“Hai visto la Ghilana?”. Ma chi era costei?

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Congratulazioni! Ti è andata bene! Hai visto la Ghilana? Questa frase popolare era detta un tempo, a Faenza, per complimentarsi con la persona a cui un particolare evento era andato a buon fine. Chi era la Ghilana? Era un animale, una cosa o una persona? Il vederla portava fortuna, il non incontrarla recava sventura. Nel 1500 Cesare Borgia tentò di occupare Faenza, la città resistette sei mesi prima di crollare. Francesco Guicciardini uno storico dell’epoca scrive dell’eroica resistenza della piccola città, che aveva a capo un fanciullo (Astorre III Manfredi) e di come il Valentino bollisse dalla rabbia per non riuscire nella conquista. Astorre venne poi fatto prigioniero e inviato a Roma sotto la tutela di papa Alessandro VI, padre del Borgia, tutela infima in quanto venne ucciso neppure diciassettenne. Il Borgia si era accampato appena fuori le mura, vicino al convento dell’Osservanza, dove sorgeva, oggi è il cimitero della città, la chiesa affidata ai frati minori osservanti, dedicata a San Girolamo. Del Santo custodiva una scultura lignea  addirittura di Donatello, oggi è conservata presso la Pinacoteca. Questo luogo era chiamato, sembra anche tutt’ora, orto della Ghilana. Si narra che, proprio in quel posto abitasse una contessa di nome, appunto, Ghilana. Svelato il mistero, la Ghilana era una donna nobile, bellissima e biondissima, dal fascino sottile che donava fortuna a chi la conquistava e sventura a chi a lei non piaceva. Ottenere il suo dono malefico o benefico era legato, non a particolari virtù, ma alla capacità di vederla o non vederla. Ghilana usciva dalla sua dimora solo nella terza notte di plenilunio; allora forse si poteva anche avvistarla. A chi la  scorgeva, essa portava la buona sorte; chi non riusciva a incontrarla portava sfortuna. Pare, che il Valentino, avesse cercato in tutti i modi di vedere Ghilana, sino ad innamorarsi di lei, ma non vi riuscì e sappiamo bene che il Borgia andò a finire molto male. Favorito dal papa, nella presa dell’Italia, alla morte del pontefice perderà tutte le conquiste ed anche la vita. L’etimologia di Ghilana indica luoghi paludosi, come lo fu per il Valentino che rimase impaludato nella conquista di Faenza per mesi, ma esiste anche un luogo chiamato Ghilane, è un’oasi tunisina dove sgorga acqua calda. Ghilana, un nome ambivalente come lo era la contessa che poteva essere magica o malefica.

immagine: Cimitero dell’Osservanza di Faenza

articolo già  pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno  04/05/2015

La strana ossessione di Plancus per le donne

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L’Accademia dei Lincei fu fondata nel 1603 da Federico Cesi, è la più antica accademia scientifica del mondo; annoverò tra i suoi primi soci Galileo Galilei. Oggi la sede di rappresentanza, aperta al pubblico, è Villa Farnesina, a Roma, al cui interno ci sono i celebri affreschi capolavoro di Raffaello. Alla morte di Cesi, e alla condanna di Galileo, l’Accademia, si sfaldò. Nel 1745, Giovanni Bianchi decise di ripristinare  l’Accademia a Rimini. Direttive precise: i Lincei dovevano occuparsi principalmente di fisica, matematica, botanica e storia naturale. Giovanni Bianchi, medico scienziato e collezionista, nacque a Rimini nel 1693.     Dopo la laurea, girò il mondo e insegnò anatomia a Siena. Tornato a Rimini, pubblicò varie opere in italiano e in latino in merito alle conchiglie, al mare e alla botanica. Latinizzò il suo nome in Janus Plancus. Trasformò la sua abitazione in un museo, fra reperti archeologici, medaglie e inquietanti parti anatomiche. Questo illustre riminese aveva un chiodo fisso da risolvere, perciò in una delle sue vetrine erano esposti una serie di “imeni secchi”. Plancus conduceva una specie di battaglia contro chi negava la presenza dell’imene nelle donne. Questa sua passione scientifica lo portò a imbattersi nello strano caso di Teresa Vizzani. Ne parla in un suo scritto del 1744 intitolato: “Breve storia della vita di Catterina Vizzani Romana che perott’anni vestì abito da uomo in qualità di Servidore la quale dopo varj casi essendo in fine stata uccisa fu trovata Pulcella nella sezione del suo cadavero”. Teresa amava le donne, ma scoperta una sua relazione omosessuale, fu costretta a fuggire, e iniziò a travestirsi da uomo, dotandosi di un bel “pacco” e vantandosene coi compagni. Si diede nome di Giovanni ed ebbe, per la consistenza del “pacco” e per le donne che aveva sempre attorno fama di “sciupafemmine”. Ma come al solito quando si esagera, Teresa/Giovanni andò alla rovina, fu coinvolta in un duello e morì per un colpo di archibugio. In seguito alla morte fu scoperta l’identità e la sua verginità, causando una sconcertante curiosità e il suo corpo fu quasi smembrato per farne delle reliquie. Plancus dissezionò i suoi genitali, ribadendo che l’imene esiste solo in tutte quelle donne che sono veramente vergini e non quelle che hanno solo chiacchiere. Direi che c’è sufficiente materiale per far arrabbiare le donne.
immagine: Biblioteca Accademia dei Lincei

