Le intricate vicende delle ossa dantesche

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Se ci mettiamo a discettare sul caso, ci ritroviamo in un gomitolo aggrovigliato. C’è chi nega l’esistenza del caso asserendo che tutto avviene tramite regole che ancora non riusciamo a capire perché le ignoriamo, diversamente c’è chi crede all’esistenza del caso accanto alla necessità, dove il caso innova e la necessità conserva. Io a volte propendo per la prima ipotesi, altre per la seconda. Fu comunque un caso che Dante morisse a Ravenna nel 1321, ma fu una necessità, una determinazione, se le sue ossa rimasero in terra  ravennate. Nel 1519 i fiorentini ottennero il permesso di prelevare le ossa di Dante per portarle a Firenze, ma giunti a Ravenna trovarono l’urna vuota. I francescani, praticando un buco nel muro avevano trafugato le ossa per nasconderle nel convento. La cassetta con le ossa, fu ritrovata nel 1865. A Dante non è stato eretto un grandioso monumento, le sue ossa riposano in un tempietto dell’architetto ravennate Camillo Morigia. E’una costruzione neoclassica, quadrangolare con cupola, dai colori chiari, molto semplice ma allo stesso tempo “tosta” in quanto si impone in una lunga visuale, per chi arriva da Piazza Garibaldi. L’area è molto suggestiva, chiamata zona del silenzio, con la Chiesa di San Francesco,il Quadrarco di Braccioforte, la biblioteca, il Museo dantesco, nonostante gli sforzi è anche zona di degrado, uno schiaffo in faccia al Poeta, anche se oggi è molto migliorata. Il tempietto racchiude al suo interno una bellissima opera d’arte. Nel 1483 Bernardo Bembo, capitano e podestà di Ravenna, durante il dominio veneto, incaricò Pietro Lombardo di abbellire il sepolcro col ritratto che ancora si conserva dentro. Pietro Lombardo (1435/1515)  lavorò a Padova e Venezia dove creò una fiorente bottega, lavorò in tutto il Veneto. Specializzato nella scultura funeraria, realizzò grandi monumenti, quello per il doge Mocenigo fu la sintesi della sua scultura,  egli fu l’espressione in scultura, di ciò che era la supremazia veneziana del tempo. Nella lastra Dante, è in un ambiente che simula uno studio col soffitto a cassettoni, con tanti libri, c’è un leggio e un volume aperto e un altro cui Dante poggia la mano. Ha la tunica ben panneggiata, il copricapo con cuffietta, è cinto dal lauro e ha una mano appoggiata al mento, un po’ malinconico e pensieroso. Il tutto evoca un grande intelletto, e una persona dabbene, serena e pacata.

