Ultimi giorni di Liberty

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Il Liberty fu un movimento artistico che, tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, interessò diversi campi: l’architettura, l’arte figurativa e le arti applicate. Ebbe nomi diversi a seconda della nazione in cui si sviluppò, si ispirò all’Arts and Craft inglese, il cui fondatore fu lo scrittore romantico John Ruskin, questi era nemico della Rivoluzione Industriale in cui vedeva il lavoratore sempre più  schiavo alla macchina, i suoi libri influenzarono lo stesso Marx. Il movimento Arts and Craft  si preoccupava della scomparsa dell’artigianato e delle tradizioni, in fondo non si discosta molto dai temi di oggi, fra chi vede la globalizzazione come una carta vincente e chi invece la combatte. L’obiettivo del Liberty era quello di abbellire  gli oggetti che venivano prodotti in serie dalle industrie. Ci si ispirò alla natura (quando si ha paura del futuro ci si rifugia nella terra e nelle tradizioni) con  motivi floreali e linee curve e morbide, in Italia si diffuse un po’ in ritardo, durante l’Esposizione di Torino del 1902. Il Liberty cercava di conciliare il passato al futuro, ma le linee  spesso erano inquiete e contorte e il lusso odorava di morte; fu l’emblema della Belle Époque, la vita brillante nelle grandi capitali europee, espressione di fiducia al nuovo secolo, il Novecento.Si credeva in un periodo di pace e prosperità, le scoperte e le innovazioni tecnologiche lasciavano sperare in una soluzione a tutti i problemi dell’umanità. Ma il progresso aveva un prezzo: il benessere di alcuni si basava sulle fatiche di molti altri: il proletariato. Tuttavia gli operai ebbero dei vantaggi in parte per le loro lotte, ma anche per la logica del mercato in base alla quale se si vuole guadagnare di più bisogna produrre e vendere di più, era necessario quindi che le masse avessero il denaro per comprare. La Belle Époque  affondò col Titanic, avvenuto nel 1912, e morì con l’avvento della Prima Guerra Mondiale. A Forlì ai Musei San Domenico è in corso sino al 15 giugno una grande mostra sul Liberty. Nel percorso molti artisti: Domenico Baccarini  talentuoso artista faentino, morì di tubercolosi a soli venticinque anni, è presente con ben diciotto opere, tra cui il ritratto di Bitta e l’autoritratto, due disegni a matita incredibili per virtuosismo e un dipinto,forse un autoritratto, in cui una donna, da dietro alle spalle, con le mani gli chiude gli occhi, questo gesto scherzoso qui risulta assai conturbante, quasi sinistro. Il Nudo di Gustav Klimt, proveniente da Ravenna risplende e fa bella figura. Si intuiscono quegli anni vorticosi, chic, ma anche un po’ futili nel vedere la tela dipinta da Antonio Rizzi, in cui Benvenuto Disertori, artista poliedrico, si fa ritrarre vestito come Oscar Wilde, contro una tappezzeria damascata, un damerino esile e malinconico  e con un’acconciatura che lo fa molto somigliante ad Audrey Beardsley (Audrey  pare fosse bellissimo e si vantava molto di ciò).  Beardsley  è stato un illustratore, scrittore e pittore inglese  dalle linee marcate e le forme piatte che in qualche modo evocano il Giappone, illustrò anche la Salomè di Oscar Wilde. Merita un’attenzione particolare per la giocosità che regala “Tritone e Nereide”, di Max Klinger, artista tedesco dai mille interessi, in cui l’uomo viene sedotto dalla bellezza della sirena, che lo trascina in un abbraccio impetuoso,come dire: “anche se fosse morte, ora non m’importa”.  Luigi Bonazza con “La leggenda di Orfeo” ha   qualcosa che ricorda Klimt, infatti studiò a Vienna, e come lui esprime il disprezzo per le donne. Giovanni Boldini, artista ferrarese dalla linea veloce: “La donna in rosa” è allegra e frizzante, per lei sembra tutto un divertimento eppure siamo nel 1916 in piena guerra. Altri artisti come Casorati e Wildt non sbagliano mai. Un capolavoro è: “L’Angelo della vita”, velato di malinconia , di una bellezza  pura e naturale, in cui si annulla la ricerca del torbido, è di Giovanni Segantini pittore  amante della montagna che ci ha lasciato dipinti che ne catturano la luce tersa, chiara e pulita.  Fra le arti applicate notevoli gli arazzi/tappeti  di Vittorio Zecchin , molto colorati e schematizzati ricordano l’arte popolare russa.