articolo già  pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 27/04/2015

Un cedro miracolo

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Il 1° maggio a casa mia alla fine del pasto, si gustava come dessert un piatto a base di cedri sbucciati, tagliati a fette, precedentemente lasciati macerare con lo zucchero, buonissimi, ne ero ghiotta e per lungo tempo ho ritenuto i cedri legati ai simboli della Festa del Lavoro o a quelli celtici. Mi sbagliavo. La Chiesa di Santa Maria dei Servi di Forlì, detta anche Chiesa di San Pellegrino, sorge in Piazza Morgagni, piazza dedicata all’illustre medico e patologo forlivese, fondatore della medicina clinica moderna, la scelta di posizionare qui la sua statua fu ben azzeccata. La basilica fu costruita intorno al 1250 e fu subito occupata dai frati mendicanti dell’ordine dei Servi di Maria, che arrivarono a Forlì nel 1271. La chiesa divenne famosa per la santità di frate Pellegrino Laziosi, taumaturgo, pregato e invocato contro i mali inguaribili, in particolare   contro le malattie cancerogene. Pellegrino non diventa sacerdote, non predica e non scrive, prega con penitenza severa sempre sorridendo. Si inventa una speciale mortificazione: sta trent’anni senza mai sedersi, procurandosi danni fisici che prevedono l’amputazione della gamba. L’intervento non si fa, perché la gamba guarisce spontaneamente. Pellegrino disse di aver visto in sogno il Signore che lo liberava dall’infermità scendendo dalla croce e toccandogli la gamba. Dopo il miracolo, tutti accorrevano dal frate per chiedere guarigioni e alla sua morte, 1° maggio 1345, accorsero da ogni dove per cui non fu possibile chiudere le porte della città. Avvennero anche dei miracoli: sanati un cieco e un’ossessa. Il 1° maggio, a Forlì si svolge, la Sagra dei Cedri, il frutto che per le proprietà farmacologiche è diventato il simbolo del Santo,   per le sue virtù terapeutiche.(Ve la ricordate la Magnesia San Pellegrino pubblicizzata un tempo come la panacea per tutti i mali?La scelta del Santo non era casuale). L’edificio, nonostante i vari rimaneggiamenti nei secoli, conserva tracce che ne testimoniano l’antichità. Notevole è il portale esterno, in pietra e laterizio, dalle linee in stile gotico padano. L’interno, secentesco è una bomboniera, un sobrio barocco dove il colore predominante è il rosa cipria. L’impianto è basilicale a tre navate scandite da pilastri. La Cappella di San Pellegrino, è ricca di marmi e ori, qui si conserva  la salma del Santo, sul fondo, la tela di Simone Cantarini:“Crocifisso che risana la gamba a San Pellegrino”. Cantarini valido pittore, fu allievo di Guido Reni, era molto arrogante, arrivava al punto di criticare e correggere il Maestro in pubblico e di insultare i suoi compagni di studi; fu così definito:“Largo stimator di se stesso, sprezzator d’ogni altro”. La chiesa non ha finito di mostrare i suoi gioielli, vi  è un pregevole quattrocentesco coro ligneo ad intarsi ma soprattutto vi è il sepolcro Numai. Appena entrati troviamo sulla destra, la tomba di Luffo Numai (1441-1509), personaggio importante che seppe ben introdursi nella Forlì rinascimentale, dal periodo di Pino Ordelaffi III  fino all’avvento di Cesare Borgia. Di famiglia antica e nobile, ricoprì alte cariche, ospitò perfino il Borgia in casa propria. Volle far erigere, per sé e sua moglie, un pregevole monumento funebre (1502), dove appare la scena della Natività, scolpita da Tommaso Fiamberti e da Giovanni Ricci. L’interno della chiesa sembra che prenda i colori dalla lastra tombale, in quanto il sepolcro ha le stesse tinte pastello: avorio e rosa cipria. E’ una Natività dalle belle figure classiche e armoniose, vi è la Sacra Famiglia, il bue, l’asino,i pastori e gli angeli musicanti e insolitamente, un grosso uccello sulla capanna che pare proprio un corvo. La leggenda narra che la Sibilla Cumana, che predisse la nascita di Gesù, si era illusa di essere lei la vergine designata, poi sentì gli angeli annunziare la nascita del Bimbo, capì la sua presunzione e venne trasformata in corvo. Nel 1509 il Fiamberti scolpì un secondo monumento funebre, commissionato da Luffo Numai, si trova nella chiesa di San Francesco a Ravenna. Numai fu cacciato per un periodo da Forlì, riparando a Ravenna, ma poi vi fece ritorno ed è sepolto nella tomba di Forlì.
articolo già  pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 27/04/2015

