La favola di Capodanno

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Ormai sull’infinità dei gesti scaramantici, dei riti, delle tradizioni del Capodanno conosciamo tutto. Si mangiano le lenticchie che portano denaro, si indossa biancheria intima rossa perché porta fortuna, questo rito si dice risalga ai romani, il colore rosso porpora era riservato solo agli imperatori, essi erano addirittura Porfirogeniti, cioè dovevano nascere in una stanza rossa. Ci si bacia sotto al vischio, è benaugurale e una ragazza non può rifiutarsi di essere baciata. Se la ragazza non viene baciata vuol dire che non si sposerà durante l’anno. Si buttano le cose vecchie dalla finestra, per far posto metaforicamente a tutto ciò che ci accadrà nell’anno nuovo. Si mangia l’uva, dodici chicchi uno per ogni mese, e poi un sacco di altre cose che  si diversificano di Paese in Paese, ma tutte finalizzate a propiziare un Anno Nuovo migliore o perlomeno non peggiore. La data del Capodanno è cambiata nel corso del tempo, soprattutto nel Medioevo, ed è stata diversa anche da un luogo all’altro. I vari modi utilizzati per fissare l’inizio dell’anno si chiamano stili. C’è ad esempio lo stile della circoncisione col Capodanno che cade il 1° gennaio, cominciò con la riforma di Giulio Cesare, ma nel corso del Medioevo fu sostituito da altre date. C’è lo stile veneto con  Capodanno il 1° marzo, l’origine risale a quando non esistevano i mesi di gennaio e febbraio; fu usato, ma non solamente, nella Repubblica veneta fino al 1797. Lo stile dell’incarnazione con Capodanno il 25 marzo, detto anche fiorentino o pisano. Lo stile della Pasqua, utilizzato soprattutto in Francia, il quale comportava differenze fra un anno e l’altro di parecchi giorni, a motivo del fatto che Pasqua oscilla tra il 22 marzo e il 25 aprile. Nello  stile bizantino il Capodanno era al 1° settembre, l’anno iniziava quattro mesi prima; rimase a lungo in vigore a Bisanzio e, fino al XVI secolo, nell’Italia meridionale. Lo stile della Natività con il Capodanno il 25 dicembre era molto diffuso nel Medioevo, soprattutto nell’Italia settentrionale, e fu molto usato. E infine non molto tempo fa, durante la dittatura del fascismo, ci fu il tentativo di porre il Capodanno alla data del 28 ottobre, la data della marcia su Roma, infatti negli atti pubblici si aggiunse alla data corrente quello del calendario dell’era fascista che poneva come ultimo giorno dell’anno il 28 ottobre. L’ultimo giorno dell’anno simbolo di fine e inizio, è carico di aspettative e di simbologie molto forti. Auguro a voi un   Capodanno da favola narrandovi la rivisitazione della Piccola Fiammiferaia, che triste e sola muore il giorno di San Silvestro; è tra le fiabe più apprezzate di Hans Christian Andersen, pubblicata in Danimarca nel 1848. Andersen trattò nelle sue fiabe, il tema della “diversità”che crea emarginazione non meritata.“È la notte di Capodanno, e la Piccola Fiammiferaia è al freddo, a piedi nudi, a vendere fiammiferi. Non ha venduto ancora niente, ha tanto freddo ma non può tornare a casa perché ha paura di prendere le botte dal patrigno, non avendo incassato nulla. Cerca di scaldarsi accendendo i fiammiferi, ad ogni accensione appare un’immagine, prima una bella ragazza vestita come una principessa, poi altre persone eleganti che le si avvicinano sorridendole amorevolmente, infine anche un cucciolo di cane che le lecca, con una grande lingua ruvida, tutto il volto. La Piccola Fiammiferaia non ha più freddo. Una stella cadente le fa ricordare che la nonna le diceva che ogni stella cadente realizza un desiderio; accende così tutti i fiammiferi velocemente per vedere sempre più immagini, chiedendo con tutte le sue forze che le visioni si realizzino. Quando l’ultimo fiammifero si spegne, tutte le persone presenti, vestite eleganti per il cenone e il ballo, raccolgono la Piccola Fiammiferaia e la portano al caldo dentro al ristorante dove c’è un grande albero di Natale. La lavano nel bagno del ristorante, la coprono, chi con la giacca, chi con uno scialle, una bambina le dà le sue calde scarpette rosse, e poi la mettono a capotavola.‘E’un sogno?’, chiede la bambina.‘No, ora che ti abbiamo conosciuta, nessuno di noi ti lascerà e ti proteggeremo per sempre’, fu la risposta”.