immagine : Tritone e Nereide”, di Max Klinge

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 26/05/2014   

La Mototagliatella di Predappio, una festa colorata

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In maggio si svolge a Predappio la “Mototagliatella”un raduno che porta nella piccola città del Duce migliaia di moto, arrivano turisti dalle zone limitrofe ma anche dal Veneto e dall’Emilia, una festa multicolore, a base di buone tagliatelle e moto fantastiche, qualche moto è decorata e con tanta fantasia e creatività: uno spettacolo. Donne cibo e motori, infatti oltre alle moto e alle tagliatelle c’è l’elezione di Miss “Majetta Bagneda”, secondo me di quest’ultimo evento potevano farne a meno ma siccome il ricavato della festa, tolte le spese, va tutto in beneficenza, tanto di cappello. Quest’anno era il ventennale e siccome il tempo era brutto e non si poteva andare al mare, sono andata a Predappio anch’io. Mussolini il paese natale lo ha praticamente ricostruito con opere assai pregevoli, ad esempio la Casa del fascio in stile razionale, dalle linee nette e eleganti con la torre littoria, che ha la campana come i campanili delle chiese, evocatrice delle torri comunali del Medioevo, o l’oratorio, l’asilo e  la piccola chiesa dedicati a Santa Rosa da Lima in onore alla madre del Duce che si chiamava Rosa, all’interno è presente forse l’unica “Madonna del fascio”esistente, un pannello ceramico formato da 380 piastrelle dipinte in stile azulejos (mosaici simbolo del Barocco portoghese) realizzato nel 1927. Non volevo parlarvi di ciò, ma della villa che s’incontra venendo da Forlì a Predappio: la Tenuta Pandolfa. Oggi è una dimora  prestigiosa utilizzata per eventi importanti, un tempo, ma ancora oggi, la voce del popolo chiamava la Pandolfa la Casa degli Spiriti e dalle cento finestre, forse a causa di una bimba perita misteriosamente, il cui pianto si ode assieme al rumore di catene e al suono di un treno in arrivo. Mentre il motivo delle cento finestre sarebbe inerente al fatto che le finestre esterne sono 100 mentre all’interno ve ne sono solo 99. Come mai? E’ stata murata una stanza? E’ qui il fantasma della bambina che prega e piange? Niente di tutto ciò una delle 100 finestre esterne è semplicemente “cieca”, quindi non esiste è solo abbozzata. Il poeta Giosuè Carducci, spesso ospite alla villa, ne  ammirava l’imponenza al punto di affermare che fosse “costruita per l’eternità”. Si narra che il piccolo Benito accompagnasse la mamma Rosa, che soleva andare ai cancelli per vedere il Poeta, forse la leggendaria superstizione di Mussolini è nata qui.   