Quella voglia matta di disegnare che ha l’uomo

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Nel Padiglione delle Feste di Castrocaro, si svolge, sino al 28 giugno la Mostra: “Modernità del disegno tra Romagna e Toscana 1880-1914”, con oltre 120 opere, da Giovanni Boldini, Silvestro Lega, Giovanni Fattori,   a Domenico Baccarini, Ercole Drei, solo per citarne alcuni. La mostra è inserita nell’ambito degli eventi collaterali all’esposizione di Giovanni Boldini a Forlì, è curata da Paola Babini e Beatrice Sansavini. Una mostra sul disegno può essere più introspettiva di un’esposizione di dipinti, in quanto il colore distrae e calamita l’attenzione. Già 17.000 anni fa l’uomo disegnava sulle pareti delle grotte, esprimendo idee ed emozioni ma anche tentando di allontanare magicamente, tramite il disegno, gli influssi negativi. Nel disegno infantile gli psicologi riescono a vedere le paure e i timori dei bambini. Col disegno esprimiamo le nostre potenzialità nascoste, facendo emergere le emozioni più profonde e i sentimenti più autentici. Il disegno ci rende liberi di esprimere noi stessi, e non è necessario “saper disegnare” per far tutto ciò, anche Michelangelo o Leonardo hanno iniziato facendo scarabocchi. Quando a Firenze, chiesero a Michelangelo se era più importante la scultura o la pittura, egli rispose che nessuna delle due arti è superiore all’altra, perché sono entrambe figlie del disegno. Da quel momento i disegni dei grandi maestri (Michelangelo, Raffaello, Leonardo,Tiziano, Correggio e altri) non vennero più utilizzati solo per motivi di studio, ma acquisirono il valore di opere d’arte autonome. Nella seconda metà dell’Ottocento gli artisti romagnoli si dirigevano a Firenze, allora Capitale d’Italia, dove era fervido il movimento dei “Macchiaioli”, chiamati così per la loro pittura formata da macchie di colore accostate. Nell’Accademia di Firenze si facevano schizzi dal vero. Disegnando si impara a vedere, si notano linee, forme che si riportano sulla carta, si seziona ciò che si sta guardando e allo stesso tempo si analizza anche il pensiero. In un’opera molto bella, esposta a Castrocaro:“La Pavonessa” di Domenico Baccarini, la fanciulla ritratta ha lunghi e lucenti capelli scuri, Domenico immagina il trasformarsi di questa capigliatura in una ruota di pavone, il suo pensiero è là sulla carta. Baccarini morì a 25 anni, una vita misera e di dolore, una meteora nella Storia dell’Arte, ma indimenticabile.