 

immagine: La Piccola Fiammiferaia

 

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 29/12/2015

Il segno dei Magi nei tesori della città bizantina

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A Ravenna sono numerose le immagini dei Magi, sono fra le prime iconografie e perciò le più “veritiere”. Nel Museo Arcivescovile i Magi  sono presenti nella Capsella dei Santi Quirico e Giulitta, un reliquiario di marmo databile alla prima metà del V secolo. Sono vestiti all’orientale, con brache strette, mantelli svolazzanti e cappello frigio, il copricapo poi adottato dai rivoluzionari francesi, porgono i loro doni al Bimbo che sta sulle gambe della Madre. Sempre al Museo, vi era un tempo un’altra immagine dei Magi, si trovava incastonata nella famosa Cattedra d’Avorio di Massimiano, oggi purtroppo la formella non c’è più. Nella Basilica di San Vitale i Magi sono presenti nel sarcofago dell’esarca Isacio e nel mosaico che raffigura Teodora; l’orlo della veste dell’imperatrice presenta i Magi, nella loro classica iconografia, sono ricamati in oro sul manto porpora, protesi in avanti, nel gesto dell’offerta. Sul fronte del sarcofago di Isacio, è raffigurata la visita dei Magi alla Madonna col Bambino, l’iconografia è uguale alle altre con la differenza che qui uno dei Magi si volta indietro; nel retro del manufatto ci sono i pavoni, le palme e il Chrismon (monogramma di Cristo) simboli di resurrezione, sui lati corti la resurrezione di Lazzaro indica la fiduciosa speranza nella Vita Eterna, mentre la scena di Daniele nella fossa dei leoni è testimonianza di totale fiducia in Cristo. La raffigurazione più importante dei Magi si trova nella Basilica di Sant’Apollinare Nuovo. Questa immagine, monumentale e preziosa, in mosaico, è famosa in tutto il mondo. Maria in trono con il Bambino, appartiene al periodo di Teoderico, mentre i Magi appartengono alla ricostruzione di parte dei mosaici, effettuata dopo la sconfitta  degli ariani, per cancellare la memoria del re goto. Dalla città di Classe le Vergini sembrano camminare lentamente verso la Madonna; le precedono i Magi che portano doni al Bimbo. Sono Magi veramente belli, rutilanti, coi ricchi abbigliamenti orientali colorati, i gioielli, i doni in suntuose argenterie, hanno anche loro il berretto frigio ma in realtà avevano in capo delle corone che furono sostituite dal restauratore romano Felice Kibel nell’800. Sono una chiara allusione alla supremazia della Trinità. Gli ariani e i cattolici  se le diedero di “santa ragione” sui cavilli della Trinità, dimenticandosi che Cristo è amore.

Immagine: Adorazione dei Magi, Capsella dei Santi Quirico e Giulitta, Museo Arcivescovile