 immagine: moto al Mototagliatella

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 19 maggio 2019

Perchè Rimini si chiama così

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L‘origine del nome Rimini potrebbe essere umbra: Pausania, parla spesso del re umbro Arimno. Altre fonti dicono che i Romani sconfissero definitivamente i Galli nel 268 a.C. e il Senato di Roma fondò la colonia di Ariminum,nome tratto da quello del fiume Marecchia (chiamato allora Ariminus).I Romani occuparono Rimini perché si trovava in una posizione geografica strategica     per conquistare la Pianura Padana territorio dei Galli. I Romani crearono a Rimini una prima impronta urbana, grazie allo sviluppo delle vie di comunicazione, sino a giungere al massimo splendore all’epoca dell’Imperatore Augusto. Ora io vorrei proporvi un altro punto di vista sull’origine di Rimini. Partendo dal presupposto che mutui il nome dal Marecchia e risalendo con una breve passeggiata alla sorgente del fiume. Non mi  dilungherò sulla questione di chi erano gli Umbri, i Villanoviani, gli Etruschi o i Galli, gli studiosi sono discordanti, c’è addirittura chi scrive che fossero tutti Protocelti. Per Protocelti ( 3000/ 2500 a. C.) si intende una popolazione indeuropea, ricostruita sulla base di metodi comparativi di storia linguistica, stanziatasi in Europa Occidentale nell‘area sia mediterranea che atlantica. Nella nostra passeggiata incontriamo ben presto Verrucchio, di origine molto antica come testimoniano i ricchi corredi funerari, (monili, fibule, vestiario, vasellame, armi) qui ritrovati che attestano la presenza della civiltà villanoviana (età del ferro XII/ VII sec. a.C.), è tutto da dimostrare chi siano, forse erano Etruschi. Proseguendo la salita della valle del Marecchia, incontriamo Pennabilli, ridente paese montano, tanto amato da Tonino Guerra. Pennabilli il cui nome Penna deriva dalla Dea Pen o Penna, divinità celtica che significa vetta o cima, la quale dà il nome anche alla catena degli Appennini; mentre Billi è una parola celtica che significa “albero sacro”. Non lontano al monte Penna, c’è il balzo, dove oggi ci sono le campane tibetane testimonianza della visita del Dalai Lama… nei luoghi celtici c’è sempre il Balzo. E intanto noi siamo giunti in località Balze, poco prima di giungere alla sorgente. Una località con tale nome non può che ricordare la “tragedia del Balzo”. Il Balzo era un rito celtico arcaico di iniziazione, si volava dalla cima del monte in un salto che molte volte era mortale, qualcosa che ricorda da vicino il mito di Icaro e Dedalo. Qualcosa che ricorda il terribile gioco di certi giovani di oggi: il parkour (è una disciplina ma io la trovo pericolosa ), con la differenza che l’uomo preistorico effettuava il Balzo per ingraziarsi la benevolenza della natura, che doveva essere ai tempi, senza le comodità di oggi, assai crudele. Le origini del paese Balze è incerta, la leggenda racconta di due sorelle una sordomuta ed una cieca che all’apparizione della Madonna su di un grosso masso siano guarite. La notizia del miracolo si sparse e sul luogo del prodigio fu costruito l’oratorio della Madonna del Sasso, attorno al  santuario crebbe poi il paese. I Celti credevano che l’incontro dell’acqua con la roccia generasse la vita, una Madonna legata al sasso ricorda certamente antiche memorie. A ribadire la religiosità dei luoghi è la presenza, attorno all’anno Mille, degli eremiti:  Sant’ Alberigo e  San Romualdo. Ma ora siamo giunti alle sorgenti del Marecchia, si tratta di una triplice sorgente: la prima scende dall’alto, la seconda si aggiunge da sinistra, la terza dalla destra, qualche metro più in basso, come non pensare al simbolo celtico della Grande Madre il Triskele? E il monte da cui nascono le sorgenti: il monte Zucca come non collegarlo alla zucca celtica simbolo di fertilità e di luna piena… il monte Zucca fa parte dell’Alpe della Luna. E non è finita qui,a Pratieghi  piccolo paese, frazione di Badia Tedalda  si può trovare la misteriosa pianta Taxus baccata, una pianta nota anche con il nome di “Albero della morte”, si può trovarla all’interno dell’Area Naturale Protetta. E’ una pianta rara,  sacra per i Celti, simbolo di vita perché è un sempreverde, simbolo di morte perché i suoi semi sono velenosi, sin dall‘antichità dal suo legno si ricavavano i bastoni dei Druidi e le armi.    

 immagine: le Campane di Pennabilli

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 19 maggio 2014

 

 

 

 

Le 107 pugnalate della setta degli accoltellatori

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Tredici reati di sangue, otto morti, sei feriti, centosette pugnalate inferte, una sola firma: quella della setta degli accoltellatori di Ravenna. L’attività criminosa si svolse tra il 1865 e il 1871, culminò col processo, che ebbe vasta risonanza in tutto il Paese, istruito in città nel 1874 contro i 23 presunti accoltellatori, quasi tutti condannati. Tutto comincia a Ravenna una sera del 1865, in via delle Melarance (oggi via Mentana), spesso si incontravano ubriachi che annegavano nel vino dell’ Osteria della Grotta le amarezze sulla mancanza di lavoro e sulle incertezze del domani. Tra di loro vi erano molti ex garibaldini, qualcuno aveva anche partecipato all’impresa dei Mille, delusi per il   l’ Italia unita, ma monarchica. La monarchia era una pillola amara che loro non riuscivano ad ingoiare. Nelle osterie  incitavano alla rivolta sostenendo che il Risorgimento era stato tradito e passarono dalle parole ai fatti, decisero di dare una lezione a quei “boia” che si arricchivano affamando la povera gente. Colpirne uno per educarne cento dicevano. La prima vittima fu il direttore della Banca Nazionale di Ravenna, poi dopo una serie di ferimenti con la saracca (coltello da tasca romagnolo a lama dritta micidiale), ci scappò il primo morto, fu ucciso il procuratore del re. Gli ambienti repubblicani vennero setacciati e gli arresti furono all’ordine del giorno. A mettere fine alla banda fu un delatore, un pentito diremmo oggi. La Romagna era ai tempi terra di gruppi ribelli e indomabili, di accese passioni politiche. La difesa dell’onore era un concetto tenuto in gran conto anche in ambienti popolari, laddove il sentirsi superiori dipendeva proprio dalla capacità di duellare. Molti romagnoli usavano come arma di difesa la saracca, la tenevano in tasca, assai diffusa dal XVII secolo ai primi del Novecento. Il Passatore ritratto spesso col trombone che  probabilmente non usò mai, era l’arma dei briganti calabresi, in realtà pure lui usava il coltello. Anche Mussolini da ragazzo pare fosse espulso dal collegio dei  salesiani, a Faenza, per un colpo di coltello inferto ad un compagno.