immagine: Pavonessa di Domenico Baccarini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 20/04/2015

Il contralto di Marietta

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Secondo il mito, chiunque ode il canto delle sirene ne resta incantato, lasciando ogni azione per raggiungerle. Questo preambolo per ribadire quanto il canto tocchi le nostre corde interne, ieri come oggi. Pensate a quanta fatica e lavoro in più per uno strumentista, violinista o flautista per esempio, eppure  la ribalta, i fan sono tutti per il cantante, sia esso un tenore in un’opera o la voce in un complesso musicale pop. In musica, il termine contralto designa sia la più grave delle voci femminili, sia la cantante che la possiede. In altri tempi, lo stesso termine veniva usato, per indicare il cantante castrato che cantava nel medesimo registro. Alle donne un tempo era vietato cantare, le parti di contralto, così come quelle di soprano, furono inizialmente  affidate a uomini che imitavano artificialmente, in falsetto, il suono della voce femminile, finché verso la metà del XVI secolo iniziarono ad apparire al loro fianco anche le prime voci dei castrati che ebbero facile partita, sostituendo completamente i falsettisti. L’affermazione dei castrati fu anche agevolata dal divieto, imposto da Sisto V, alle donne di mostrarsi sul palcoscenico in tutto lo Stato Pontificio.Marietta Alboni (1826/1904), umbra di nascita, romagnola di adozione, forse fu la più grande dei contralti e in qualche modo lenì a Rossini la pena per la scomparsa dei castrati, virtuosi del canto, ma vittime di una crudele pratica. Marietta si trasferì ben presto dall’Umbria alla Romagna e precisamente a Cesena. Pur avendo dimostrato fin dall’inizio di essere portata per il canto fu osteggiata dai genitori ma trovò l’appoggio del fratello maggiore, che la istruì nei primi rudimenti della melodia. Marietta venne ammessa al Liceo Musicale di Bologna, dove era direttore Gioachino Rossini, iniziò così un rapporto reciproco di profonda stima e amicizia, col grande compositore, che sarebbe durato per tutta la loro vita. Dopo aver conseguito il diploma al conservatorio, Marietta  esordì a Bologna a cui seguì il debutto alla Scala di Milano. La reputazione dell’Alboni salì alle stelle tanto che fu richiesta la sua presenza al Teatro Imperiale di San Pietroburgo. Successivamente darà concerti a Praga, Berlino, Amburgo poi sarà in Polonia, Ungheria e Austria. Passò poi a Londra e a Parigi, senza tralasciare le città italiane come Roma e Venezia. Nell’estate del 1852 si imbarcò per l’America, qui Walt Whitman, si “innamorò” di Marietta: una donna rotondetta di umili origini ma in possesso di una ricca, profonda, dolce voce che muoveva uomini e donne alle lacrime,il famoso poeta statunitense le dedicò versi brillanti. L’Alboni a New York fu salutata dalle grida entusiastiche del pubblico dopo aver cantato appena poche battute. La sua carriera continuò felice, quando a soli trentotto anni si ritirò dalle scene. Marietta aveva sposato il conte Achille Pepoli, il quale fu afflitto da gravi turbe psichiche  e la moglie con spirito altruista lasciò il palcoscenico per potersi dedicare alle sue cure. La sua carriera poté considerarsi definitivamente conclusa, anche se continuò a cantare in privato e in concerti di beneficenza. Morì a sessantotto anni, nella sua villa vicino a Parigi, fu seppellita nel Cimitero di Père-Lachaise . Sempre impegnata in opere di carità, lasciò quasi tutti i suoi beni ai poveri di Parigi. La fama in vita di Marietta fu enorme al punto che le fu intitolato un veliero, varato in America nel 1852, e contemporaneamente, in Francia, un ibrido di rosa (“Madame Alboni”).  Cesena ricorda  Marietta Alboni col Coro Lirico della città, con la Piazzetta Alboni, un busto e una targa nel foyer del Teatro Bonci. Esiste poi il Premio Rosa Madame Alboni, una rosa d’argento ispirata al fiore creato nel 1852. L’instancabile sostenitore dell’Alboni, il cesenate Lelio Burgini, ha recuperato dalla Francia una pianta di rosa che giungerà a Cesena per essere posta nel giardino pubblico. Camille Saint-Saens, il grande compositore francese lasciò queste parole: “Cesena ha più dolci ricordi: in lei è cresciuta, è stata allevata Marietta Alboni è là che essa apprese le prime nozioni di un’arte della quale doveva essere una delle glorie”.