immagine: Dante bassorilievo di Pietro Lombardo

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno26/10/2015

I miracoli degli animali

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A Longiano si conserva una grande tavola dipinta su tela, raffigurante un Crocifisso ascrivibile alla seconda metà del Duecento, di un anonimo artista influenzato da Giunta Pisano. Presenta un fondo a disegni geometrici, su cui emerge il corpo di Cristo molto arcuato, il volto è afflitto e doloroso. Lo stile è bizantineggiante in quanto presenta il corpo definito da linee decise, mentre il telo che lo copre ha le classiche lumeggiature di tipo orientale. I bracci terminano con la Madonna da una parte e San Giovanni dall’altra, iconologia classica, in quanto i due Santi sarebbero stati fisicamente presenti alla Crocifissione.
La fama del santuario e del Crocifisso si diffuse in modo particolare dal 6 maggio del 1493. I francescani erano riuniti nel convento di Longiano per una celebrazione; gli abitanti del vicino paese di Gambettola donarono ai frati un vitello che, portato nel convento, si inginocchiò in adorazione di fronte al  Crocifisso. Nonostante i ripetuti colpi di frusta il bue si mosse solo dopo che fu benedetto. Da quella data si susseguirono grazie e miracoli per cui la fama del santuario si diffuse per tutta la regione. In Romagna ce ne sono altri di miracoli con gli animali, legati al mondo francescano, questi ultimi furono i primi “ecologisti”  della natura se non consideriamo religiosi più antichi come i druidi. A Rimini, in Piazza Tre Martiri, (l’antico foro di Rimini), esiste una cappella chiamata “Tempietto”, del 1518, dedicata a Sant’Antonio da Padova.    Ricostruita nel XVII secolo dopo il terremoto del 1672, ha mutato l’aspetto originale per i vari restauri. E’ a forma ottagonale, contornata da colonne e rivestita di marmi. Ha la cupola verde come pure la lanterna e ha una piccola campana, è molto suggestiva, pare una piccola rotonda. All’interno si conserva un tronco di colonna dal quale il Santo operò il miracolo della mula nel 1223. Sant’Antonio si trovava a Rimini quando un eretico di nome Bonovillo gli avrebbe detto che, se avesse provato con un miracolo la vera presenza di Cristo nell’ostia consacrata, si sarebbe sottomesso alla Chiesa. Bonovillo avrebbe tenuto chiusa per tre giorni nella stalla la sua mula senza darle da mangiare, poi le avrebbe messo davanti della biada. Il Santo avrebbe dovuto mettere l’ostia di fronte alla mula, se l’animale avesse evitato il fieno per prostrarsi dinanzi all’ostia, l’eretico avrebbe creduto. Il Santo, si recò in processione con l’ostia consacrata, giunto davanti alla mula disse:“In virtù e in nome del Creatore, ti ordino di avvicinarti con umiltà e di prestare la dovuta venerazione”. Come il Santo finì di parlare, la mula lasciò da parte il fieno e si inginocchiò. Molti sono questi miracoli, in cui appaiono animali, si ricollegano allo scontro con gli eretici, proprio su una verità fondamentale dei cattolici: la presenza reale del Signore nel sacramento dell’Eucaristia. Se nei primi secoli ci fu la lotta sui dogmi della Trinità fra ariani e cristiani, nei primi secoli dell’anno Mille ci furono le eresie  dei catari, dei patarini e dei valdesi. Gli animali più devoti dell’uomo, sembra un riferimento proprio agli eretici, comunque questi prodigi non sono avvenuti solo in Romagna. San Zopito è il patrono di Loreto Aprutino paese che si trova in Abruzzo. Nella processione che si tiene in suo onore, a Pentecoste e il lunedì seguente, si usa ancora condurre in chiesa un bue, cavalcato da un bimbo vestito di bianco, a inginocchiarsi davanti alla statua del Santo. Dallo sterco del bue i contadini traggono auspici per il raccolto. Il rito del bue in chiesa prende avvio dal 1711. Durante il transito delle reliquie del  Santo, durante la processione, un contadino che si trovava nei campi assieme al suo bue, non fece attenzione al rito, allora il bue si allontanò e si inchinò. Altra fonte vuole che il bue si sia inginocchiato, all’ingresso della stalla, senza volere entrare, perché il contadino aveva buttato, per sprezzo, nella mangiatoia l’ostia consacrata. I miracoli sono fandonie? Allora si abbia l’ardire di chiamare ciarlatani tutti coloro che, dalla politica all’economia ecc., ci  propongono miracolosi rimedi prendendosi gioco della nostra fede.

immagine:  Tempietto di Rimini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 19/10/2015

Villa Verrucchio e i tre miracoli francescani

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Villa Verrucchio non è un paese antico o medioevale con storie di signori o signorotti, si adagia placidamente ai piedi di Verrucchio. L’abitato sorge lungo la Marecchiese, un po’ anonimo, eppure è famoso per il buon cibo, già dai primi del ‘900. E poi ha una bella storia da raccontare legata a San Francesco, al convento che qui sorge e alla chiesa di Santa Croce. Il Santo al pari di Dante sembra abbia viaggiato per tutti i paesi della Romagna, tutti si vantano della loro presenza, tutti hanno un miracolo o un’invettiva; ma a Villa Verrucchio sembra che Francesco sia proprio transitato, in quanto un antico documento, il testamento di Malatesta da Verucchio, cita il monastero francescano già nel 1311. Secondo la tradizione, accanto alla chiesa, esisteva un piccolo dormitorio, poi trasformato nel convento attuale, presso il quale, nel maggio del 1213, si sarebbe fermato San Francesco che proveniva da San Leo, con in mano la donazione, appena ricevuta del Monte della Verna. Francesco si sarebbe riposato e avrebbe compiuto ben tre miracoli. Mentre passeggiava raccolse un bastone e battendolo per terra fece sgorgare tre  fonti di acqua termale, tutt’oggi esistenti e produttive. Si recò poi dentro al piccolo ricovero per dormire; per scaldarsi avrebbe voluto bruciare il ramo che però non prese fuoco. Il Santo interpretò questo come la voglia di vivere del bacchetto, uscì e lo piantò nella terra. Dal piccolo bastone, forse non completamente secco, nacque un cipresso: il gigantesco cipresso vecchio di oltre sette secoli (la data è scientificamente provata) ancora oggi visibile nel chiostro del monastero. Un po’ malandato, deve essere sostenuto da stampelle, nel 1980 ha perso la cima, ma il grande vecchio resiste, anche se un po’  spelacchiato incute reverenza. Il convento venne fatto costruire da un discepolo: frate Elia, nel 1215. E’ il più antico convento francescano della Romagna. Nel luogo in cui si trovava la cella, dove dormì San Francesco, è stata costruita una cappella. La Chiesa ha un  bel portale trecentesco e un interno neoclassico, nella parete sinistra si ammira una Crocifissione, affrescata nella prima metà del ‘300, di scuola giottesca.     L’opera è ben eseguita, ricca di pathos, con una bella figura di Cristo e gli angioletti svolazzanti e piangenti.   L’artista sconosciuto ha ben compreso la pittura di Giotto e ha una mano felice.