articolo già pubblicato sul quotidiano “La voce di romagna” il giorno 12/05/2014

    

Enigma Trono Ludovisi

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Tentare di collegare le opere d’arte più belle alla Romagna è per me un dovere e un piacere. Partiamo da Roma: gli Horti di proprietà del senatore Gaio Sallustio Crispo (86-34 a.C.), erano di fatto un’opulenta villa suburbana con estesi giardini  adornati da padiglioni, porticati, statue, fontane, templi (uno dedicato a Venere Ericina), terme e ninfei. Il tutto fu realizzato su di un terreno precedentemente appartenuto a Giulio Cesare. La distruzione degli Horti  Sallustiani ebbe origine dal sacco dei Goti di Alarico nel 410, che iniziarono il saccheggio e la distruzione proprio da quegli splendidi edifici, provocando danni che nessuno avrebbe mai più riparato. Nel XVII secolo durante i lavori di ripristino a Villa Ludovisi che sorgeva sugli antichi Horti, vi fu il primo ritrovamento dei marmi antichi: il Galata morente, quindi il Galata suicida, infine nel 1887 fu ritrovato il Trono Ludovisi, tutte opere di straordinaria importanza e bellezza. Vi pare possibile che tali opere siano rimaste sepolte per centinaia di anni e scoperte per puro caso? Ciò stupisce non poco conoscendo l’impegno che i Papi rinascimentali profusero per recuperare le antichità di Roma. Alarico, durante il sacco di Roma, catturò come ostaggio Galla Placidia, sorella dell’ imperatore Onorio (colui che spostò la capitale da Milano a Ravenna) e futura imperatrice,     nonché  regina dei Goti, di cui Alarico si innamorò. Questi decise di portare Galla Placidia con sé verso l’Africa, ma il fato gli fu avverso, prima un nubifragio in cui affondarono parecchie navi, poi  si ammalò e morì a Cosenza, sepolto coi suoi tesori sotto al fiume Busento. Galla Placidia stregò il nuovo  re dei Visigoti Ataulfo che la sposò dapprima con rito barbaro a Forlì e poi a Narbona nel 414. Ataulfo le offrì in dono parte dei tesori saccheggiati a Roma. Il Trono Ludovisi è paragonato spesso ad un altro manufatto chiamato Trono di  Boston. Qualche anno fa lo storico dell’arte Federico Zeri  aveva attribuito il Trono Ludovisi  ad uno “scalpellino” del 1800, l’opera rischiò di finire in un deposito. La scultura risale al  V a. C. secolo  è oggi conservata a Roma a Palazzo Altemps che fu edificato, guarda caso, da Girolamo Riario  marito di Caterina Sforza, su progetto di Melozzo da Forlì. Il Trono Ludovisi, è un trittico marmoreo che raffigura ai latiuna flautista nuda, e una figura di donna ammantata, e al centro vi è Venere coperta da un chitone delicatamente panneggiato, dai seni tremolanti, si appoggia a due figure femminili che la stanno aiutando a fuoriuscire dall’acqua, è intrisa di acqua, di luce e di erotismo. Le sacerdotesse di Venere Ericina  praticavano la prostituzione sacra. Venere Ericina ha come simbolo una spiga ed è rappresentata accanto ad un cane e ad altri animali,  è la “Signora degli animali”; a Lei erano sacre le colombe ed un particolare rito prevedeva il loro volo da Erice verso le coste africane con il ritorno. Ipotizzare che Alarico o Ataulfo abbiano razziato e poi donato il Trono Ludovisi a Galla Placidia non è poi così impossibile, Lei aveva diciotto anni  e non doveva discostarsi di molto dalla raffigurazione di Venere, di Galla non si hanno immagini certe, se non in monete, ma si sa ad esempio che la madre che si chiamava come lei: Galla, era considerata la donna più bella dell’Impero. Galla Placidia  doveva essere pudica ed impudica, come dimostrò con la sua vita, fu regina di cuori dal polso di ferro. La raffigurazione più famosa nel suo Mausoleo in Ravenna, sono le due colombe posate sul bacile di acqua, che rappresentano le anime che si abbeverano alla fonte di Cristo. Le colombe però sono disposte in modo che una pare che parta e l’altra che si sia appena posata, quasi come le colombe della Venere Ericina. Il Trono sarebbe poi ipoteticamente ritornato a Roma con Galla dove ella morì nel 450. Forse mi sto arrampicando sugli specchi ma sappiate che  abbiamo una bellissima copia del Trono (assieme ad altri pregevoli gessi), si trova  al Museo d’Arte di Ravenna, dove  sino al 15 giugno trovate oltre alle collezioni permanenti una bellissima ed esaustiva mostra: “L’incanto degli affreschi”  la storia della pittura murale da Pompei, passando da Giotto sino a Tiepolo.              