 

 

immagine: Marietta Alboni

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 20/04/2015

La fonte di giovinezza

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Lucas Cranach (1472/1553) detto anche il Vecchio, per distinguerlo dal figlio il Giovane, è uno dei principali interpreti del Rinascimento Tedesco, che è molto diverso dal nostro in quanto è influenzato dalla Riforma luterana. Cranach pur essendo un’artista mirabile, a differenza di quelli italiani che erano delle “star”riconosciute nel loro specifico campo, possedeva diverse attività imprenditoriali. Fu amico di Martin Lutero e si convertì al protestantesimo dedicandosi ai soggetti biblici che lo resero popolare in tutta Europa. Ma, c’è sempre un ma, nelle raffigurazioni femminili Cranach diviene erotico, celandosi dietro le figure mitologiche, rappresenta delle femmine conturbanti, nude e in bellavista con piccoli veli o grandi cappelli o gioielli che esaltano ancora di più la loro nudità e poi ti guardano scostumate negli occhi, sono antesignane delle donne provocanti di Klimt. Sono figure efebiche legate a un’idea di bellezza elegante e profondamente sensuale. Sia che tentino Adamo con una mela, che minaccino Oloferne con una spada, o siano la dea dell’amore, le sinuose veneri di Cranach, dalla pelle bianca come il latte e i piccoli seni ci guardano con malizia. Cranach non si allontanò mai dall’area danubiana, eccetto per un viaggio compiuto in Olanda, quindi impossibile trovare un collegamento con la Romagna, forse con Firenze che ospita alcuni suoi lavori, tra cui un’Eva che Hitler voleva a tutti i costi, eppure un filo c’è. Cranach oltre alle sensuali femmine e ai ritratti, ha dipinto anche la Fonte della giovinezza. La Fonte della giovinezza è una mitica sorgente simbolo d’immortalità e di eterna gioventù che appare nella mitologia medievale e classica di molte culture. Secondo la leggenda l’acqua della fonte, guarisce dalla malattia e ringiovanisce chi ci si bagna. Dove sia non si sa, forse che sia in Romagna? Grande attenzione vi è sempre stata nel nostro territorio per le sorgenti d’acqua, in particolare quelle ritenute curative. L’esempio più celebre è quello del Lago degli Idoli sul Monte Falterona che un tempo ospitava uno specchio d’acqua che doveva essere mantenuto da una sorgente sotterranea. Proprio la costante sorgente d’acqua dovette costituire motivo di venerazione, un vero e proprio culto delle acque, testimoniato dalla scoperta, nel 1838, di circa 650 statuette e centinaia di monete, armi, fibule, ecc., estratti dal lago che venne appositamente prosciugato, alcuni di questi reperti sono conservati  a Londra, a Parigi, a San Pietroburgo e a Baltimora. Anche nella zona della Foresta della Lama vi era una pozza d’acqua, una sorgente che veniva chiamata la “pozza della troia”, tale nome resiste anche oggi, al nuovo e più scientifico di “fonte solforosa”. Due modi di vedute diverse, uno tradizionale e cioè che la pozza dove andavano a bagnarsi e a bere i maiali era curativa, le persone che portavano gli animali là se ne erano accorti e usavano le acque anche per loro. La veduta scientifica ci dice che le acque solforose (sono quelle che puzzano di uovo sodo) sono ricche di zolfo assai benefico per il corpo umano. Nella tradizione popolare la frequentazione delle sorgenti curative non è mai venuta meno, fra le prove due ex voto conservati fino al 1982 nella chiesa di Bagno di Romagna e poi rubati:“Gitanti seminudi si gettano nella gelida pozza della scrofa”, secondo la leggenda erano curative per i reumatismi.  Le acque di Bagno di Romagna guarirono Santa Agnese dalla scabbia oggi curano la sterilità. A Badia Prataglia si trova una profonda grotta interessata da acqua sotterranea, è chiamata la Buca delle Fate… toponimo legato a leggende avvinte a una frequentazione antica “magica”. Ecco svelato il mistero della Fonte della giovinezza, le acque termali sono curative ancora oggi, figuratevi un tempo remoto, saranno state considerate magiche, l’ex voto di Bagno di Romagna e l’opera di Cranach si distingueranno per tecnica non certo per tema. Ricordo gli anni Ottanta, frotte di persone con vari acciacchi partivano per andare a fare le cure termali, erano persone un po’ in là con gli anni, ospitate in alberghi, il tutto sovvenzionato dalla “Mutua”… altri tempi.