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 05/01/2015

I Re Magi nella storia

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I Magi sono realmente vissuti o no? L’Evangelista Matteo racconta che Gesù nacque a Betlemme, al tempo del re Erode e che alcuni Magi giunsero da Oriente cercando il re dei Giudei per adorarlo e offrigli oro, incenso e mirra. Una stella li precedeva. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, fecero ritorno per un’altra via. Matteo non è l’unico che parla dei Magi, vi sono i vangeli apocrifi, cioè non riconosciuti dalla Chiesa che ne parlano in modo analogo. Arrivano i re Magi a Betlemme indirizzati da Erode, portando i loro doni al seguito di una stella, scatenano l’invidia di Erode che ordina l’uccisione dei bambini. Nel Libro della Caverna dei Tesori, uno scritto siriaco che raccoglie leggende, si racconta appunto dei Magi. Si dice che erano tre, re e figli di re, e che scrutando le stelle appresero che il Messia stava per nascere in terra di Giudea. Si dice che l’origine di questi Magi era la Caldea. Il termine Caldei sembra significhi: “conoscitori delle stelle”, erano comunque famosi per lo studio dell’astronomia. Il Vangelo Arabo dell’Infanzia su Gesù fa riferimento ai Magi, cui Maria dona una fascia, i Magi sarebbero stati tre fratelli; Melchiorre che regnava sui Persiani, Baldassarre che governava sugli Indiani e Gaspare che dominava gli Arabi. I loro tre doni consistevano in oro (dono per i re), incenso (per le adorazioni sull’altare, quindi Gesù è anche sacerdote), mirra (considerato un balsamo per i defunti, perciò prefigurazione della sua morte). La stella cometa sarebbe un equivoco. Tutta la storia nasce da un quadro di Giotto del 1301 alla Cappella degli Scrovegni; il pittore, accanto alla Natività, dipinse l’Epifania e inserì una cometa, probabilmente perché nel 1301 a dicembre, apparve in cielo la famosa cometa di Halley. Il fenomeno luminoso, di cui fanno riferimento i testi, sarebbe la tripla congiunzione di Giove e Saturno e Marte il 13 novembre del 7 a.C., nella costellazione dei Pesci, che si verificò per tre volte, e che gli astronomi caldei conoscevano, lo avevano previsto sin dall’anno precedente. Astrologicamente questo transito spesso coincide con un periodo in cui avverrà qualche doloroso sforzo, che inizierà poi col tempo a portare i frutti. Il primo simbolo legato a Gesù fu quello del pesce, legato al suo nome in greco, ma potrebbe pure indicare che era nato sotto al segno dei Pesci. A questo punto occorre rimarcare anche la presenza assidua del numero tre. Il numero 3 rappresenta il numero perfetto, il numero sacro per eccellenza, Dio è definito Uno e Trino (Padre, ma anche Figlio e Spirito Santo). Nell’Induismo le divinità sono raffigurate con la Trimurti (Brahma, Siva e Visnù); per gli antichi Romani la Triade capitolina era composta da Giove, Giunone e Minerva. Il numero 3 è abbinato alla figura del triangolo equilatero, simbolo di armonia, di proporzione, di perfezione. Molte antiche cerimonie si fondano su gesti ripetuti tre volte. I Magi sono un po’ fiabeschi, a tal punto che lo sono pure le loro reliquie. Fonti certe non ci sono. Si racconta che alla loro morte furono seppelliti, in un’unica tomba, in Persia, successivamente l’imperatrice Elena, madre di Costantino, trovati i loro corpi li avrebbe fatti trasportare a Costantinopoli, da qui passarono a Milano dall’allora Vescovo Eustorgio, dove tutt’oggi nella basilica a lui dedicata esiste un sarcofago chiamato “Arca dei Magi”. Nel 1162 il Barbarossa, entrato a Milano, si impossessò delle reliquie che furono trasportate a Colonia in Germania, dove oggi si trovano nella cattedrale di questa città. Quella delle reliquie dei Magi è anche una delle cause legali più lunghe della storia: oltre 740 anni! I Milanesi rivolevano le presunte salme dei Magi trafugate dai tedeschi, intervennero ben tre papi per sanare la controversia e pure San Carlo Borromeo e il re di Spagna Filippo II. Piccoli ossicini    arrivarono a Milano solo nel 1904. Milano ricorda l’adorazione dei Magi, con un corteo di figuranti che da piazza Duomo arriva a Sant’Eustorgio portando i doni alla Natività. Questa manifestazione è attestata almeno dal Medioevo ed è uno degli eventi più amati dai milanesi, che vi assistono disponendosi lungo tutto il percorso.