 immagine: Trono Ludovisi (parte centrale)

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno12/05/2014

Un ponte leggendario per i riminesi e non solo

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Il ponte romano di Rimini sul fiume Marecchia, l’antico Ariminus , quest’anno compie duemila anni, eppure nonostante la vetustà la pietra d’Istria biancheggia luminosa, le cinque arcate che poggiano su massicci piloni si allungano elegantemente dalla città al borgo San Giuliano, il suo stato di conservazione è quasi perfetto, anzi con la vecchiaia è diventato ancora più affascinante. Pensate a quante persone e mezzi vi hanno transitato, non so fare un conto di quante persone lo abbiano visto, considerate che è ancora interessato dalla viabilità cittadina, segno questo dell’incredibile perizia edile dei romani. Ormai è leggendario come la storia mitica della sua costruzione. Molti riminesi chiamano l’antico Ponte di Tiberio con l’appellativo di “Ponte del Diavolo” il nomignolo  è legato al mito  della sua indistruttibilità. Iniziato dall’imperatore Augusto nel 14 d.C. fu completato dal figlio adottivo Tiberio, da cui prese il nome, nel 21 d.C.  I lavori procedevano molto a rilento perché ogni qual volta che si costruiva un nuovo pezzo del ponte questi crollava o comunque non riusciva bene. Sembrava un’opera edilizia destinata a non finire così la leggenda racconta che Tiberio fece un patto col diavolo, quest’ultimo  avrebbe costruito il ponte ma in cambio si sarebbe preso l’anima del primo che lo avrebbe attraversato. Il patto fu concluso e il ponte fu terminato da Satana. Venne il momento dell’inaugurazione e il diavolo aspettava la sua ricompensa ma Tiberio escogitò un modo per svincolarsi dal  pattuito: fece passare sul ponte per primo un cane, il diavolo  che aspettava la sua anima sull’altra sponda, rimase a bocca asciutta. Satana, incollerito per la beffa ricevuta decise di buttare giù il ponte, ma l’aveva costruito lui e l’aveva reso indistruttibile. Provò e riprovò, ma il ponte non crollò il diavolo dovette andarsene scornato. A testimonianza di questo episodio si racconta  di alcune impronte caprine impresse su di una delle grosse pietre poste all’inizio del ponte. Il manufatto è sopravvissuto ai terremoti, alle piene del fiume, agli episodi bellici quali l’attacco nel 551 durante la guerra fra Goti e Bizantini di cui restano i segni nell’ultima arcata verso il borgo, da ultimo il tentativo di minarlo da parte dei tedeschi, ma il ponte è ancora là e lo sarà anche nel 4014… mica per niente l’ha costruito il diavolo in persona.

immagine: Ponte di Tiberio (Rimini)

articolo già pubblicato  sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 05 maggio 2014

   