immagine: particolare della Fontana della giovinezza di Lucas Cranach

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 13/04/2015

Capolavori da Museo

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Il Museo Della Città di Rimini, è ospitato dal 1990 nella sede del Collegio dei Gesuiti. Attualmente si compone di circa 40 sale in cui sono esposte circa 1500 opere. Il cortile ospita il lapidario romano, al piano terra si può visitare la prima parte della Sezione Archeologica dedicata alla Rimini  imperiale. Tra il primo e il secondo piano si trova la Pinacoteca che segue un percorso cronologico.   Una serie di capolavori si trova al primo piano nella sala del Trecento con tavole di giotteschi, tra cui spicca Giuliano da Rimini. In un’altra sala della pinacoteca vi è poi un gioiello: “La Pietà” di Giovanni Bellini del 1500 circa che da solo vale la visita al Museo: grazia, dolcezza e armonia vibrano nell’opera del pittore veneto. Questa piccolissima introduzione era dovuta per chi non ha mai visitato il Museo che è ricchissimo di perle, io vi parlerò solo di due opere: il grande mosaico bianco/nero delle barche e quello policromo del pastore con la testa di Anubi. Il mosaico a tessere bianche e nere raffigura le imbarcazioni che rientrano al porto di Rimini attorniate da pesci e delfini, con l’ingresso al porto dove c’è l’addetto al faro, che alimenta il fuoco e l’equipaggio come lavora! Nella via Tempio Malatestiano, sono stati ritrovati i resti antichi di una grande domus, sotto Palazzo Diotallevi, scoperta nel 1975, fu costruita fra il II e il I secolo  a. C. e ristrutturata intorno alla metà del II secolo d. C. è da questa domus che proviene il mosaico delle imbarcazioni, forse di proprietà di un ricco imprenditore marittimo. Ciò fa pensare ad una vocazione naturale per il mare da parte dei riminesi, ad un boom economico già  nel I/ II  secolo a. C.,  una Rimini antica  al centro delle rotte commerciali, che mantenendo le sue tradizioni si è “inventata” negli anni  ‘60 un altro boom: la spiaggia e le vacanze per tutte le tasche. Dei mosaici a tessere bianche e nere fa parte anche la raffigurazione di Ercole che ha in mano oltre alla clava una coppa nel gesto di brindare. Secondo la leggenda Ercole era il “protettore” più antico di Rimini. Da Piazza Ferrari sui resti di una ricca domus imperiale, provengono varie suppellettili di pregio, tra le quali si segnala un completo corredo medico con mortai, contenitori per medicinali e numerosissimi strumenti chirurgici in ferro e bronzo, sembra che Rimini anticamente ospitasse molti medici ma anche un sottobosco di maghe e fattucchiere. Da questa domus  proviene lo splendido mosaico di Orfeo attorniato da animali (Orfeo è l’incantatore della Natura). Il mosaico del pastore con la testa di Anubi/cane, attorniato da  animali, mi ha colpito tanto, proviene da una domus vicino all’Arco d’Augusto, forse è testimonianza di un nuovo gusto egiziano per la religione, le mode esistevano anche nell’antichità;  ma il pastore potrebbe essere Orfeo, il culto di Orfeo era assai sentito, lo testimonia il mosaico della domus del chirurgo e una piccola scultura di Orfeo citaredo che si trova sempre ai Musei Civici. Se il pastore è Orfeo e la testa non è di Anubi, la raffigurazione potrebbe allacciarsi  ad Ercole, in quanto Ercole e Orfeo sono gli unici dei che sconfiggono Cerbero, il cane a tre teste vorace demonio a guardia dell’Ade. Ercole non lo uccide lo affronta e arriva quasi a strangolarlo, poi lo riporta al suo posto di guardia. Orfeo scende nell’Ade per riportare in vita Euridice, incomincia a cantare dolcemente e Cerbero diviene  buono come un agnellino. Comunque è sorprendente che su una stessa zona fiorisse bellezza, già nel I/ II sec. a. C. e sopra vi sorgesse più tardi Palazzo Diotallevi  i cui proprietari possedevano una ricca collezione d’arte, come se la bellezza si rincorresse. Audiface Diotallevi (morto nel 1860) fu l’ultimo Sindaco di Rimini sotto il Governo Pontificio e fu anche uno dei fondatori della Cassa di Risparmio. Diotallevi aveva una importante collezione di dipinti, provenienti in massima parte dagli arredi artistici delle chiese riminesi soppresse da Napoleone nel 1797. Tra le opere la pala: L’Incoronazione della Vergine di Giuliano da Rimini, oggi ritornata ai Musei Civici della città e La Madonna Diotallevi di Raffaello Sanzio oggi conservata  al Bode Museum di Berlino.

