfora; la colonna alabastrina che serve da piedistallo fu tratta da un masso delle grotte del Carso”… Pazzi nel 1851 aveva eseguito un bozzetto di Dante con il proposito di farne una copia in marmo da offrire al Municipio di Ravenna che però rifiutò l’offerta, causa l’enorme spesa, probabile che il diniego provenisse dal governo pontificio, un esecutore massone e Dante ripreso mentre pronunciava la famosa invettiva “Ahi, serva Italia di dolore ostello”, non poteva piacere alla Chiesa. L’opera finì in piazza Santa Croce a Firenze. Nella statua Dante è effigiato in piedi, incoronato d’alloro, corrucciato, con gli occhi bui, sorregge con la mano destra la Divina Commedia e ha vicino un’aquila. Il basamento è a pianta quadrata, agli angoli poggiano quattro leoni. Sarebbe bello,traslocare la statua del Farini in un luogo più idoneo, al suo posto mettere una copia della statua di Dante del Pazzi: la stazione, i viaggiatori, i perditempo, accolti o ammoniti dal suo sguardo severo. Ravenna non ha una statua imponente del suo più noto cittadino.

 

immagine: particolare statua Dante di Enrico Pazzi

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 29/02/2016

DUE CARBONARI CESENATI

NellAnno_Signore_(1969)

Roma 1825: tentato omicidio al nobile carbonaro Filippo Spada, è colpevole di aver tradito la causa. Due carbonari Leonida Montanari e Angelo Targhini, vengono accusati del misfatto tramite un delatore, sono condannati a morte. Ricevono in cella le visite di un frate confessore (Alberto Sordi) che vuole indurli al pentimento. Ma ogni insistenza è vana, i due rivoluzionari, insensibili ai richiami della fede, arrivano a farsi beffa del monaco, che non si arrende. La vicenda si svolge nella Roma papalina nell’anno del Giubileo, teatro di intrighi politici e di oscurantismo religioso. Più che nei rivoluzionari, il popolo si riconosce in Pasquino,(una delle statue ‘parlanti’ di Roma ) che veste le spoglie di un ciabattino, Cornacchia (Nino Manfredi), “voce” di Roma e misterioso autore delle prose satiriche contro le autorità pontificie. Leonida e Angelo per un momento si illudono, che il popolo si ribelli allo stato di polizia e si allei dalla loro parte: ma i popolani, al contrario, stanno protestando perché vogliono assistere all’esecuzione ed anzi si lamentano perché l’evento viene ritardato. Nonostante tutti gli sforzi degli amici, Targhini e Montanari vengono ghigliottinati dal boia del papa, Mastro Titta. Morendo, Montanari si dichiarò “innocente, frammassone ed impenitente”. L’esecuzione fu in Piazza del Popolo, furono sepolti nella terra sconsacrata dove finivano i suicidi, i ladri, i vagabondi e le prostitute. I romani, colpiti dalla vicenda dei due giovani, li adottarono dopo la morte, tanto da ritenerli figli della città eterna e da dimenticare, nel tempo, le origini forestiere dei due. Forse avrete riconosciuto la trama del bel film di Luigi Magni : “Nell’Anno del Signore” ma è anche il resoconto di un fatto realmente accaduto e i due carbonari giustiziati erano di Cesena. Targhini, di madre cesenate e di padre bresciano, era cuoco di Pio VII. Montanari era di Cesena, era di povera ma onesta famiglia; a 24 anni era già medico chirurgo, era bello e gentile. Pieno di amor patrio, non riconosceva la corona bensì era fedele alla Repubblica, così è descritto. Si trasferì a Rocca di Papa, vicino a Roma, per esercitare la professione. Targhini e Montanari sono considerati i primi martiri del Risorgimento italiano. Nel 1887 il Comune di Cesena volle ricordare il sacrificio di Montanari con un medaglione realizzato da Tullio Golfarelli, scultore e pittore cesenate. La lapide è affissa sotto i portici del Palazzo Comunale un tempo sede dei rappresentanti pontifici, ancora oggi intitolato al Cardinale Albornoz. L’edificio è situato in Piazza del Popolo, dove al centro vi è la cinquecentesca fontana del Masini, l’architetto cui la leggenda vuole gli fossero poi amputate le mani per evitare replicasse l’opera altrove,(certamente una fandonia, ma dimostra l’amore dei cesenati per la fontana). In un’altra Piazza del Popolo, a Roma in onore dei due giovani fu affissa una lapide, fortemente voluta, nel 1909, dal sindaco di Roma Ernesto Nathan. Ernesto Nathan (Londra 1845/ Roma 1921) è stato un politico italiano, sindaco di Roma dal 1907 al 1913. Ebreo, di origini anglo-italiane, massone, laico e anticlericale, ricoprì più volte la carica di gran maestro del Grande Oriente d’Italia. Un aneddoto famoso narra che, neoeletto sindaco, a Nathan venne sottoposto il bilancio del comune per la firma. Nathan lo esaminò attentamente e, quando lesse la voce “frattaglie per gatti”, chiese spiegazioni al messo che gli aveva portato il carteggio. Questi rispose che si trattava di fondi per il mantenimento di una torma di gatti che serviva a difendere dai topi i documenti custoditi negli uffici. Nathan prese la penna e cancellò la voce dal bilancio, spiegando allo stupito funzionario, che da allora in poi i gatti del Campidoglio si sarebbero dovuti sfamare coi topi e nel caso non trovassero i topi, veniva a cessare anche lo scopo della loro presenza. Da questo episodio deriverebbe il detto romanesco Nun c’è trippa pe’ gatti. Nathan era uomo di rigore ed etica di primo ordine, la madre era una fervente mazziniana. Voci di gossip ottocentesco lo dicono figlio illegittimo di Mazzini.