RINALDO, CHE ASSOLSE I TEMPLARI DEL CONCILIO

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Non molto tempo fa a Ravenna, nella Zona del Silenzio, hanno sistemato il giardino accanto alla chiesa di San Francesco, adiacente alla tomba di Dante, l’hanno intitolato a Rinaldo da Concorezzo. Chi era costui?Rinaldo da Concorezzo è stato un arcivescovo cattolico nato a Milano e morto a Ravenna, qui sepolto in un bel sarcofago  dentro al Duomo, nella Cappella del Sudore. Fu contemporaneo di  Dante, col quale dovette avere quasi certamente dei rapporti. Morirono a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Rinaldo da Concorezzo fu l’artefice dell’assoluzione dei Templari italiani nel Concilio di Ravenna, inquisiti e minacciati dello scioglimento dell’Ordine per volere di Filippo il Bello il quale mirava ad  impossessarsi dei loro beni. Condannò insieme ai suoi vescovi suffraganei la tortura e il terrore come mezzi per ottenere confessioni, non accettandole se estorte con questi metodi e in ciò si oppose anche alla volontà del papa Clemente V che ne voleva lo scioglimento. Fu un’anticipazione delle tesi di Cesare Beccaria del 1764! Come vedete arrivano i misteri coi Templari, quando si parla di loro è sempre un mistero. Rinaldo (siamo nel 1300) è veramente all’avanguardia se non accetta la tortura per strappare la presunta verità, una persona sotto tortura alla fine ammette tutto pur di essere lasciato in pace, non si può mai parlare di verità. Il processo da lui presieduto riconobbe  l‘innocenza dei Templari, la cui pena finale fu soltanto una promessa di penitenza.  Papa Clemente V, furioso per il risultato, ordinò all’arcivescovo di riaprire il processo, e di applicare la tortura per ottenere delle confessioni ma Rinaldo rifiutò ancora. Ed eccoci all’altro mistero su Rinaldo: nel 1311 nel concilio tenuto a Ravenna legittimò il battesimo per aspersione…e allora? Con il battesimo dei bambini si sviluppa la forma del battesimo per aspersione, accettata solamente dalla Chiesa Occidentale.“L’aspersione dei bambini faceva parte della mitologia pagana, e la si constata su numerosi monumenti romani o etruschi, sebbene la sua origine si perda nella notte dei tempi. Presso i pagani, era una lustrazione (rito di espiazione e purificazione); fece la sua prima apparizione nella Chiesa sotto la forma di esorcismo; quando i monaci unirono l’esorcismo al battesimo, si confuse col battesimo e, per finire. lo soppiantò”.

 

foto: Giardino di  Concorezzo, Ravenna

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Ravenna” il giorno 07/04/2014

“CERCAR MARIA PER RAVENNA” LE ORIGINI DI UN DETTO

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“Cercar Maria per Ravenna”, tutti sanno quello che vuol dire e tutti ne danno una versione diversa. Questo modo di dire è in uso da lungo tempo e non si sa bene come ma è pure usato da Miguel Cervantes  nella stesura del Don Chisciotte, scusate se dico poco.  La storia del “cercar Mariola” o  “Maria”per Ravenna, è un modo di dire popolare risalente al Medioevo, il cui significato è relativo ai tempi. A volte ha il senso di cercare cosa che si sa di non poter trovare altre volte  significa una cosa scontata.  Un dizionario del dialetto veneto ( 1829) ci spiega:  “cercar Maria per Ravenna”  significa cercare il mare dove non c’è, un tempo Ravenna era circondata dal mare che poi si è ritirato. “ Istoria di Maria per Ravenna” scritta nel XV secolo, è un poema boccaccesco in ottave, si conserva nella Palatina di Firenze, ci illustra il significato del proverbio, almeno in quei tempi. “Un ricco ed anziano signore, pensò di prendersi in sposa una giovane e bella fanciulla. La bella Ginevra era già infatuata di un aitante giovanotto: Diomede. Ma l’anziano forte del suo denaro impalmò la bella Ginevra. Capitò poi che il marito dovette allontanarsi per questioni di lavoro. Consapevole dei rischi che correva nel lasciare incustodita la mogliettina si mise a cercare una fantesca fidata. Nel frattempo Diomede, saputo della cerca del vecchio marito, si travestì da donna, si diede il nome di Maria e con intrallazzi vari, riuscì a mettere in giro la fama di essere la fantesca più fidata e sicura della piazza. Il vecchio volendo la persona più fidata, incappò proprio nel Diomede mascherato da Maria. Il marito partì felice e sicuro sulla fedeltà della moglie, mentre quest’ultima si dava alla pazza gioia con Diomede/Maria. Dopo qualche mese il marito tornò, la pacchia finì, anzi il vecchio cominciò a fare il filo alla Maria. Tanto fece e tanto brigò che l’anziano signore, riuscì ad accantonare la Maria e ad infilargli una mano tra le gambe… urlando inviperito la ritirò fulmineo. Ci fu un gran trambusto, ma svelta Ginevra lanciò un pugno di fave secche ai piedi del marito, il quale scivolò, sbatté, la testa e morì. Diomede e Ginevra vissero felici e contenti  con i soldi del marito”. Quindi sarà bene andare cauti a cercar la Maria…  

 immagine: Maria e il suo cavaliere sulla torre di Ravenna in via Paolo costa

articolo già pubblicato sul quotidiano  “La Voce di Ravenna” il giorno 24/03/2014