immagine: Mosaico delle imbarcazioni a Rimini

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 20/10/2014

Le inquietudini di Goya: dalla corte alla guerra

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Francisco Goya (1746/1828) è considerato un artista di cultura illuminista, anche se l’indole è romantica ed  esoterica. Il suo stile è svincolato da ogni ideale accademico, è anche molto versatile, sa passare da visioni delicate, al grottesco e al tragico. Realizza molti ritratti della famiglia reale in cui manifesta una straordinaria capacità di introspezione psicologica, mi sono sempre chiesta come i reali spagnoli non si siano visti come appaiono: ridicoli! Anzi stimavano il pittore sia il re che la regina. Nel 1808 con l’invasione delle truppe napoleoniche, Goya è testimone delle sanguinose repressioni del suo popolo. La dura realtà della guerra lo mette in contatto con la crudeltà, la violenza e l’ingiustizia. Tutte le speranze nella possibilità di cambiamento della Spagna, arretrata e superstiziosa, si disfano davanti ai francesi, ritenuti portatori di libertà e progresso, diventano i nemici e i violentatori. Illustra con una serie di incisioni: “I disastri della guerra”, gli episodi di violenza, crudeltà e sadismo. Ispirandosi alle incisioni di Rembrandt, realizza immagini di una forza allucinante, dove il bianco e il nero diventano drammatici e coinvolgenti. Finita la guerra Goya cerca di dimenticare gli orrori, di ricostruire la sua vita, ma sarà colpito da una malattia che lo lascerà completamente sordo. Decide di ritirarsi nella sua casa di campagna: la “Quinta del sordo”. Qui dipinge le pareti con immagini tragiche, ossessive: sono le “Pitture nere”,figure che sembrano allucinazioni, mostrano rituali di stregoneria, sabba, apparizioni sataniche e scene di brutalità. Fra queste pitture vi è quella di un cane, si vede solo il muso che si staglia contro uno spazio vuoto, color ocra chiaro. Il cane è fra due mura, senza scampo, lo sguardo allucinato, sta aspettando la morte solo come un cane… è metaforicamente l’autoritratto più pregnante di Goya, questo è ciò che vi vedo io, ma innumerevoli sono le ipotesi di critici e studiosi. Il mistero su Goya perdurò anche dopo la sua morte, si scoprì che il corpo nella bara era decapitato. Possibile? Erano gli anni  del mito di Frankenstein e di esperimenti assai strani. Se volete vedere un’incisione di Goya, recatevi a Longiano alla Fondazione Balestra, ma non dimenticate di visitare la Mostra su Boldini ai Musei San Domenico di Forlì, direttamente dal Prado vi è un Goya strepitoso.