immagine: Adorazione dei Magi, sant’Apollinare Nuovo, Ravenna

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 05/01/2015

I misteri del Carnevale

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Ultimi giorni di Carnevale, la cui origine non è certa, come neanche l’etimologia del suo nome. Alcuni sostengono che si tratti di una festa popolare trasmessa attraverso i secoli come eredità delle feste pagane  dei Saturnali, in onore del dio Saturno o dei Lupercali, in onore del dio Luperco in cui le gerarchie venivano sostituite col rovesciamento dell’ordine, lo scherzo e la dissolutezza. Secondo altri le sue radici affondano in alcune feste primitive (10.000 anni a.C.), che si tenevano per festeggiare l’arrivo della primavera. Nel Medioevo gruppi di contadini si battevano per la strada con sassi e bastoni mentre i signori duellavano nei loro palazzi. Più tardi presero piede le maschere, che consentivano anche ai poveri di fingersi ricchi e potenti grazie a semplici travestimenti. In passato i festeggiamenti culminavano solitamente con la morte e il funerale di un fantoccio, ancora oggi veramente si usa: la Segavecchia che viene bruciata a metà  Quaresima. Si pensava che nell’aldilà tutto fosse invertito, perciò per Carnevale ci si metteva i vestiti a rovescio, ci si mascherava invitando le anime dei morti a entrare nei propri corpi per dare loro la possibilità di fare baldoria, in cambio di abbondanti raccolti. Queste credenze che si credono estirpate non lo sono poi  del tutto. In Romagna il Carnevale ha eccellenze, come quello di Imola o di Gambettola. Oggi non è più un folle momento in cui tutto si ribalta, anche perché metaforicamente la maschera la portiamo tutti i giorni.  Si usano ancora i balli in maschera che rimandano alla danza macabra, balla, divertiti, bevi, mangia, satollati tanto sai che devi morire. La danza macabra è un Carnevale di vivi e morti, dove persone di ogni sesso e condizione sociale ballano insieme a scheletri occultamente animati. Il significato è chiaro, è un monito a ricordare che la morte ci attende nel nostro futuro. la Morte la sconfiggiamo sorridendo, ed essa deride le nostre cose importanti nel mondo terreno. La danza macabra è un momento di follia e rivalsa in una vita spesa a guardare il mondo dal basso all’alto, per i potenti è un avvertimento ancora più forte perché essi hanno tanto da lasciare… “la mia roba, la mia roba, vieni via con me”, diceva il contadino in punto di morte, in una novella di Giovanni Verga. Il Cristianesimo con la sepoltura diede importanza al corpo e perciò alla vita e di conseguenza sacralità alla morte. Quando i vermi avevano terminato il loro lavoro si usava raccogliere i teschi e le ossa per esporli nelle cappelle e nei cimiteri perché fossero fonte di meditazione, soprattutto nel Medioevo, dove illimitata era la potenza, la superbia e la depravazione della classe dominatrice sulle altre. In mezzo a guerre, pestilenze, povertà e orrore e una grande crisi sia morale che economica, il terrore si trasforma in allegrezza, da qui trae origine la danza  macabra. Quando non c’è scampo possiamo solo non pensarci. Camille Saint-Saëns, compositore e pianista francese nel 1874 realizzò la sua famosa “Danza macabra” in cui le note stridenti del violino suonate dalla Morte richiamano i morti dalle tombe, facendoli ballare in una danza infernale, avvolti da grida e da risa orribili. la Morte smette di suonare e nel silenzio spicca il canto del gallo. Ai morti non resta che affrettarsi a raggiungere di nuovo le proprie tombe. Saint-Saëns compose nel 1866 l’opera “Il Carnevale degli animali” eseguita privatamente un anno dopo, in occasione della festività del Martedì grasso, ebbene il musicista vi introduce anche un pezzo dalla Danza macabra. Le più antiche attestazioni di questo soggetto in pittura ricorrono in ambito francese a partire dalla prima metà del secolo XV. La danza macabra era raffigurata nei cimiteri e nei luoghi sacri, celebre è quella del Camposanto di Pisa. In Romagna si trova al Museo Interreligioso di Bertinoro, è un affresco eseguito nel 2005 da Gavelli E. Luciana, di dimensioni modeste (43 X 134,5 cm.) ma di bella fattura, il fondo giallastro e grigio fa emergere figure di donne e bambini, non ci sono uomini, gli scheletri prendono le donne per le mani, le quali hanno lo sguardo triste, mentre la morte assisa su un trono suona un lungo corno.

immagine: Danza Macabra  (Bertinoro)

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 16/02/2015

 

 

la Segavecchia, tradizione di metà Quaresima

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I celti erano grandi mangiatori non solo per gola, ma perché era sinonimo di forza e intelligenza. Le loro usanze sono passate alle tavolate romagnole di un tempo, ma ancora oggi si esagera in certe occasioni con cibo e vino. Che sia per questo che a Mezza Quaresima c’è un giorno in cui si deve mangiare tanto? Per sollevarsi un po’di morale in mezzo a tanto digiuno? Mezza Quaresima o Segavecchia è una festa di origine pagana che interrompe la Quaresima con un giorno di carnevale, cadendo sempre di giovedì. In molti paesi della Romagna vengono organizzate feste durante le quali un fantoccio raffigurante una vecchia, la colpevole di tutti i mali della stagione agricola passata, viene segato e bruciato. Tutto intorno sfilate di carri allegorici balli e canti e tanta frutta secca più se ne mangia e più fortuna si avrà. Le feste della Segavecchia   più rinomate in Romagna sono quelle di Forlimpopoli e di Cotignola. La festa a Forlimpopoli è legata a una leggenda, simile ad altre del Nord Italia e connessa ai riti dei fuochi propiziatori, alla Dea Madre e all’agricoltura, al ricordo di un grande passaggio evolutivo dell’uomo: quello dal Paleolitico al Neolitico. La leggenda narra che una donna, un giovedì di Quaresima, periodo di astinenza dalla carne, mangiò un salsicciotto; fu quindi condannata a morte e giustiziata per stregoneria. Tutta Forlimpopoli diventa festa con i carri mascherati, i banchi ambulanti, le giostre ecc. La festa a Cotignola è una manifestazione  antichissima si ripete dal lontano 1451, ponendosi ogni anno a metà strada fra il primo giorno di Quaresima e la Pasqua, per ricordare il momento del processo alla strega di Cotignola, colpevole di aver maledetto Francesco Sforza, duca di Milano e signore di Cotignola, e per questo condannata ad essere decapitata ed arsa sul rogo. Michele Placucci che scrive sugli usi e costumi della Romagna di fine Ottocento, racconta che nella prima domenica di Quaresima si faceva la “fagiolara” alle ragazze che nel carnevale non avevano trovato marito, perché erano schizzinose; a loro si attuava la fagiolara che consisteva nello spargere sul gradino della porta di casa delle ragazze fagioli, ceci, fava, sale, fichi secchi, e cose simili a scherno delle medesime: taluno usava fare la fagiolara nell’ultimo giorno di carnevale. Questa tradizione si è persa ma si allinea bene col simbolo della Segavecchia.