Nostra arzdora

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L’Arzdora era una vera colonna portante della famiglia romagnola patriarcale. Arzdora significa: colei che presiede e che regge al governo della casa. La parola “reggitrice” richiama proprio questa funzione di sostegno. Il reggitore,ossia l’arzdor, era il capofamiglia, il vertice della scala gerarchica, colui che si occupava degli affari e teneva il danaro. La reggitrice o arzdora per le cose di casa, era di solito la moglie del capofamiglia e doveva accudire alla casa, preparare il vitto, attendere a tutti i lavori domestici necessari. Era suo compito provvedere al mantenimento del pollame e dei maiali. L’arzdora andava al mercato con pollame, uova, formaggio, ed altro e col ricavato di questi commerci comprava olio, sale, e quanto poteva servire alla famiglia. L’arzdora era anche una conoscitrice di erbe selvatiche commestibili e medicamentose, di cui ne sapeva trarre gustosi piatti e pozioni che servivano a curare i malanni usuali, come ferite, febbri, mal di testa, di denti ecc., era perciò un po’ magica. Severa perché doveva far in modo che le altre donne  di casa avessero di lei soggezione e quindi “rigassero dritto”, la nuora o la figlia ammutolivano solo al suo sguardo, era solitamente amatissima dai nipoti. L’uomo era solito dire “in casa li porto io i pantaloni”, in realtà l’arzdora glielo lasciava credere, teneva la corda lunga, ma era pronta ad intervenire e a prendere il controllo delle redini, quando l’uomo tentennava, poi ritornava al suo posto, alle solite occupazioni domestiche e alle erbe magiche, un vero leader, comandava nell’ombra, con queste donne si tirerebbe su non solo l’Italia, ma tutto il mondo. La raccolta delle erbe selvatiche è in uso ancora oggi. In me una passione “insana” spinge a raccoglierle e a mangiarle, nonostante non sia un’esperta, si può finire in ospedale non solo per i funghi velenosi ma anche per le erbe, ad esempio la mandragora o l’oleandro sono velenose, probabilmente è il ricordo della nonna o forse perché da piccola raccoglievo i fiori di camomilla, poi passava un signore che lasciava per il mio bottino l’equivalente per acquistare un pacchetto di patatine, di cui ero molto golosa. Vi faccio una lista di quelle che conosco, facili da riconoscere e buone: gli stridoli  (piccole foglioline appuntite, si usano in ottimi ragù con sugo di pomodoro e volendo salsiccia), la portulaca (l’erba grassa infestante che si trova in ogni dove, è ottima nell’insalata ha il gusto del peperone ed è ricca di Omega-3), la rucola (dal caratteristico odore molto più intenso dell’erba coltivata), l’asparagina (si raccoglie solo in primavera, la pineta ne è piena, i piccoli asparagi servono per le famose tagliatelle col ragù di “sparzenna”, o per la frittata) l’ortica che conosciamo tutti per fare la sfoglia verde al posto degli spinaci, le rosolacce (sono le piantine del papavero, si raccolgono ad inizio primavera, sono usate insieme ad altre erbe per il composto interno dei crescioni assieme ad un po’ di pancetta) c’è poi il raperonzolo che non ho ancora trovato al suo posto becco spesso la “carota selvatica” che è ugualmente buona. Ed infine il Tarassaco o “pessalaet”, si trova  a fine inverno, inizio primavera, le sue foglie sono usate per una “insalata alla contadina” cioè condita con pancetta ed aglio, ma è ottimo anche sbollentato e poi saltato in padella con peperoncino. Ce ne sono tante altre, queste erbe generose sono chiamate più scientificamente alimurgiche, il loro utilizzo alimentare  è stato definito fitoalimurgia, ovvero dall’unione di due termini, dal greco phyton (pianta) e dal latino alimenta urgentia, cioè  piante per cibarsi in caso di urgenza o necessità. Un tempo era normale utilizzare queste erbe, anzi erano una componente essenziale ed insostituibile per il sostentamento delle popolazioni, soprattutto per quelle rurali. Purtroppo questa conoscenza legata ad antichi saperi, tramandati da generazione in generazione, rischiano di scomparire, anche se ho notato che stanno aumentando sempre più le persone che sono in cerca di erbette, funghi, asparagi, l’esagerata globalizzazione sta portando un ritorno alle tradizioni.

immagine : il tarassaco

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Romagna” il giorno 22 aprile 2014