immagine: cipresso di Villa Verrucchio

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 19/10/2015

Una briciola di bellezza incastonata tra tre monti

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Brisighella è considerato uno dei borghi più ameni d’Italia, è una briciola di bellezza. Si trova in provincia di Ravenna, lungo la strada che da Faenza porta a Firenze. E’ un paese medievale con un dedalo di viuzze, adagiato ai piedi dei “Tre Colli”. L’origine del nome Brisighella potrebbe derivare dal celtico “Brix” (luogo scosceso) oppure dal latino “brisca” (terra spugnosa) o dal veneto “bressichella”(briciola). La nascita del borgo è datata al 1200, quando Maghinardo Pagani, edificò su uno dei cocuzzoli la roccaforte; ma già il territorio era stato occupato in tempi più antichi dai Romani. Maghinardo fu capitano del popolo e podestà di Faenza e di Imola e capitano del popolo di Forlì, per questo suo cambiare “gabbana” fu messo all’Inferno da Dante. Chi arriva a Brisighella non può mancare di fare la breve passeggiata ai Tre Colli, sui quali si ergono rispettivamente, la Rocca della Torre che ospita il Museo della Civiltà Contadina, la Torre dell’ Orologio al cui interno vi è la Mostra del Tempo e nell’ultimo colle, immerso nei cipressi, vi è il Santuario del Monticino, con l’effigie in ceramica della Madonna, a cui è dedicata una tra le più antiche sagre della Romagna. Da non perdere la storica “Via degli Asini”risalente al XII secolo, è una strada sopraelevata e coperta dove un tempo erano le stalle per gli asini dei carrettieri, che traevano il loro sostegno dal trasporto del gesso. Oggi vi sono dei negozi. Brisighella ha dato i natali a otto cardinali e numerosi sono gli edifici sacri. Fra tutti spicca la Pieve di San Giovanni in Ottavo edificata nel X secolo con materiali romani e barbarici, la cui costruzione leggendaria si attribuisce a Galla Placidia. Un’occhiata anche al piccolo Museo Giuseppe Ugonia, pittore e apprezzato litografo; all’ antica fonte del paese detta “la funtana di tri sbroff” (fontana dei tre zampilli) e al monumento “Fante che dorme” di Domenico Rambelli (1886/1972), un bronzo atipico ed ironico nei confronti della guerra, dalle forme opulente che ricordano le attuali opere scultoree di Fernando Botero. Antichi sapori si gustano in questo borgo, assolutamente da assaggiare il rinomato “Brisighello”olio extravergine d’oliva estratto a freddo per sgocciolamento e i piccanti e saporiti salumi di Mora romagnola. Numerose sono le sagre culinarie e spettacolari le Feste Medievali che si tengono alla fine di giugno.