 

 

 

 

immagine: Segavecchia a Forlimpopoli

articolo giàpubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 09/03/2015

Santa Maria delle grazie

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Il Santuario di Santa Maria delle Grazie di Fornò, sorge nella campagna tra Forlì e Forlimpo­poli, per accedervi occorre percorrere un viale fra due fila di alberi alti e sinuosi e si arriva a questa chiesa rotonda  e imponente, dai mattoni chiari e regolari, percorsa, in alto, da fasce decorative che alternano il monogramma della Vergine con la cifra  IHS, attributo iconografico di S.Bernardino, di cui l’ideatore del Santuario era devoto, ma potrebbe semplicemente essere raffigurata una maternità simbolica in quanto la scritta IHS significa Gesù. Entrandovi  si trattiene il respiro: il presbiterio è chiuso da una mu­ratura cilindrica, che pare il tronco di un albero, mentre il soffitto in travi di legno disposte a raggiera sembra un intrico di rami.  Struttura originale e simbolica, ma fragile, dopo cinquant’anni già stava crollando, fu papa Giulio II, ritratto negli affreschi all’interno della chiesa, a fare il primo restauro. Pietro Bianco da Durazzo, un pirata fattosi monaco, un eremita vestito di bianco, arriva a Forlì nel 1448, uomo di profonda devozione, solitario, gira scalzo, è parco nel mangiare, non tocca il denaro, eppure costruì il Santuario col convento e il campanile, doveva essere assai determinato ma il denaro dove lo trovò per una commissione così importante? La chiesa custodiva unʼimponente statua (altezza cm 174)di Madonna col Bambino eseguita attorno al 1454 da Agostino di Duccio; è in marmo bianco divisa in quattro blocchi, semplice, quasi una Kore (statua votiva tipica della scultura greca arcaica) un capolavoro che cattura lo sguardo e l’anima, ricorda la calma piatta delle meravigliose Madonne di Piero della Francesca. Il coevo rilievo marmoreo, che rappresenta la Santissima Trinità, sempre di Duccio, riprende la composizione del celebre affresco di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze. Al centro dell’altare c’è la sacra icona, portata a Forlì da Pietro: la Madonna delle Grazie e della Misericordia, regge con le mani una mandorla con lʼimmagine di Gesù che ha nella mano il globo, in basso Pietro inginocchiato, non è l’originale in quanto il dipinto fu trafugato non molti anni fa. Nelle cappelle laterali sono collocate pale d’altare, tra cui Sant’Agostino nello studio, un olio su tela, dove il Santo ha lo sguardo rivolto al cielo, indossa un sontuoso piviale, è effigiato con i suoi attributi tradizionali: i libri, il pastorale e la mitria, con accanto due bei putti. Ci sono due acquasantiere, forse di Duccio, di delicata bellezza. La chiesa di santa Maria della Misericordia fu edifi­cata, come indica lʼiscrizione sopra la porta dʼingresso del protiro, nellʼanno del Giubileo 1450. La lunetta affrescata proprio sopra l’iscrizione è molto bella, anche se quasi distrutta: una Resurrezione in cui Cristo è ormai del tutto scolorito, si vedono solo i soldati che dormono “stravaccati” e ricorda in qualche modo la celeberrima Resurrezione di Piero della Francesca. Pietro era forse era un pirata, che pentitosi usò i tesori accumulati per costruire il più bel simbolo al mondo per la Madonna e il Figlio, ma è più probabile che fosse un monaco orientale, giunto sulle nostre coste per salvarsi dai turchi. Costantinopoli stava crollando sotto i colpi delle armate turche, persino Giovanni VIII Paleologo,l’imperatore orientale, era venuto in Italia, disperato, a chiedere aiuti militari ma nel 1453, la “seconda Roma”, cadde. Gli ortodossi cercavano aiuto in occidente e le corti italiane erano affascinate da questi monaci così sapienti che conoscevano il greco e avevano tanti manoscritti di autori a loro sconosciuti. Non era la prima volta che ondate di monaci ortodossi scappavano da Oriente per salvarsi. Nel periodo iconoclasta (VIII secolo) migliaia di monaci basiliani (si ispiravano alla regola di San Basilio Magno) arrivarono sulle nostre coste portando sapienza e tecnica, fu uno di loro, Pantaleone, che nel XII secolo ideò e costruì il famoso mosaico dell’Albero della Vita di Otranto… trecento anni dopo un altro sapiente monaco orientale lasciò il suo “albero” a Forlimpopoli. Il Santuario per particolarità, unicità e bellezza potrebbe far parte del Patrimonio Unesco.