 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 29/02/2016

Pieve di Tho, la chiesa sull’ottavo miglio

Pieve_del_Tho_FLLa Pieve di San Giovanni in Ottavo ( Pieve del Tho) è ubicata poco oltre al paese di Brisighella. E’ una Pieve molto antica, le sue origini pare risalgano a Galla Placidia (392/450), che l’avrebbe fatta erigere sui resti di un tempio pagano dedicato a Giove Ammone (cioè con elementi sia greci che egizi). Il primo documento scritto che attesta la sua esistenza risale all’anno 909. È detta “in ottavo” perché collocata all’ottavo miglio della strada romana“Via Faventina” che congiungeva Faenza con l’Etruria. Sorge isolata fra il verde, spoglia e severa con un piccolo protiro che la ingentilisce, è costruita in stile romanico con materiale di reimpiego, gli storici considerano l’edificio l’anello dicongiunzione tra le pievi ravennati sorte dal VI sec. e le chiese dei secoli successivi. L’interno a tre navate è suddiviso da colonne di marmo diverse fra loro, forse resti dell’antico tempio. La quarta colonna sulla destra riporta scolpita un’iscrizione con una dedica agli imperatori romani. La provenienza di questa colonna è ignota, alcuni sostengono che essa rappresenta una colonna miliare, altri un segno devozionale agli imperatori citati. Sono comunque nomi di imperatori legati alla dinastia di Galla Placidia, quindi non è illogico pensare che in effetti l’origine della Chiesa sia dovuta all’imperatrice. Galla a Ravenna fece erigere il suo mausoleo denso di simboli religiosi, il numero 8 legato alla Pieve è simbolo di Resurrezione, l’ottagono simbolicamente è l’unione di cielo e di terra. Il paliotto dell’altare è una bella lastra raffigurante Cristo seduto tra due angeli, due palme e due agnelli forse del VII secolo, verosimilmente in stile longobardo. La cripta raccoglie vari reperti, una tomba romana alla cappuccina, ampolle di vetro ed un’antica macina di olive per uso familiare. Questo piccolo frantoio di olive è una precoce testimonianza dell’odierno “Brisighello” un olio di alta qualità che si produce a Brisighella. Infine da notare, sempre nella cripta, un mattone romano con linee incise: una “tabula lusoria”, un antico gioco da tavolo romano che si giocava su una scacchiera con due squadre di diversa forza, forse il “Filetto” oppure i “Latrunculi” che andavano per la maggiore.Chi entra in questo luogo si sente immerso in un tempo antico, un filo sottile ci lega a storie passate di imperatrici, divinità e spiritualità.

immagine: Pieve del Tho

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22/02/2016