immagine: Il cane di Francisco Goya

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 30/03/2015

Un museo, tre religioni

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Il Museo Interreligioso di Bertinoro, unico nel suo genere, è dedicato al dialogo tra Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Il percorso espositivo è allestito all’interno delle antiche carceri nella Rocca Vescovile, del XVI secolo. Le più grandi religioni monoteiste, qui a Bertinoro, terra sinonimo di ospitalità, tramite l’arte convivono in pace. Il Museo è nato per volontà della Diocesi di Forlì-Bertinoro seguendo un progetto ideato e realizzato dal senatore Leonardo Melandri. Lo splendido portale d’ingresso è una struttura in metallo con i simboli delle tre religioni, possente e allo stesso tempo leggero e trasparente. All’ingresso la raffigurazione mosaicata di Abramo, riconosciuto come il padre delle tre religioni. Nella seconda sala opere astratte che rappresentano le 12 tribù di Israele. Secondo la Bibbia, i dodici figli di Giacobbe divennero gli antenati eponimi delle dodici tribù di Israele. Nella terza sala, la parola, i manoscritti, le radici, la città di Gerusalemme è raffigurata nella vetrata dell’artista Roberto Cambi. Gerusalemme è città santa per gli ebrei, Salomone vi edificò il Tempio; santa per i cristiani, qui Cristo morì e risorse, santa per i musulmani, il Profeta vi iniziò il suo viaggio celeste. Quarta sala, Dio come creatore, opere terrene ma astratte: Dio è al disopra di ogni possibile comprensione e immagine terrena. Quinta sala: il Cristianesimo, Dio che si è fatto uomo e fu crocifisso, vi è un’opera splendente per commozione è una Crocifissione, la bozza della Porta Santa per il Giubileo del 2000,  di Floriano Bodini. Sesta e settima sala sono dedicate all’Ebraismo coi simboli ebraici, su cui spicca il bel candeliere a sette bracci, e alla Pasqua ebraica. Sale otto e nove sono dedicate all’Islam, è ricostruito l’interno di una moschea, con il pulpito in legno su cui sale l’imam per la predica del venerdì, la nicchia nel muro che indica la direzione della Mecca e con i precetti del culto islamico che sono detti i cinque pilastri. Sala decima sono presenti i paramenti liturgici e gli arredi sacri. L’undicesima sala presenta il Male, due grandi artisti lo raffigurano con grande eloquenza. Francesco Messina con “L’Adamo piangente” mostra un uomo rattrappito, smarrito, che si nasconde il volto fra le mani cercando di scomparire. Lo “Scheletro crocifisso” di Giacomo Manzù è ciò che accade oggi ogni giorno, l’indifferenza. Vi è la croce di Gesù che non è altro che uno scheletro, chi crede più a qualcosa? Tutto è un nulla, e infatti nella lastra di bronzo vi è anche un vescovo nudo che si copre le “vergogne” col cappello cardinalizio, e un bimbo passeggia col suo cagnolino… che importa a noi della sofferenza altrui?      Non ci si ferma all’indifferenza, dal Male si va all’Oltre, alla sala dodici, a cui si accede tramite un cunicolo simbolo del passaggio dalla morte alla  vita. Qui vi è uno splendido angelo islamico, coloratissimo che suona la tromba del Giudizio finale. Il giro termina con la visita alla suggestiva cisterna, la Rocca, sorgendo sul colle di Bertinoro e mancando di una fonte d’acqua, fu munita di una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. Il Museo ospita anche un’acquaforte “Cristo davanti a Pilato”di Rembrandt van Rijn. L’opera, datata 1636, momento in cui l’artista si stava affermando nell’ambiente artistico di Amsterdam, con opere importanti. Rembrandt racconta tra luci accecanti e oscurità il drammatico incontro tra Gesù e Pilato. Cristo è illuminato è già agnello sacrificale e la sua luce inonda anche Pilato che però è indifferente. Annoiato chiede se Gesù fosse un re. Cristo risponde:“Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce.” “Che cos’è la verità?” chiede Pilato, titubante vorrebbe saperlo ma non se la sente, non sa quale strada scegliere, non sceglie e se ne lava le mani. Rembrandt mostra i dubbi di Pilato, che si trova a decidere della sorte di Gesù, ma l’osservatore è focalizzato solo dalla figura inerme e pura di Cristo…  al diavolo, il sinedrio, la folla e anche Pilato. L’incisione si trova nella quinta sala dedicata al Cristianesimo.

 

 

immagine: Mueso Interreligioso di Bertinoro

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di Romagna” il giorno 30/03/2015