 

immagine :Santuario di Fornò

articolo già pubblicato il giorno 20/07/2015 sul quotidiano “La Voce di Romagna”

 

 

Sciucaren, un suono antico dal ritmo moderno

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Chi non ha mai sentito parlare degli sciucaren… una tradizione romagnola che porta  gioia e buonumore nelle feste della Romagna contadina? Perché si chiamano sciucaren? Da cosa deriva questo nome?
In dialetto romagnolo “sciucher” vuol dire “schioccare la frusta”, gli sciucaren  sono coloro che sanno maneggiare la frusta con maestria, accompagnando canzoni e balli popolari. Gli antichi Romani celebravano la festa dei Lupercali, con una cerimonia  in cui dei  giovanotti  muniti di fruste  correvano colpendo le donne sterili. La frusta quindi era un simbolo di fecondità femminile e di fertilità della terra, questo rito sembra derivare dalla festa celtica di Imbolc, celebrata in onore della dea Brigid. Infatti un’altra storia racconta che la tribù gallica che nel quarto secolo a.C. si stanziò in Romagna, era esperta nel maneggiare cavalli e carri e  già sapeva far “schioccare”  la frusta. Luogo d’origine dei celti era la città francese di Perpignan, e “parpignan” in dialetto romagnolo è il nome del manico della frusta. Altri studiosi suggeriscono origini ungheresi, slave e pure cosacche. E’ bene poi ricordare che San Martino, festeggiato in Romagna con grandi feste, proprio come la nostra Befana, scendendo dalla cappa del camino, portava regalini per i più buoni, depositando una frusta per i più cattivi. La tradizione narra che nelle lunghe ore di cammino sulle strade i barrocciai  cantavano le loro canzoni accompagnandosi con gli schiocchi delle fruste, il loro primo strumento di lavoro, il cui maneggio era considerata una vera e propria arte. Un’altra usanza narra che quando si arava il campo, una persona aveva la mansione di schioccare la frusta in aria (come per dare un colpo “a salve”) per intimidire i buoi che non stavano andando al ritmo giusto. Se le bestie non avessero tenuto il ritmo, la prossima schioccata non sarebbe stata lanciata in aria, ma avrebbe colpito  gli animali. Con il passare del tempo questo originale e apprezzato modo di  maneggiare la frusta prese sempre più piede, e in Romagna  si inserirono i sciucaren  nelle bande musicali o nei corpi da ballo. La frusta è formata da una corda solitamente con una maniglia rigida. È usata per assestare colpi agli esseri umani o agli animali come mezzo di controllo, di potere, di punizione, di tortura  o anche come cilicio… ma noi in Romagna l’abbiamo resa giocosa e brillante come al circo.

immagine: sciucaren

 

articolo già pubblicato il giorno 20/07/2015 sul quotidiano “La Voce di Romagna”