IL NAPOLEONE DI ROMAGNA

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Nel 1796 Napoleone invase  la Romagna che fu divisa in due parti: il Dipartimento del Pino (capoluogo Ravenna) e il Dipartimento del Rubicone (capoluogo Forlì). La “capitale” della Romagna napoleonica fu Forlì. Napoleone chiuse l’Università di Cesena (vecchia di cinque secoli) per fare uno sgarbo a Pio VI, pontefice cesenate avverso al Bonaparte. Ma perché Napoleone scelse Forlì e non Ravenna? Napoleone si era appropriato dei simboli celtici per riallacciarsi alle radici di Francia. Il mantello che usò per l’incoronazione, avvenuta a Milano( 1805), era decorato con api, perché erano simbolo di Childerico re dei Franchi morto nel 482. Ambì di essere cinto dalla Corona Ferrea, risalente ai re Longobardi, se la mise sul capo e pronunciò le parole: “Dio me l‘ha data, guai a chi la tocca”. Napoleone volle pure che la Francia avesse come simbolo un gallo con chiaro riferimento ai Galli, abolendo l’emblema del giglio della dinastia dei Reali francesi. E’possibile quindi che abbia scelto Forlì per il forte legame coi Celti. Nonostante il toponimo di Forlì sia di origine romana, la città ha avuto connessioni con i Goti, non avrebbe senso altrimenti lo sposalizio di Galla Placidia col re dei Visigoti Ataulfo svoltosi a Forlì. Un simbolo della città  è il gallo e gli atleti della squadra calcistica forlivese  vengono tuttora chiamati i  “Galletti”. L‘abbazia di San Mercuriale è una basilica che si trova nel centro della città. È l‘edificio più noto, su Mercuriale esistono varie storie. Le leggende possono sembrare sciocche, sono invece assai istruttive se decodificate. A Rimini un pagano di nome Tauro scherniva i cristiani sbeffeggiando l’Eucaristia. I Santi, Mercuriale di Forlì, Ruffillo di Forlimpopoli, Leo di Montefeltro, Gaudenzio di Ri­mini e Geminiano di Modena, accettarono la sfida di Tauro: tutti insieme consacrarono le ostie e le det­tero a Tauro; costui le inghiottì, ma morì allo stesso modo infame di Ario ( 256/336). Questa leggenda ricorda la disputa sulla transustanziazione, svoltasi attorno all’anno 1000 quando il filosofo Berengario da Tours  dichiarò che non avveniva alcuna trasformazione del pane e del vino durante l’Eucarestia. Il riferimento ad Ario è parallelo, in quanto l’arianesimo fu considerata un’eresia, nonostante fosse assai diffuso nei primi secoli del cristianesimo fra i popoli germanici. La seconda leggenda riguarda un drago che infestava la zona tra Forlì e Forlimpopoli.  San  Mercuriale e San Ruffillo lo sconfissero ponendogli le loro stole at­torno alla gola, lo immobilizzarono ed infine lo chiusero in un profondo pozzo. In tutte le leggende il drago simboleggia il paganesimo, evidente che la zona di Forlì era sotto l’influenza religiosa ariana, con le buone, attirandoli nei luoghi di culto, Mercuriale e Ruffillo evangelizzarono il territorio. In un altro racconto Mercuriale andò a Gerusalemme tornando con molte reliquie, e liberò il popolo di Forlì dalla schiavitù del re di Spagna( Alarico). Un altro episodio narra di Mercuriale che si recò in Spagna presso Alarico , lo guarì, ottenendo la liberazione di oltre duemila schiavi forlivesi. Questi  racconti testimonierebbero  il forte legame di Alarico e quindi dei Visigoti con Forlì, dove esiste tuttora Porta Schiavonia, toponimo che evoca gli schiavi deportati dal re goto, qui un tempo vi era un dipinto raffigurante la Madonna del Fuoco tra i Santi Mercuriale e Valeriano. La patrona di Forlì è la Madonna del Fuoco, che si festeggia il 4 febbraio, nello stesso giorno si festeggia la Madonna del Lago a Bertinoro, luogo legato ad una leggenda guarda caso su Galla Placidia. Presso i Celti i primi di febbraio si festeggiava Imbolc  e si onorava Brigid, dea del triplice fuoco, dei poeti, dei fabbri  e dei guaritori. Brigid è anche dea delle sorgenti  e  Signora del Lago, colei  che forgia e dona Excalibur ad Artù. Suoi simboli sono la coppa, cioè il grembo da cui nasce la vita, lo specchio che simboleggia il mondo parallelo e la ruota dell’anno e della vita. A proposito di ruota, singolare  è Il Santuario della Madonna  di Fornò (vicino Forlì) a pianta centrale, meraviglioso disco di pietra planato sui campi…  ma questa è un’altra storia. 

immagine: Napoleone ritratto da Jacques-Louis David           

articolo già pubblicato sul quotidiano “La Voce di Ravenna” il giorno 07/04/2014