immagine: Brisighella

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 12/10/2015

I misteri nei sarcofaghi

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La Basilica di Sant’Apollinare in Classe si trova appena fuori Ravenna. Fu eretta nella prima metà del VI secolo, finanziata da Giuliano Argentario, un munifico banchiere di origine bizantina che sovvenzionò anche la costruzione di San Vitale e voluta dal vescovo Ursicino (a cui è intitolata una delle porte della cinta muraria ravennate, nel tempo il nome è cambiato in Porta Sicina, Porta Sisina, fino ad assumere l’attuale Porta Sisi). La basilica fu consacrata dall’arcivescovo Massimiano nel 549 d.C., uno dei principali rappresentanti del potere imperiale della città, a difesa della Chiesa contro l’arianesimo. La basilica  venne dedicata a Sant’Apollinare, primo vescovo di Ravenna, e ne conserva le reliquie. La facciata austera e grave ha accanto l’alto campanile cilindrico. L’interno a tre navate conserva due meravigliose file di dodici colonne di marmo greco. Ma ciò che più colpisce è il catino absidale con i mosaici: Sant’Apollinare in posa orante con dodici pecorelle bianche (simboleggiano gli Apostoli), in un lussureggiante e verde prato. Questa piccola introduzione per parlarvi dei sarcofagi, vanno dal V all’VIII secolo, sono undici, dislocati lungo le navate. Passeggiando per Ravenna si possono trovare sarcofagi un po’ ovunque, personalmente mi ricordano l’Egitto con le mummie e i loro decorati contenitori. I sarcofagi ravennati hanno caratteristiche che li distinguono da tutti gli altri, soprattutto da quelli di Roma. Sono più grandi, sono scolpiti su quattro lati, e non solo su tre, il lato che andava appoggiato al muro solitamente non veniva istoriato, non sono a copertura piatta, ma hanno il coperchio a botte o a tetto e infine la composizione figurativa non è mai affollata. Nel sarcofago chiamato dei 12 Apostoli, essi portano corone su mani velate dal pallio, (tutto ciò che riguarda Cristo non va toccato dalle mani), ha elementi poco emergenti dal fondo, le figure sono simmetriche, i gesti fissi e ripetuti in un corteo astratto e simbolico, qui non conta la realtà ma il concetto.  Nei sarcofagi si assiste ad un graduale passaggio dalle forme realistiche, seppur molto ieratiche, alla resa puramente allegorica di tipo orientale, e perciò iconoclasta. Gli studiosi li dividono in tre tipi. Il sarcofago dei 12 apostoli come abbiamo visto è legato ancora alla figura umana. Il sarcofago dell’arcivescovo Teodoro, detto a sei nicchie, o quello con gli agnelli e le palme o quello con gli agnelli cruciferi anche se di datazione diversa sono basati sull’allegoria, su simboli di cui abbiamo dimenticato il significato ma che al tempo conoscevano assai bene. I lati dei sarcofagi presentano temi decorativi quali: la croce, la palma, il monogramma di Cristo, gli agnelli, la fonte dell’acqua, i pavoni, l’alfa e l’omega e i girali arborei. I due pavoni, simbolo della resurrezione e vita eterna, si dissetano all’unica fonte dell’acqua, da un passo dei Salmi “come un cervo cerca l’acqua, così l’anima cerca Dio”, l’anima deve anelare a Dio . I due agnelli, immagine del Cristo, simbolo di dolcezza, di semplicità, di innocenza, di purezza, si nutrono dei frutti della palma, significato della vittoria, dell’ascesa, della rinascita e dell’immortalità, senza frutti la palma ha concetto di martirio, richiamano la fede nel Cristo, fonte e nutrimento per la vita eterna. Come vedete è tutta simbologia, a Ravenna troverete spesso una specie di sole raggiato,rappresenta Il crismon, è  il monogramma di Cristo, costituito dalla sovrapposizione delle prime due lettere del nome greco di Cristo, X (equivalente a “ch” nell’alfabeto latino) e P (che indica il suono “r”). Alfa e Omega: sono la prima e ultima lettera dell’alfabeto greco, indicano che Cristo è l’inizio e la fine di tutto secondo la citazione dell’Apocalisse. I girali arborei solitamente fanno riferimento all’albero della vita ma anche all’eucaristia dove Cristo è la vite e i fedeli sono i suoi tralci. La croce è il simbolo cristiano più diffuso, riconosciuto in tutto il mondo è il ricordo della passione, morte e resurrezione di Gesù; un monito evangelico che invita ad imitare Gesù in tutto, accettando pazientemente anche la sofferenza.

 

 

 

 

Immagine: Sant’Apollinare in Classe, interno

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 12/10/2015