Il focoso Felice Giani

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Felice Giani (1758-1823) fu uno degli artisti preferiti dalla nobiltà e dai facoltosi filofrancesi della sua epoca.    E’ stato un pittore e decoratore di interni, uno dei massimi esponenti del Neoclassicismo, il movimento artistico e culturale del XVIII secolo, manifestatosi in Europa per reazione al Barocco e al Rococò, caratterizzato dal ritorno alle forme classiche. Definito “il più focoso talento italiano vissuto tra i secoli XVIII e XIX”, Giani conduceva una vita “irregolare”, girovaga e bohemién. Aveva un vertiginoso ritmo lavorativo che non rallentò mai. A Roma Giani fu il punto di riferimento di giovani artisti di varie nazionalità, si chiamavano “l’Accademia de’ Pensieri”, competevano fra loro per il disegno più irriverente: un esempio è quello di “Dante e Beatrice che assistono a un baccanale”, oggi in collezione privata a Bologna. Giani rivisita in chiave eclettica i dettami della classicità, niente è pomposo, niente è severo, la sua bellezza è sempre un po’ impudente, al punto di decorare sontuosamente sia il salone da ballo che il bagno del palazzo; basta visitare lo splendido Gabinetto d’amore in Palazzo Milzetti per comprenderlo. Lavoratore febbrile, disegnatore inesauribile, Felice Giani nasce a San Sebastiano Curone, (Alessandria) dopo i primi anni di apprendistato a Pavia, passa a Bologna da cui attinge ad alcune suggestioni della cultura figurativa: i Carracci, e i fratelli Gaetano e Ubaldo Gandolfi.  Dal 1780 al 1786 è a Roma, frequenta l’Accademia di San Luca, si dedica con passione allo studio dell’Antico riempiendo fitti taccuini di annotazioni e disegni tratti dalla Domus Aurea, da Villa Adriana e dalle Terme di Tito e più tardi,visiterà anche Napoli, Ercolano e Pompei. Il suo stile figurativo imita, sia per velocità che per ornato la pittura murale del periodo della Roma imperiale, con temi mitologici e grottesche che rimandano alla Domus aurea di Nerone. L’iconografia della grottesca deriva dai fregi della Domus aurea le cui volte, sepolte sotto le rovine delle terme di Traiano e di Tito, furono esplorate come grotte (e di qui il nome) dagli artisti del Rinascimento; il motivo dominante è costituito da forme vegetali di fantasia, intrecciate a figure umane, ad animali, a maschere, armi, inserite in elementi architettonici e prospettive eseguite a stucco o ad affresco. Giani raccoglie anche il fascino dei grandi pittori del ‘500 e del ‘600, rimarrà folgorato dalle Logge vaticane di Raffaello. Non a caso, infatti, nel 1788 Giani collaborerà alla riproduzione integrale delle Logge, volute dalla zarina Caterina II per il suo Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo.La sua prima vera commissione, fu nel 1786, a Faenza  dove dipinse la Galleria dei Cento Pacifici, conclusi i lavori, il successo fu tale che da quel momento non ci sarà più sosta né pausa, le richieste si susseguiranno, frenetiche, fino alla sua morte. Tra il 1789 e 1793 è a Roma, a Palazzo Altieri, poi a Villa Borghese e quindi a Palazzo Chigi, nel 1794 è di nuovo a Faenza impegnato nella decorazione della Galleria di palazzo Laderchi, questa volta supportato da una organizzatissima bottega che lo seguirà, d’ora in poi, in ogni sua impresa. Ne faranno parte Gaetano Bertolani, Antonio Trentanove, i fratelli Ballanti Graziani, Pietro e Marcantonio Trefogli. Qui sta la novità: Giani progetta, anzi, ripensa l’intero ambiente, sino ai singoli elementi: ornato, stucchi, ebanisteria, arredo, disegnava tutto nei dettagli per poi lasciare l’esecuzione ai suoi aiuti, mentre lui dipingeva le volte e le pareti di luminose tempere. Palazzo Milzetti, a Faenza, è uno dei suoi capolavori, commissionato dal conte Francesco Milzetti, che era al servizio di Eugenio Beauharnais (vicerè d’Italia e figlioccio di Napoleone), è un ambiente meraviglioso e raffinato, ha decorazioni in stile pompeiano e una capacità narrativa straordinaria. Giani fu l’interprete dei gusti e delle aspirazioni della classe allora in ascesa, legata alla politica francese e alla massoneria, che seppe glorificare, e quindi legittimare. Tra 1802 e 1822, Giani si sposta in tutta la Romagna, da Faenza a Cesena, Forlì, Imola, Rimini e Ravenna.

 

immagine: Felice Giani a Palazzo Milzetti (Faenza)

articolo già pubblicato sul quotidiano:”La Voce di Romagna” il giorno 27/07/2015

 

La placida quiete della Faenza Neoclassica

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Faenza può considerarsi la città del pittore piemontese Felice Giani. Con un giro turistico mentale possiamo  iniziare da palazzo Laderchi, in corso Garibaldi, oggi sede del Museo del Risorgimento e della Società Torricelliana, dove l’artista dipinse nel salone delle feste “Storie di Amore e Psiche”. Passeremo poi alla  Galleria dei Cento Pacifici, nel XVIII secolo era consuetudine realizzare un collegamento fra i palazzi comunali ed i teatri. Così fu anche per il Teatro Masini e per Palazzo Manfredi tramite questa elegante galleria decorata dal Giani, in collaborazione con il quadraturista Serafino Barassi e con Antonio Trentanove per le grandi statue, lo stesso artista che ha realizzato l’imponente corona di cariatidi che delinea il loggione del teatro. La sala un tempo era destinata alla riunione dei Cento Pacifici, i quali erano una compagnia di  saggi cittadini a garanzia della pace e a difesa della città. Furono una magistratura ufficialmente riconosciuta, a loro, Faenza deve il sedarsi di molti dissidi fra le parti storicamente avverse, invece a Ravenna durarono le lotte fra i Rasponi e i Lunardi, a Forlì tra i Numai e i Morattini, a Imola tra i Sassatelli e i Vaini. Lungo via Mazzini, vi è Palazzo Gessi. Nel 1813, in occasione delle nozze tra il conte Gessi e la marchesa Bolognini, le sale del primo piano furono in gran parte decorate da Felice Giani che creò un altro dei suoi capolavori. Qui fu ospitato papa Pio VII, di ritorno dall’esilio, e nel 1815  il sovrano Carlo IV di Spagna con la famiglia reale. Altri palazzi presentano i lavori del Giani ma noi ci dirigiamo all’ultima tappa. Palazzo Milzetti, in via Tonducci, il più importante palazzo neoclassico della regione, museo nazionale, con i decori del Giani e l’architettura di Giuseppe Pistocchi. Straordinario edificio, con gli interni dipinti a tempera da Felice Giani e i suoi aiutanti, i colori brillanti si sposano alle tinte pastello degli stucchi creando un capolavoro di raffinatezza. Il Palazzo è un esempio unico e integro sul Neoclassicismo, presenta una decorazione continua, leggera e luminosa; se la Sala delle Feste è meravigliosa, il bagno ottagonale è un capolavoro assoluto. Nel 1817 passò ai conti Rondinini, a loro si deve la realizzazione del giardino con la “capanna rustica”, che oggi è visitabile a qualsiasi ora, in quanto si trova nello spiazzo del Circolo dei ferrovieri.

 

 

 

immagine:Felice Giani, Palazzo Milzetti, Faenza

articolo già pubblicato sul quotidiano:”La Voce di Romagna” il giorno 27/07/2015

Il fascino del sacro che c’è a bagno di Romagna

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Bagno di Romagna si trova nella provincia di Forlì/Cesena è un’amena località turistica sia per la presenza delle terme, sia per i boschi e i luoghi che offrono oasi di pace, ma anche per la cucina d’eccellenza. Bagno aggiunge a ciò il fascino del sacro. Nel 1412 un monaco camaldolese  celebrando la Messa fu preso dal dubbio sulla presenza di Cristo nell’Eucaristia, mentre consacrava il vino, questo si trasformò in sangue, cominciò a bollire tanto da fuoriuscire e macchiare il corporale, il quale  venne poi inserito in una teca argentata, ed è tuttora conservato nella basilica di Santa Maria Assunta. Le macchie sono state analizzate e risultano essere gocce di sangue. La devozione al Sacro Corporale, è assai viva nel paese e nella solennità del Corpus Domini la reliquia è portata in processione per le strade. A Bagno troviamo anche una leggenda legata al profano e alle terme. Le virtù terapeutiche delle acque calde di Bagno furono conosciute ed apprezzate dai Romani, che ne fecero un vasto impianto termale, con un edificio di culto dedicato a una Dea protettrice della fonte. Il culto delle acque, fu poi assorbito dal Cristianesimo, dalla devozione alla Dea si passò a quella di Santa Agnese. Con la distruzione di Bagno da parte di Totila (542 d. C.) era andato perduto il ricordo delle terme, finché furono riscoperte da Santa Agnese almeno la fiaba racconta così. Agnese era una fanciulla cristiana di 13 anni, vissuta a Roma al tempo delle persecuzioni di Diocleziano (284/305) uccisa con un colpo di spada alla gola, come si uccidevano gli agnelli, perciò l’agnello è il suo simbolo. Qualche tempo dopo la figlia dell’imperatore Costantino, pregò sulla tomba di Agnese, ottenendo la guarigione dalla lebbra. Agnese venne quindi associata  alle virtù delle acque termali che curavano le malattie della pelle. A Bagno si creò la figura di una  Agnese romagnola. Questa era figlia di un nobile di Sarsina. Agnese non vuole sposarsi, vuole restare casta, perciò prega Dio di sfigurarla con la lebbra. Il padre scopertala cristiana e vistala lebbrosa, ordina di ucciderla ma i soldati  mossi a pietà, la lasciano libera, e come prova della sua morte portano al padre una sua veste sporca del sangue di un agnello.  Agnese vagò per le selve attorno a Bagno, fino a che un cane  che la seguiva, raspando in terra fece scaturire le acque termali dove la fanciulla s’immerse uscendone sanata.
immagine:Bagno di Romagna

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 10/08/2015